Nico Cereghini: “Peterhansel il motociclista”

Nico Cereghini: “Peterhansel il motociclista”
Nico Cereghini
  • di Nico Cereghini
L’ho visto esordire ventiduenne alla Parigi-Dakar dell’88 e poi vincere tre anni dopo, sempre con la Yamaha. Classe e talento, il francese, oggi in auto, è semplicemente il migliore
  • Nico Cereghini
  • di Nico Cereghini
17 gennaio 2017

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Ciao a tutti! La Dakar si conferma dura, la più dura gara del mondo. Cambia il continente, cambia la natura del percorso, ma quando si corre per tanti giorni e tanti chilometri, allora non ci sono dubbi: emerge il migliore. Ha vinto per la prima volta Sam Sunderland, e certamente l’inglese è forte, ma per la KTM (con tre moto sul podio) è stato il sedicesimo successo consecutivo, una vera e schiacciante supremazia. Ed ha ugualmente dominato tra le auto la fortissima Peugeot con il re della corsa, Stephane Peterhansel: che ha cominciato a vincere nel 1991 con la moto, poi nel 2004 con l’auto, e non ha mai smesso. In totale, il francese ha vinto tredici volte. Qui svettano gli specialisti, e soltanto i migliori tra loro.


Non voglio rubare il mestiere a Piero Batini - che per noi ha seguito la Dakar con la passione di sempre - ma semplicemente portare una testimonianza in più: ho visto in azione Stephane nei suoi primi chilometri africani, l’ho visto al debutto ventinove anni fa, quando, nell’88, vinse per la prima volta il nostro Orioli; e c’ero quando trionfò tre anni dopo. “A guidare è il migliore – mi diceva Edi, che pure di Parigi-Dakar ne ha conquistate quattro - con la manetta non ha rivali. E poi sbaglia pochissimo”. Peterhansel ha vinto tanto anche nell’enduro, fu due volte campione del mondo: enorme classe e gran talento.


Ricordo che al suo esordio africano il giovane francese, che aveva ventidue anni e mezzo, già fu capace di vincere una difficile speciale nel Mali: da Toumbouctou a Nampala, 378 chilometri. Quella decima edizione vedeva i motociclisti italiani protagonisti (Orioli, Picco, che era stato a lungo in testa, Terruzzi, De Petri, Gualdi, Medardo, Findanno, Gualini e tanti altri) e con le telecamere di Mediaset seguivamo soprattutto i nostri. Il lavoro era tanto, senza contare che tra incidenti e vittime quella fu una Dakar veramente impegnativa e terribile. Però il mio amico JC Olivier, manager e pilota del team Yamaha Sonauto, spingeva Peterhansel e io non lo persi di vista. Ricordo che nelle sue dichiarazioni era timido e misurato, molto diverso dai suoi connazionali. I francesi, sul “loro” rally, erano di solito piuttosto prepotenti: la corsa è nata in Francia, e poi nelle ex-colonie si sentivano ancora i padroni di casa. Pochi, dei “galletti” francesi, mi piacevano davvero: Serge Bacou, Gilles Lalay, che purtroppo sarebbe scomparso quattro anni dopo, e appunto Stephane Peterhansel. Tre ragazzi a posto, veloci, consistenti, protagonisti senza darsi troppa importanza. Non mi ha stupito, in seguito, vedere che Stephane sapeva crescere fino ai massimi vertici della specialità e trasferire al volante di un’auto le stesse qualità che aveva da motociclista: la velocità, l’intelligenza tattica, la precisione e l’umiltà. Il suo è un palmarès che fa spavento: in ventotto partecipazioni tredici successi (sei in moto e sette con l’auto), altri tre podi e tre quarti posti, soltanto quattro ritiri.


La Dakar è unica, è una gara dove il percorso è sempre nuovo e devi andare forte improvvisando. Non puoi andare al cento per cento, devi concludere, vai al novanta. Ma se il tuo novanta per cento vale più del mio, se ne hai viste tante, conosci perfettamente il tuo mezzo e il tuo fisico, conosci la sabbia e il fango e la navigazione, allora vinci tu. Anzi Peterhansel.

Peterhansel alla Dakar

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