I Racconti di Moto.it: "Moto in regalo"

I Racconti di Moto.it: "Moto in regalo"
Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
Mi guardava come una puttana. Appoggiata al muro sul manubrio ornato da un mazzo di fiori di ruggine, aveva lo stesso aspetto e il medesimo sguardo di una di quelle che aspettano il cliente aspirando sigarette...
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
8 marzo 2013

Punti chiave


Mi guardava come una puttana.
Appoggiata al muro sul manubrio ornato da un mazzo di fiori di ruggine, aveva lo stesso aspetto e il medesimo sguardo di una di quelle che aspettano il cliente aspirando sigarette, sostenendosi con la spalla contro l’uscio del proprio lupanare mentre la mano libera regge una borsetta penzolante all’altezza del desiderio.
Ogni giorno cercavo parcheggio in via dell’Occhioinfermo e lei mi guardava, mi seguiva col suo occhio, una volta mi è sembrato persino che lampeggiasse ma era ovviamente un’impressione.
Una mattina di giugno sul marciapiede di questa larga strada in discesa poco trafficata, con pochi negozi, un fioraio, un bar e un panificio, sbocciò questa motocicletta. Me lo ricordo bene, fu il giorno dopo il violentissimo nubifragio tropicale che per un paio d’ore spazzò la città facendo tanto spavento e molti danni, ma nessun morto. Almeno, io non ne ebbi notizia.


La motocicletta aveva un unico punto di contatto col muro, il contrappeso destro del manubrio. Ogni mattina per almeno due settimane mi chiedevo come mai il proprietario non l’avesse lasciata sul cavalletto, invece di appoggiarla al muro a lasciare che uno spesso strato di polvere coprisse la vernice rossa e argento e le plastiche fossero cotte dal sole; io non mi ci avvicinavo mai, anche se mi rodeva la curiosità di sapere come mai come nessuno mettesse al riparo oppure la facesse furtivamente sparire, in tutto o in parte, quella meraviglia di motocicletta. Sola e abbandonata, nemmeno i passanti se ne curavano e i cani sembravano evitarla per andare a fare la pipì da un'altra parte. Mi convinsi con spirito qualunquista che fosse rubata. Ma, se era così, un cittadino modello come me aveva il dovere di informare la Polizia, magari il proprietario ne aveva già denunciato il furto e mi sarebbe stato riconoscente. Decisi quindi che un giorno sarei andato al lavoro un po’ prima per avere il tempo di poterla vedere da vicino.


Dire a Matilde, la mia fidanzata convivente, che uscivo da casa mezz'ora prima per fare il commissario Basettoni mi parve onestamente ridicolo, così inventai una bugia su un cliente col bisogno di… una consulenza rapida nella primissima mattina. Certe volte le donne ci amano così tanto da credere a tutto, fuorché alla verità. Nemmeno io le faccio tante domande sul suo lavoro, svolgiamo entrambi due mestieri che desideriamo lasciare fuori dalla porta di casa. Magari ogni tanto a cena ci raccontiamo distrattamente le cose più divertenti che ci sono accadute, quelle più strane.

Arrivai in via dell’Occhioinfermo prima delle sette, la moto era sempre lì ad aspettarmi e dopo averla poggiata sul cavalletto laterale, iniziai a fare alcune fotografie da ogni angolazione. Mi accorsi che il lato destro, quello rivolto verso il muro, era letteralmente macinato. Non era incidentato, era proprio come se qualcuno solo su quel lato avesse inferto colpi pesantissimi con una mazza di ferro: impossibile spiegare altrimenti lo scempio delle ammaccature pure sui cilindri, il fodero della forcella deformato a metà altezza, il disco anteriore ridotto a una figura geometrica solo lontanamente imparentata col cerchio. Nel mio mestiere avevo visto tante moto incidentate, però mai brutalmente deturpate come questa: la sensazione che quella motocicletta testimoniasse qualcosa di singolare si fece largo tra i miei pochi capelli instillandomi qualche sospetto malizioso.


La targa c’era ancora, fotografai pure quella. Rimisi la moto nella posizione nella quale l’avevo trovata, andai in ufficio e misi alla prova i miei contatti nell’ambiente della polizia per saperne subito qualcosa in più: dietro preghiera di non farmi scappare niente con nessuno mi fu riferito che la moto apparteneva a un tale Palimeni Fabrizio e che non ne era mai stato denunciato il furto.

- Ma perché – mi chiese il mio amico poliziotto –c’è qualche problema? Non è che ora vai da questo Palimeni e gli dici che il suo recapito te l’ha dato la Polizia? Non fare scherzi Pietro, vedi che ci vai di mezzo pure tu!
- Noooo… ma quando mai! È che la moto mi piace e vorrei sapere chi è il proprietario per sapere se la vende! Grazie Michè!
- La moto? Tu che non hai manco lo scooter?
- Sì, io. La moto! Matilde è matta per le moto. Ti dispiace?
- No, Pietro. Rompiti il collo e non chiamarmi più per 'ste stronzate!


Ricerche su Internet senza esito, nella rete questo Palimeni non esisteva. Magari se lo avessi trovato non sarei andato avanti, soddisfatto di essermi calato per una mezza giornata nei panni del detective. Invece scaricai le foto sul mio pc e le osservai con ostinata attenzione, scorgendo dietro il pedalino sinistro rimasto intatto una specie di macchia di colore, un riflesso. Ingrandii la foto ma a parte un dolore agli occhi per lo sforzo di capire cosa potessero rappresentare quei pixel sgranati come cous-cous, non recuperai altro.
Finii la giornata di lavoro mestamente (non era una novità).

L’indomani mattina, la stessa incredibile casualità: cara Matilde amoremiobellogioadelmiocuore c’è un altro cliente… mattiniero. Abboccò, uscii senza manco baciarla e tornai alla motocicletta che era sempre lì dove l’avevo lasciata. Mi inginocchiai all’altezza del pedalino sinistro e trovai quello che cercavo: un corno rosso piccolissimo, lungo appena un paio di centimetri era annodato con una catenina al telaio: staccai l’amuleto mettendolo in tasca furtivamente.


Avevo l’intenzione di ispezionare ben bene il corno, che date le dimensioni battezzai subito “croissant”, ma arrivò una telefonata da un mio amico poliziotto: un camion uscito di corsia in Viale dell’Autonomia aveva combinato un finimondo con corredo di morti e feriti e la notizia mi costrinse a catapultarmi sul luogo del disastro prima possibile, prima di tutti gli altri. Grazie Michè!

 

Arrivai in ufficio nel pomeriggio e, ripassandole davanti, la moto mi lanciò uno sguardo di sfida al limite dell’adescamento. Il telefono squillava ma feci finta di niente, ero stanco morto; estrassi “croissant” sdalla tasca, non resistetti alla curiosità e lo esaminai con cura: non era altro che un contenitore a vite dentro il quale era arrotolato un bigliettino: “da Fabrizio a Rebecca con amore. Ora è tua, la prima è in basso: vai piano mio fiorellino”.

Suonò il telefono, risposi.
– Servizi Fu... –
– Mi chiamo Fabrizio Palimeni. Quella moto è mia: non la tocchi. – disse una voce senza salutare .
– Mi lasci capire, Signor Palimeni...
– Ascolti me, la prego di lasciare stare quella motocicletta. - era una voce anziana.
– Scusi, io...
– Tenevo quella moto come un brutale gioiello, comprata nuova fiammante con diciottomila Euro presi dai soldi della liquidazione. Non ho famiglia né figli. Quella motocicletta era l’ultimo vizio della mia vita. Vede, il congedo dal lavoro per raggiunti limiti pensionistici mi ha lasciato un vuoto enorme... un anno fa mi trovai in balia dell'insipiente lentezza dei giorni, senza sapere come occuparli. Iniziai ad andare in motocicletta, iscrivendomi pure ad un raccogliticcio motoclub su internet e più i chilometri si accumulavano e le gomme si usuravano, più il mio umore e il mio fisico ne traevano giovamento. Sa, iniziai anche a notare una ricrescita dei capelli e ne parlai col mio medico che mi prese bellamente per demente senile. Non ho molti amici e l'unica persona che mi dava rifugio e comprensione era una ragazza che si faceva chiamare Rebecca. Il nome vero non lo so, né lo sapremo mai. Esercitava in casa propria, avrà avuto circa trent'anni. Rebecca mi conquistò con la sua dolcezza e la sua pazienza da vera professionista. Non era una semplice puttana, non lo pensi nemmeno caro signore, piuttosto, era una ragazza bisognosa di aiuto. Le mie visite a casa sua divennero frequentissime e lunghe, talvolta troppo e lei era costretta a chiedermi di andarmene perché doveva pur lavorare. Iniziai a darle del denaro extra per pagarsi l'affitto e lavorare di meno. In cambio non chiedevo altro che comprensione. Un giorno, capita la sua passione per le motociclette, vinsi le sue riluttanze e la persuasi a farmi compagnia in un lungo giro in moto che sin dal primo metro la entusiasmò come la scoperta del sesso; pranzammo in una trattoria fuori porta, dove alzammo qualche bicchiere di vino in più traditi dall’inebriante aria primaverile. Mi sentivo molto osservato dai tavoli vicini al nostro, ma le basse barriere morali e l'attitudine tutta italiana a perdonare le intemperanze di un anziano signore mi misero al riparo dai commenti a voce troppo alta: eravamo felici quel pomeriggio quando, tornati a casa sua e parcheggiata la moto nel suo garage, per la prima volta Rebecca mi chiese di fare l'amore: senza denaro, voglio dire. Mi segue?

– Sì, la seguo – risposi con un filo di voce incredula.
– Bene. Volli sugellare a mio modo quell’irripetibile momento e mentre Rebecca faceva la doccia io le scrissi un bigliettino al quale unii le chiavi della mia amatissima motocicletta, donandogliela. Per dare maggior spessore teatrale al mio generoso gesto, prima che lei uscisse dal bagno mi vestii e me ne andai, certo che avrei ricevuto da lì a poco una telefonata traboccante stupore e gratitudine: comprai dei fiori e mi tenni nei paraggi, pronto a tornare da lei per un bis.
– Mi lasci indovinare: Rebecca non la chiamò, vero?
– Bravo. Rimasi fino a tarda notte nel bar sotto casa sua ma dovetti arrendermi alla delusione e all’angoscia quando vidi alcuni dei suoi clienti abituali uscire da casa sua ad intervalli regolari.
– E poi?
– Nei giorni che seguirono la tempestai inutilmente di telefonate. Mi arrabbiai e decisi di essere io quello a sparire, ma durò una settimana circa. Tornai alla carica ma stavolta il suo numero di telefono era “inesistente”, cercai allora di collegarmi al suo sito internet ma lo aveva cancellato: come un disperato corsi a casa sua solo per sentirmi dire dal giovane usciere che Rebecca aveva lasciato l’appartamento e si era trasferita altrove. Il portinaio aggiunse ammiccando “ma se vuole ne conosco un’altra che le farà passare ogni malumore…”. Ci mancò poco che lo strangolassi e solo le urla della moglie accorsa in vestaglia lo salvarono dalla mia rabbia. Non mi arresi: chiamai tutte le prostitute su internet chiedendo di Rebecca, ma nessuna pareva conoscerla o poteva darmi indicazioni utili per ritrovarla. Non potevo nemmeno denunciare il furto della moto perché temevo che il bigliettino potesse essere usato contro di me per dimostrare che, com’era in realtà, la moto era un dono ed io solo un vecchio maiale che pensava che il denaro potesse comprare l’affetto o la stima da una meretrice. Non riuscivo comunque a odiarla o a dimenticarla: certamente si era accorta di essersi spinta troppo in là e voleva tagliare una storia che avrebbe potuto rivelarsi troppo complicata da gestire ma perché sparire così, senza nemmeno parlarmi? Finché un giorno ci fu quell’uragano che inondò di pioggia la città per una mattina.
– Sì, me lo ricordo benissimo. Fu incredibile, due ore di pioggia violentissima.
– Mentre guardavo le immagini del fortunale in tempo reale alla televisione, vidi la mia moto. Era travolta e trasportata dal fiume d’acqua che scorreva violentissimo in strada, nella via dove ora è parcheggiata. Non appena scampò mi precipitai in Via dell’Occhioinfermo e trovai la mia moto in fondo alla discesa. Di Rebecca nessuna traccia. Devastato dal dolore e dalla rabbia, incolpai la moto di tutte le sventure accadutemi negli ultimi mesi: delle illusioni svanite, persino della probabile morte di Rebecca. Presi una spranga di ferro e infierii su quella bellissima motocicletta riversa sul fianco sinistro, fino a quando le forze non mi abbandonarono e risolsi ad andare dalla Polizia. Denunciare la scomparsa di Rebecca fu un grande sforzo perché alla Polizia dovetti raccontare tutto, per filo e per segno, con tutti gli imbarazzi che lei può immaginare, ma fu impossibile dare seguito alla mia denuncia, logicamente: Rebecca per la società non esisteva, non aveva amici a parte me, non aveva domicilio, non aveva un conto corrente, era un apolide civile e sociale e comunque nessun altro aveva denunciato la scomparsa di qualcuno in seguito al nubifragio. Solo io avevo capito che mentre imperversava la tempesta lei era in moto, era stata travolta dal fiume d’acqua e probabilmente era annegata. Sono certo che sia andata così e che il suo corpo sarà prima o poi ritrovato. Oppure potrebbe esserci una possibilità minima che sia ancora viva e che torni a prendersi la moto: per questo l’ho lasciata lì appoggiata al muro, sorvegliandola da lontano ogni giorno.
– Capisco. Mi dispiace, la sua è una storia triste.
– Lo diranno in molti, ma non è questo il punto: la prego, lasci stare quella moto e non la tocchi, è la mia unica possibilità di rivedere Rebecca.
– Glielo prometto.
– Grazie, ci conto. La saluto.
– Grazie a lei per la fiducia, arrivederci.
– Sì, magari tra vent’anni.
– Certo, anche trenta.

Posai il telefono e dopo un attimo di latenza iniziai a ridere, prima piano, poi come un matto.
Tornato a casa, attesi Matilde. Non appena arrivò la baciai e le dissi: “stronza”
- A me? E perché? – disse sorridendo maliziosamente.
- Mi racconti di nuovo quella del tuo cliente che ti ha regalato una MV da diciottomila Euro?

 

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