I Racconti di Moto.it: "Il Capo"

I Racconti di Moto.it: "Il Capo"
Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
Il Capo era sempre il primo ad arrivare, guidava una grossa enduro carica di chilometri e di storie, parcheggiava, si metteva con le spalle al mare appoggiato alla ringhiera...
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
15 febbraio 2013

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Il Capo era sempre il primo ad arrivare, guidava una grossa enduro carica di chilometri e di storie, parcheggiava, si metteva con le spalle al mare appoggiato alla ringhiera, accendeva la prima delle sue misteriose sigarette e aspettava con un accenno di sorriso; noi almeno lo trovavamo così al nostro arrivo.
Da quando ho incontrato il Capo, ho meno incertezze.
Una volta un tale disse che niente è eterno, tutto ha una fine: per quanto terribile supremo possa apparire il periodo che si vive, per quanto la situazione in cui possa sembrare senza via d’uscita, prima o poi le cose cambieranno; cambiano sempre.
Il Capo, non so se per estrema serietà o per godersi l’arrivo dei fedeli, arrivava sul lungomare almeno venti minuti prima del gruppo.
Non ero il solo, eravamo in tanti ad avere il piacere di farci guidare da lui. