I Racconti di Moto.it: "Sentire"

I Racconti di Moto.it: "Sentire"
Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
Nove gare alla fine, nove occasioni non sono poche e c’è una sola cosa che devi fare per finire in bellezza la tua carriera...
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
23 agosto 2013

Punti chiave

 

 Nove gare alla fine, nove occasioni non sono poche e c’è una sola cosa che devi fare per finire in bellezza la tua carriera. Hai già fatto il passo più difficile risalendo in sella dopo l’incidente durante la partenza della terza corsa della stagione, quando dalla pole costringevi ogni altro concorrente a temerti per la tua aggressività sportiva; tu, tanto duro con gli avversari in pista quanto gentile fuori dai circuiti. Questa cosa li manda in bestia: di fronte ai microfoni i tuoi avversari hanno dovuto sempre riconoscere a denti stretti la tua signorile superiorità, non trovando una scusa per criticarti. Lo sai che attendono il tuo passo falso, una tua momentanea perdita di controllo, o anche solo una parola fuori posto che possa legittimarli a sparare a zero su di te e sulla tua superiorità negli ultimi due anni. Muoiono dal desiderio di insinuare il dubbio: le solite polemiche dei perdenti che pensano che sulla tua stessa moto farebbero gli stessi tuoi risultati.
Stamane hai la prima gara dopo l’incidente, qualificato in sesta posizione: seconda fila. È dura.

L’incidente ha avuto una dinamica inusuale, poco chiara: la moto che in partenza sobbalza e sbuffa, si impenna riprendendo l’assetto corretto solo dopo che il motore è sceso di giri e tu che ricordi solo gli altri che ti sfilano, il gas che non ti sembra mai aperto abbastanza, la rabbia di recuperare tutto alla prima curva in avvicinamento veloce, il cambio che non trova la marcia giusta, le ruote bloccate e l’incredibile, inevitabile, collisione con il pilota numero 44: la moto cambia direzione e impatta contro le barriere laterali del rettilineo di partenza lanciandoti in aria quando il contatto con il duro cemento fracassa l’avantreno.

Atterri sul casco, non ti rendi nemmeno conto di essere oltre le reti, nella corsia che affianca il rettilineo e cerchi la motocicletta, vuoi riprendere la gara stordito ma non vinto; visto dalla televisione sembri un ragazzino ubriaco che gioca a mosca cieca, non capisci, non sai dove andare, non realizzi che la tua gara è finita lì e che il tuo sentirti invincibile era un miraggio. Le immagini indugiano su di te che giri in tondo con le braccia tese a cercare un manubrio che non c’è e sulla visiera penzolante dal casco graffiato; fai sempre più impressione e spaventi gli spettatori affamati delle ore quattordici.

Chissà a quanti è scappato un sorriso divertito e a chi è magari uscito dalle labbra un cattivo “finalmente”. Tu non ricordi, ma poi hai smesso di fare il rabdomante di manubri e ti sei accasciato al suolo come se avessero tirato la leva del decompressore.

Ti hanno caricato in barella e portato in infermeria, tutto l’ambiente delle corse tremava per te, da casa anche le casalinghe attraverso twitter hanno fatto capire al mondo che la paura era tanta, mentre rifacevano i piatti della domenica e la seconda moka era già sul fuoco. I ragazzini sui divani chiedevano al loro papà che succedeva ma il loro papà spesso era a fare altro mentre quei pochi che ancora si riuniscono a vedere un gran premio nei bar e nei locali con la televisione ordinarono un’altra birra o un altro caffè, perché era successo qualcosa che non doveva succedere e crepi l’avarizia sarebbero rimasti a parlarne con gli altri avventori fino a sera.

C’era caldo in Italia quella domenica di luglio, la domenica dell’incidente.
Poteva andarti peggio; il comunicato stampa dall’ospedale parlava solo di una commozione cerebrale guaribile in poco tempo e di contusioni sparse, evidentemente la protezioni della tuta avevano funzionato bene, il casco era fessurato da una spaventosa faglia lunga venti centimetri ma non si era aperto.

