I Racconti di Moto.it: “Primo tagliando”

I Racconti di Moto.it: “Primo tagliando”
Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
“Ma quanto ci mettono per un cambio olio”, pensava Simone seduto sul sofà della lussuosa sala d’aspetto del concessionario; soprattutto si interrogava su quanto dovesse costare al chilo l’olio motore...
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
22 marzo 2013

Punti chiave

 “Ma quanto ci mettono per un cambio olio”, pensava Simone seduto sul sofà della lussuosa sala d’aspetto del concessionario; soprattutto si interrogava su quanto dovesse costare al chilo l’olio motore, dato che era già passato dalla cassa e aveva sborsato, per il primo tagliando della sua nuova motocicletta, una discreta sommetta. Ottocentovirgolazerozero, aveva scritto sull’assegno preteso con un gran sorriso dalla signorina con la gonfia camicetta bianca e Simone, notando che qualche bottone aveva già reso le armi, pensò che piazzano una avvenente e seducente signorina alla cassa/reception per stordire i clienti ed evitare i mugugni per quegli esosi esborsi. Una volta firmato il suo cheque, lo aveva abbandonato tra le mani della ad ogni modo gentilissima ragazza e aveva per un attimo fantasticato su fantasie erotiche dove la procace signorina recitava la parte della mistress; gli venne in mente che sborsare 800 euro per un misero cambio olio era certamente un po’ sado-maso: avrebbe potuto vendere l’idea ad un produttore di film hard, ma poi, sia la sensazione di trascendere, quanto l’odiosa e vaga sensazione di essere un pollo da spennare in un gioco dove la segretaria, i meccanici, i venditori e forse pure i dirigenti della concessionaria erano delle pedine manovrate da un potere occulto, lo riportò con i piedi per terra e alla noia, in attesa che la motocicletta gli venisse restituita tagliandata e lustra.

Però: lo chiamavano “tagliando veloce”, ma erano le otto di sera e lui attendeva chiuso lì dentro, al secondo piano cantinato di un modernissimo palazzo in pieno centro città, da più di due ore: c’era di che diventare matti e Simone era un tipo molto ansioso, metodico, per certi versi pure compulsivo e dalle reazioni a volte esagerate; sperò che non fossero emersi difetti che avrebbero reso necessaria una riparazione, della garanzia non si fidava affatto e nel frattempo passeggiava da solo su e giù per la sala d’aspetto a vetri, sfogliava senza leggerli giornali del semestre precedente e attendeva di udire il vagito della moto un po’ come fanno gli uomini nel reparto ostetricia.

La gente in uniforme che prima vedeva aggirarsi laboriosa per quel cantinato dipinto di bianco-azzurro e che mostrava una irregimentazione quasi militare, era mano a mano scomparsa e in quegli ultimi minuti che restavano prima della chiusura della concessionaria nessuno più rompeva il silenzio a colpi di passi. Stufo di aspettare e con un timido scatto di orgoglio pagante, Simone aprì la porta della sala d’attesa e mise la testa fuori, tanto per capire se era tutto normale.

Col cappero che era tutto normale. Nei corridoi, le luci che prima erano diffuse adesso erano fioche e rade, nessun rumore dall’officina sulla cui soglia la minacciosa scritta “vietato l’accesso ai non addetti” ammoniva a non trasgredire, la reception era desolata. Simone, da buon motociclista, pensò prima di tutto non a se stesso, ma alla moto. La probabilità di rimanere chiuso nella concessionaria fino al mattino successivo lo incupì meno dell’angoscia di non sapere che cose ne fosse della sua motocicletta e a quel punto se ne fregò bellamente dei divieti ed entrò dentro l’officina deserta, dove trovò la sua moto. La riconobbe perché aveva applicato in più punti della carrozzeria gli adesivi col nickname “Simon01” col quale partecipava alla vita sociale dei centauri su internet; per il resto avrebbe potuto essere qualsiasi altra moto dato che era smontata fino all’ultima vite, giacente in un lago di olio motore e dispersa in un raggio di almeno quattro metri; in una sola parola: sventrata. Se in quello stesso momento la sua mamma gli avesse confessato di essere una prostituta ancora in attività e che l’aveva concepito con uno sconosciuto nella notte del record mondiale di promiscuità sessuale, lui avrebbe accettato la notizia rubricandola come un fastidio. Ma la moto demolita, no. Non poteva essere vero, avrebbe sporto reclamo, avrebbe mobilitato tutta la rete, appena uscito di lì avrebbe chiamato il miglior avvocato della città (scusate l’ossimoro, pensò) e fatto passare a fil di spada i responsabili di un tale crimine disumano. Gelato nelle gambe e nel pensiero, Simone urlò la propria inconsolabile disperazione e il suo lamento si confuse con i passi di un gruppo di persone che si avvicinavano verso di lui; ritmici e cadenzati al ritmo di sette ottavi, quei passi lo destarono dallo shock e lo costrinsero a nascondersi dietro una pila di pneumatici esausti.

