Direzione Est: India

Dopo una settimana di segregazione dietro al volere della scorta armata, non siamo per niente dispiaciuti di lasciare il Pakistan. Entrare in India è una vera e propria liberazione, un tuffo improvviso nei colori… e nello smog!
29 gennaio 2018

Arrivati ad Amritsar, non ci mettiamo molto a capire quale sarà il nostro prossimo problema: per strada vige una sola regola, la legge della giungla, la legge del più forte, meglio conosciuta come quella del clacson più potente. Il resto non conta: il senso di marcia, la divisione in corsie della carreggiata, le regole di sorpasso, tutto è lasciato alla libera scelta di ogni singolo conducente. Chiunque può guidare ovunque, perciò anche nelle strade a percorrenza veloce è permesso il transito a tuk-tuk (i tipici taxi a tre ruote)), motorette, carri da traino, biciclette, ma anche a pedoni, animali e mezzi di locomozione non ben identificati. Eravamo perfettamente al corrente della complessità del traffico indiano, ma nonostante ciò riesce comunque a sorprenderci. Lo stesso vale per il Golden Temple, il più sacro tra i templi sikh, che ci dà ufficialmente il benvenuto nel Paese e nel mondo induista. Ciò che ci conquista è la celebrazione del patriottismo che giornalmente si evoca in occasione del cambio della guardia: centinaia di uomini, donne e bambini, con le facce dipinte di bandiere e di gioia, esprimono il massimo orgoglio per le proprie origini, con danze sfrenate e cori da stadio.
La preoccupazione per la frenesia del traffico cresce al pensiero di dover raggiungere Delhi: un’inevitabile, enorme metropoli ci apre le porte ai suoi numerosi templi, all’ambasciata del Myanmar a cui dobbiamo rivolgerci per ottenere il prossimo visto (di fatto la vera ragione per cui siamo nella capitale), e all’alto tasso di inquinamento che offusca anche il sole.
Scappiamo verso una delle sette meraviglie del mondo, il Taj Mahal di Agra. E’ impossibile rimanere indifferenti davanti alla maestosità dell’edificio, grande quanto l’amore provato per la donna a cui è dedicato.

Il nostro viaggio prosegue, ed è la volta del Rajastan: Jaipur, la caotica città rosa invasa dalle scimmie, quanto Udaipur, la piccola Venezia indiana dai magici tramonti, sono l’ennesima conferma di quanto l’uso del clacson sia estremamente fondamentale alla sopravvivenza stradale. Purtroppo qui iniziamo a renderci conto anche del secondo grande problema che affligge (come scopriremo più tardi) l’intero Paese, ossia la sporcizia: cumuli di spazzatura invadono ogni città, viuzze maleodoranti colme di escrementi di animali da fattoria sono all’ordine del giorno, in quanto mucche, capre, asini, cani e maialini vivono liberi e felici tra la folla urbana. Spesso i rifiuti provengono direttamente dai veicoli in corsa, si librano in aria come foglie d’autunno e si abbandonano lenti ai bordi della carreggiata. Solo al momento in cui il mucchio di spazzatura diventa di dimensioni ingestibili, allora ecco che tutto viene raccolto…e bruciato, e riducendosi rapidamente in cenere scompare dalla faccia della terra, lasciando spazio alla natura. L’acqua dei fiumi scorre putrida, ma senza impedire a chi lo desidera di approfittarne per fare il bucato o la doccia.

Stanchi del caos cittadino, tentiamo le strade interne di montagna speranzosi di trovare un pò di quiete e solitudine, ma ci sbagliamo. Ci rendiamo conto che, nel bene e nel male, non saremo mai soli: il numero di abitanti dell’India è quasi pari a quello della Cina, e quindi di gran lunga più alto di quello che in realtà il Paese sia in grado di ospitare. Di conseguenza, innumerevoli sono le persone che si incuriosiscono nel vederci in sella e che ci assalgono di domande, assetati di curiosità: l’entusiasmo dei bambini si oppone alla vanità dei ragazzi più grandi, desiderosi di scattare selfie come se non ci fosse un domani. Ci accorgiamo con dispiacere quanto la ormai celebre fiera dell’egocentrismo affligga anche l’oriente.
Ellora ci regala una fantastica giornata tra le grotte, ma ciò che ci lascia senza fiato è sicuramente la grotta numero 16, il Kailasa Temple, un megalito scavato su un’unica roccia. Hampi invece è un vero e proprio viaggio nel libro della giungla, immerso nella natura e abitato dalle scimmie.

L’avventura prosegue nella regione del Goa, dove ci concediamo un pò di relax nella tranquilla spiaggia di Palolem: facciamo il bagno nell’oceano indiano, gustiamo del delizioso pesce fresco e ci addormentiamo cullati dal suono delle onde.
Dopo aver cambiato le ruote alla nostra Motorbye siamo pronti a ripartire alla volta di Murudeshwara, dove la solenne statua di Shiva troneggia sulla costa. Ormai solo pochi chilometri ci separano dalla regione del Kerala, l’indiscussa patria delle Backwaters. Qui le strade si restringono e l’asfalto si riempie di buche, ma la nostra meta si avvicina, e dopo tanta fatica arriviamo a Cochin.
Stremati dalle difficoltà del traffico, decidiamo di spedire la moto a nord via treno: l’impresa non risulta semplice, ma grazie all’aiuto di Mr. Kartha, il simpatico “boss” della stazione, riusciamo a trovare la giusta soluzione per mandare la moto fino a Siliguri, dove la raggiungeremo per via aerea la settimana seguente.
L’ultima tappa indiana è quella che ci porta fino al confine con il Myanmar, anche stavolta non privo di ostacoli: strade troppo rotte, a tratti fangose e piene di sassi, rallentano l’uscita da un Paese che fino alla fine ci mette a dura prova, quasi come se non volesse farci andar via. Ma anche quel momento arriva, e dopo qualche giorno di riposo a Imphal siamo pronti a continuare in direzione est!
“Traffico e sporcizia”: in molti, probabilmente, riassumerebbero così i nostri 45 giorni in India e, probabilmente, non potremmo biasimarli. Capiamo che non sia semplice amare l’India, eppure a noi riesce impossibile odiarla: non scorderemo mai le distese a perdita d’occhio dei campi di banani, il pungente profumo di pollo al curry, i pupazzi appesi per le orecchie a bordo strada, le corse da videogioco in tuk-tuk. Nel bene e nel male, dietro “traffico e sporcizia” si nasconde ben altro.

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