Dakar 2015, italiani. L’odissea dei fratelli Brioschi

Dakar 2015, italiani. L’odissea dei fratelli Brioschi
Piero Batini
  • di Piero Batini
I numeri della Dakar 2015 parlano chiaro: oltre il 50% dei motociclisti è stato costretto all’abbandono. I fratelli Marco e Alberto Brioschi non sono sfuggiti alla mannaia delle statistiche. Solo Marco all’arrivo | P. Batini
  • Piero Batini
  • di Piero Batini
23 gennaio 2015

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La Dakar dei Fratelli Alberto e Marco Brioschi è stata un’autentica, come cita lo strillo della Dakar, Odissea. Sfortunati entrambi lo scorso anno al debutto, non sono “usciti” contenti neanche dall’edizione 2015, sebbene Marco sia riuscito nell’impresa. Ne hanno da raccontare, cercano di essere obiettivi, ma sono emotivamente, non solo fisicamente, provati. Alberto è dispiaciuto, deluso, quasi non riesce a farsi una ragione. Marco non può essere contento. Hanno partecipato da fratelli, hanno preparato tutto insieme, decisi ad aiutarsi a vicenda e a superare la prova entrambi. Marco è commovente, si percepisce chiaramente che la sua gara non può prescindere dall’esito di quella del fratello. Anche portata a termine è una Dakar incompiuta. Ecco una sintesi della loro avventura.

 

Inizia Marco Brioschi. «Ne avrei da raccontare, di questa odissea. Sono partito preparato, sapevo che la gara sarebbe stata difficile, con ritmi altissimi, ma mai mi sarei aspettato un’odissea di questo genere, giorno dopo giorno. Già della seconda tappa ricordo benissimo il caldo atroce e il fesh-fesh. I cento chilometri di pista sabbiosa, tutto senza una logica. Mi pare quasi cinismo, mi sembra che abbiano cercato di alzare lo “share” cercando, non so, un fatto eclatante, clamoroso. Non voglio aggiungere altro. Ricordo le montagne, ricordo i meno dieci sulle Ande. Non ha una logica. Non una logica accettabile. Non puoi pensare di partire per una tappa della Dakar a meno dieci e poi entrare in speciale a trenta gradi, e poi tornare su un passo previsto a meno cinque e trovarne 15 ma essere vestito per l’ultra freddo. È stata comunque una sofferenza. Tappe da 900 chilometri con 500 di trasferimento e il passo sulle Ande, e poi la speciale. Tappe di mille chilometri come la Salta-Rosario. All’ultimo abbiamo avuto la possibilità di caricare la moto sul furgone, sì, per i 500 chilometri di trasferimento, ma noi siamo stati fortunati. Fortunati noi perché il Team Pedrega era preparato per l’evenienza. Immagino cosa ha provato chi non ha avuto questa fortuna e non era organizzato!».
«Non sono sicuramente soddisfatto di questa Dakar, che in ogni caso avrei voluto portare a termine insieme a mio fratello. Il risultato? È il podio d’arrivo, oltre ogni mia più rosea prospettiva. Certo. Se faccio mente locale alle grandi smanettate, al piacere di andare in moto, bene, forse solo una tappa è stata così».

 

Alberto. «La mia gara, invece, è finita sul lago salato. Si è rotta la moto, ho mandato via mio fratello, che lui almeno potesse finire, e non so ancora bene cosa sia successo. Ho provato a lavarla con l’acqua dolce, a ripulire il carburatore, ho cambiato la bobina e non so quante volte il filtro della benzina, controllato tutto l’impianto elettrico sepolto in una crosta di fango e sale. C’era troppa acqua, in un periodo che, dicono i Boliviani che sono venuti a prendermi con un pulmino, il Salar dovrebbe essere secco. Averci mandato dentro a centocinquanta all’ora, con l’acqua salata che arrivava al polpaccio, probabilmente è stato un azzardo. È diventata una lotteria. Ad altri la moto è rimasta insieme, la mia si è rotta e ho dovuto ritirarmi, come molti altri. E già la prima parte della gara era stata, come ti ha detto Marco, al di sopra dei nostri timori. Eravamo pronti, preparati per una gara dura, ma mai così. È pur sempre una Dakar, ma al nostro livello, siamo amatori come gran parte dei partecipanti, il piacere di andare in moto non esiste. Io sono stato sfortunato, mi sono fermato sul Salar dopo essere riuscito a superare una tappa drammatica. Anche lì, una tempesta di pioggia. Un’ora prima c’era la terra, quando siamo arrivati noi c’era un fiume in piena, un Po. Un’ora e mezza al freddo e al gelo ad aspettare che il livello dell’acqua scendesse…».

 

Allora io mi domando: ma visto che c’erano quelle condizioni, a che pro l’organizzazione ha mandato avanti la corsa? Non hanno pensato alle conseguenze? Quanti eliminati proprio lì?

Pensate di tornare?
Alberto. «In questo momento la delusione è troppo forte, e sono condizionato dallo stato d’animo, ma non penso di tornare. Per due anni di fila è stata una delusione troppo grande. L’anno scorso per sfortuna, quest’anno perché mi si è rotta la moto, in un momento in cui pensavo che ormai il peggio era passato e che ce la potevo fare. Avevamo superato l’impasse della seconda tappa, il tratto finale, micidiale, che poi gli organizzatori hanno pensato bene di neutralizzare. Siamo arrivati a Copiapò, ad Antofagasta, ad Iquique su piste rotte e disastrate dal fesh-fesh, chilometri e chilometri di dritto. Pensavo di aver ormai messo alle mie spalle la parte più dura. Invece mi sbagliavo. La Bolivia doveva essere una Marathon relativamente tranquilla. No, ecco la tempesta, la decisione di mandarci nel Salar allagato contro ogni logica, solo perché le macchine avevano trovato asciutto, per lo spettacolo…».

Marco. «Allora io mi domando: ma visto che c’erano quelle condizioni, a che pro l’organizzazione ha mandato avanti la corsa? Non hanno pensato alle conseguenze? Quanti eliminati proprio lì? Vedi Botturi, vedi Barreda, gli altri. So per certo che la Honda ha presentato un reclamo. Ma chi prende le decisioni? Non importa, chiunque sia stato quella volta ha preso la decisione sbagliata. È un dato di fatto. Era una lotteria, non dipendeva dalla bravura. No, non vedo un motivo per ritornare, e penso che come noi molti altri avranno riflettuto allo stesso modo!».

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