Nonostante questo i medici ponevano forti riserve sulla tua capacità di risalire in motocicletta: la botta alla testa era stata terribile e prima ancora che il nebuloso referto medico era il tuo stesso volto spaurito e un po’ annebbiato a consigliarti di saltare il gran premio. Pure quello dopo, e poi un altro, e poi quello seguente, così per più di due mesi. Noncuranti della rabbia che avevi dentro per avere perso il campionato così, senza appello, i medici ti chiesero di aspettare, di fare altre analisi ed esami. Tac ok, risonanza ok. L’unica cosa realmente strana era il tuo sguardo fisso sul volto dell’interlocutore e gli occhi spalancati che non sbattevano mai le ciglia, sembravi normale ma non convincevi fino in fondo.

Il silenzio era diventato il tuo compagno abituale, parlavi poco, soprattutto per dire che eri stanco e che volevi tornare a casa e stare un po’ da solo, riprendere le forze; nel frattempo divoravi decine di film in dvd in lingua originale, soprattutto americani, mettendoci i sottotitoli in inglese e tenendo l’audio bassissimo per non disturbare. Rifiutavi le visite non indispensabili come quelle dei colleghi, ringraziando con gentilezza e apprezzando con cinguettii la gentilezza di tutto l’ambiente delle corse che ti era accanto in questa tua pausa forzata, promettendo di tornare non appena ti saresti sentito pronto.


Giovedì hai finalmente preso l’aereo e sei andato a trovare il team sul circuito di gara, senza accompagnatori, senza annunciarti. Ti sei portato solo un borsone con il casco e con la tuta, perché di restare senza correre non ne potevi più ma non volevi creare aspettative. Ti saresti fatto valutare dalla commissione medica del circuito e se per loro fossi stato idoneo avresti preso parte alla gara. Ti sentivi emozionato ma pronto, c’era comunque in gioco la tua carriera, non volevi che fosse un incidente a farti dire basta; c’è chi lascia da campione del mondo, chi lascia solo alla fine di una patetica parabola discendente più o meno ripida e chi invece abbandona le corse perché il destino è beffardo; se non fosse stato possibile ritirarsi da campione del mondo non avresti comunque mai permesso ad un incidente di decidere per te. Il tuo ritiro sarebbe stato comunque memorabile, mitico.


Sei rimasto concentrato e la visita con la commissione medica del circuito l’hai passata nonostante lo sguardo interrogativo e impaurito, mettendo di malumore lo sponsor dicendo che per questo gran premio e per tutti i successivi non avresti rilasciato interviste, al massimo avresti risposto alle domande in forma scritta. Dicesti che era per mantenere la concentrazione, per cercare di ritrovare la fiducia nella moto che quell’incidente così strano aveva minato.

Tutti notarono il tuo essere laconico ma determinato e vi fu chi disse che era il minimo, dopo tutto quello che ti era accaduto.


Le sessioni di qualificazione furono difficili, sia in pista che nei box. Il team faceva una gran fatica nel cercare di carpirti le impressioni per andare avanti nel set-up della motocicletta. I risultati furono deludenti. Ventesimo il venerdì e soltanto sesto il sabato. In squadra le consegne erano di parlare poco e attendere la gara in silenzio.

Sabato sera andasti a dormire da solo, molto presto. Le tue abitudini erano saltate e ci fu chi pensò che la botta doveva averti ammattito o maturato.
 

E adesso, sesta posizione in griglia. Nessuno sospetta nulla ma sarà molto difficile fare una buona gara. C’è una sola cosa da fare se vuoi vincere per un’ultima volta. Ci vuole una bella rimonta, concentrazione, capire la moto facendo affidamento solo sulle vibrazioni, non farsi distrarre.
Sulla griglia di partenza i tecnici ti parlano, ma non importa.


