Nico Cereghini: “Il Curvone da fare in pieno”

Nico Cereghini: “Il Curvone da fare in pieno”
Nico Cereghini
  • di Nico Cereghini
La velocissima curva monzese e la sua tragica storia. Per capire come negli anni è cambiata la percezione della sicurezza e quindi la cultura. Ma attenti: la velocità resta la minaccia più grave per tutti noi
  • Nico Cereghini
  • di Nico Cereghini
2 aprile 2019

Ciao a tutti! Si fa fatica a crederlo, oggi. E ve lo racconto proprio per farvi capire come si ragionava ieri, come fosse per noi assolutamente naturale concepire e poi realizzare le cose più estreme senza minimamente percepirne la pericolosità. Di come, non dico negli anni Cinquanta, ma ancora nei primi Settanta, mancasse la minima cultura della sicurezza, di come tanti come noi se ne sono andati prematuramente, silenziosamente, e mi verrebbe da dire anche inutilmente. Purtroppo. Su strada, e naturalmente anche in pista.


Il Curvone di Monza (o curva Grande, curva Nord, curva Biassono): quasi un angolo retto, di raggio molto ampio, circa 300 metri, è lì da vedere in tutte le piantine dell’autodromo. Una lunga curva destrorsa che fino al 1973, in assenza di qualsiasi variante, con le 500 da GP chiedeva di scalare una marcia e accarezzare i freni. Le MV e le Benelli ci arrivavano a circa 250 all’ora: dalla curva Parabolica uscivano sui 160 o 170 orari e il rettilineo dei box e della tribuna centrale valeva circa 1.200 metri. Ma le 500 erano l’eccezione, e con le altre moto meno potenti c’era un solo modo per fare il Curvone come si doveva: “in pieno”. Cioè in quinta a gas spalancato, anche con le 750 come la Laverda SFC o la Honda CB Four. Te lo dicevano tutti, dai Brambilla ai Bonera fino all’ultimo dei piloti cadetti: “se sei davvero forte devi farlo in pieno”. Solo che arrivandoci tu neanche la vedevi, la curva: vedevi solo una barriera metallica che pareva messa di traverso, come se la pista fosse chiusa da un lungo guardrail. Solo quando eri molto vicino, all’ingresso vedevi finalmente il varco.


Prima ancora di girarci con la moto, quando ancora ne avevamo soltanto la voglia, si andava a vedere come giravano i piloti veri con le Aermacchi e le Yamaha 250 e 350, con le prime Laverda S e le Norton Combat. Si andava fino a bordo pista, tra gli alberi all’interno del Curvone, dietro la rete metallica. Ebbene, la verità è che quasi tutti “pelavano”. Pochi tenevano davvero il gas spalancato, e siccome il motore dentro la curva calava di giri, e lo si sentiva benissimo, ci domandavamo se questo calo fosse l’effetto dello schiacciamento della moto per via della forza centrifuga alle alte velocità, o piuttosto fosse una “furbata” del pilota, che magari faceva una leggera pressione sul pedale del freno. Mai capito davvero, ma penso che sia più probabile la seconda ipotesi.


Poi ci provammo in prima persona, e scoprimmo che con la SFC non era impossibile. Si arrivava intorno ai 215/220 reali, e ci si stava dentro. Era molto impegnativo, il polso destro cercava di bypassare il cervello e decidere per conto suo, istintivamente voleva parzializzare almeno un pochino. Ma non glielo lasciavi fare. Questione di volontà. Anche se la moto era poco agile, anche se a buttarla giù a destra, a pieno gas, era parecchio pesante. Noi premevamo forte sulla pedana esterna e tiravamo il semimanubrio sullo stesso lato. E dentro. Anche se in mezzo al Curvone c’era una giuntura dell’asfalto, un saltello che ti spostava sulla sella.


Ricordo bene la mia prima 500 km di Monza del ’72, e soprattutto la prima mezz’ora nel gruppo di testa, a manetta dentro quel Curvone a pochi centimetri dalle Triumph e dalla Guzzi dei fratelli Brambilla. Fu proprio lì che Tino Brambilla coniò la celebre battuta: “Eravamo così piegati che l’aquila, sul serbatoio della V7 Sport, aveva tirato dentro le ali…”. Poi con la Laverda perdemmo terreno e alla fine bucammo un pistone. Il fatto è che la velocità ti entrava dentro, le piste molto veloci ti davano quell’euforia speciale: più giravi e più ti pareva di essere fermo, avevi la percezione che fosse il nastro dell’asfalto a scorrere sotto le tue ruote, come in un videogame. Alla velocità ci si abitua in fretta. Solo quando cadi ti rendi conto. Nemmeno un anno dopo avremmo scoperto improvvisamente quanto distruttivo fosse quel gioco: il 20 maggio furono Pasolini e Saarinen a lasciarci la vita, con le loro 250 nel GP delle Nazioni. E in quello stesso, maledetto Curvone, morirono quarantacinque giorni dopo anche tre piloti come noi, i dilettanti Chionio, Colombini e Galtrucco. Monza fu chiusa alle moto, più avanti fu modificata. Vi racconto tutto questo per farvi capire quanto può cambiare la percezione della sicurezza. Come può cambiare nel tempo, e anche dentro di noi. Ma la velocità è pericolo. Sempre.

Nico, il curvone