Almeno una ventina di uomini e donne marciavano in fila per quattro, in uniforme della concessionaria e con lo sguardo vagamente spiritato perso e fisso verso un punto in alto alla loro destra, tutti facenti parte della forza lavoro del concessionario. C’era il meccanico al quale Simone aveva affidato la moto, il venditore che gliela aveva venduta, la gentile signora di mezza età della contabilità con la quale aveva più volte parlato per la pratica di finanziamento, non mancava nemmeno la bella signorina della reception. Quei venti uomini e donne sembravano assenti e rigidi, telecomandati. Prima di entrare nell’officina, dove Simone era nascosto, le luci si fecero ancora più deboli, il gruppo si bloccò e guardò in alto, poi si sentì un cenno, una specie di grugnito che Simone non seppe mai riprodurre, provenire da dentro la concessionaria. Cioè, non da qualcuno, ma da qualcosa, dalla concessionaria stessa o almeno questa era l’inquietante sensazione che Simone ne ricavò.
Da quel momento in poi fu il trionfo dell’assurdo: come in una grottesca rappresentazione da Grand Guignol i componenti di quel plotone si avvicinarono alla motocicletta di Simone e iniziarono ad accarezzarla, morderla, lustrarla con le gambe e col ventre; sia le donne che gli uomini si disfacevano della divisa come se scottasse nonostante il freddo per ungersi nella pozza d’olio motore, rotolandosi come suini; una avvenente fanciulla prese il serbatoio del liquido freni e ne bevve platealmente il contenuto con voluttà e soddisfazione, mentre un distintissimo, all’apparenza, signore di mezza età prese ad addentare con gusto lo pneumatico posteriore, strappandone abbondanti tranci e offrendoli agli altri celebranti che accettavano avidamente. Nessuno di loro parlava, si udivano solo singulti, sospiri, grugniti non riconducibili al genere umano, ogni tanto lamenti quando qualcuno veniva morso da qualcun altro nell’eccitazione di un vero e proprio sabba irrazionale e osceno. La motocicletta, o quel che ne rimaneva, al centro, tutti loro ne approfittavano, ne godevano, ne disponevano liberamente facendone oggetto delle loro proibite perversioni sfruttandone gli anfratti e le prominenti rotondità.

Simone era atterrito: la sua motocicletta era diventata l’oggetto sacrificale di una celebrazione perversa, avrebbe voluto saltare fuori dal suo nascondiglio e urlare di smetterla, che quella moto era sua e che ce n’erano tante altre parcheggiate in officina, ne prendessero una di quelle per fare le loro cose sconce! Avrebbe voluto implorare pietà per la sua moto eviscerata e per le cinquantanove rate mensili ancora da pagare e si spinse fino ad ipotizzare di uscire allo scoperto per proporre un equo scambio: lui come agnello cerimoniale al posto della sua motocicletta della quale ne avrebbe poi ripreso i cocci rimettendoli amorevolmente insieme insufflandogli altra vita, non tutto era perduto. Ma la paura, o forse la curiosità di vedere fino a quale punto quei posseduti si sarebbero potuti spingere, lo aveva cementato dietro una pila di gomme usate. Allora chiuse gli occhi e, come i bambini quando fanno brutti sogni, sperò che riaprendoli il senso comune delle cose sarebbe tornato a trionfare e a quel punto lui e la sua moto sarebbero usciti da quella maledetta concessionaria per non rimetterci piede mai più. Si fotta la garanzia!

Funzionò. Sembrava incredibile più di quello che aveva visto, o creduto di vedere, fino a quel momento. La scena che aveva negli occhi svanì e Simone si ritrovò dietro la stessa pila di gomme usate dietro la quale fino al momento precedente osservava inorridito un violento e sadico rituale. Un meccanico gli si avvicinò e gli disse che in quel posto lui non poteva stare, doveva aspettare in sala d’attesa: c’era scritto anche all’ingresso dell’officina. Simone, zitto zitto e intimamente sollevato, se ne andò in sala d’attesa dove pochi minuti dopo lo stesso meccanico gli portò a spinta la sua motocicletta con il foglio dei lavori eseguiti e tante scuse per il ritardo causato dall’improvviso black out elettrico, non se n’era accorto? Simone disse di no, lo ringraziò e prima di inforcare raggiante la sua motocicletta si avvicinò alla reception per ritirare la fattura. La cassiera era di spalle e scriveva al computer: alla sua destra, sulla scrivania, un contenitore trasparente con il tappo nero era pieno fino all’orlo di un liquido paglierino e denso. La signorina non si accorse della presenza di Simone e svitò il tappo, mandando giù in un solo sorso l’intero contenuto, poi si rivolse al magazziniere, pure lui di spalle e lo ringraziò con tono soddisfatto:
- Grazie, Umberto: DOT3 del 1985, il mio preferito.

Foto: Markus Hofmann

Da Automoto.it

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