Telecamere e titoli solo per te, gli altri piloti solo dei comprimari a dare scena al tuo trionfale rientro che sorprenderà ancora di più quando il paddock saprà la verità e il conto in sospeso con la storia delle corse sarà regolato; speravi, e ne avevi tutti i diritti, di trovare posto nella mitologia delle gare di velocità come il pilota simbolo di un’era, vincere almeno dieci mondiali e quando i tempi sarebbero stati maturi tentare una doppietta cercando di conquistare il titolo in due classi nello stesso anno, fregiandoti del blasone di pilota più forte degli ultimi trent’anni, forse il più forte di sempre, senza se e senza ma da bar e da commenti sui siti internet rilasciati da sedicenti esperti che scrivono in pausa pranzo nascosti dietro nickname improbabili. Purtroppo il destino ha avuto la mano pesante e i tuoi sogni di gloria si sono schiantati dopo l’urto con il pilota numero 44, oggi assente perché le sue condizioni sono più gravi di quel che sembrava.


C’è una sola cosa da fare.
Il semaforo si spegne, è il momento più delicato: full gas e fiducia nella stessa infida elettronica che ti ha tradito, liberi i 250 cavalli in prima marcia, seconda, terza, fino a sentire la moto trattenerti un attimo e passare alla quarta giusto il tempo di frenare e passare tra due piloti in lotta per la quarta posizione mentre scali due rapporti.

La folla si accende e gli sponsor sono felici quando la tua rimonta continua fino alla fine della gara, regalando al mondo la tua inaspettata vittoria e a te la soddisfazione di avercela fatta, di essere il più forte, di avere vinto nonostante quel terribile si bemolle sui 4000 Hz che riempie l’altrimenti silenzioso mondo che abiti. Quando ti sei trovato in ospedale quella domenica di luglio hai capito che se avessero scoperto che eri appena diventato sordo non avresti toccato mai più un manubrio; l’incidente, lo shock, la testa che scoppia, il mondo che tace improvvisamente e l’acufene fortissimo che prende il posto di tutto l’universo sonoro per sostituirlo con una nota da sassofono. Già in barella avevi capito tutto e progettato il tuo memorabile rientro con colpo di scena.

Nel letto d’ospedale hai pensato che i piloti tornano in pista con una clavicola rotta, una gamba ingessata, viti in corpo, alcuni con la febbre alta, altri completamente fasciati e posti sulla sella dal team: tu avresti fatto di meglio perché sei il migliore e il più determinato, saresti tornato in pista e vinto con un senso in meno per riprenderti per sempre lo scettro di fuoriclasse assoluto e irripetibile; avresti fatto capire al mondo intero di avere perso l’udito e poi avresti annunciato il ritiro, un attimo prima che la tua licenza fosse diventata carta straccia.

Per mettere a tacere tutti c’era una sola cosa da fare. Sentire.


Il giro d’onore è in silenzio, ti fermano per darti la bandiera mentre senti le botte sulla schiena che vogliono essere pacche, vedi i volti spiritati degli esagitati che hanno invaso la pista e ti urlano, ma mancano i sottotitoli e i film in lingua non ti hanno ancora insegnato a leggere il labiale dell’esaltazione sportiva e fanatica, tu saluti con un burn-out con gli occhi fissi al contagiri e le mani, il sedere, le gambe pronte a sentire la moto che scappa, mentre già pensi al parco chiuso e ai giornalisti.
Alla prima intervista ti faranno domande idiote e tu risponderai che, per vincere le gare, la moto la devi sentire.

Sì, inizierai così la tua fuga dalle corse: ti sfilerai il casco facendo notare che non hai i tappi nelle orecchie e alla prima domanda risponderai che se vuoi vincere, la moto la devi sentire. Poi capiranno.

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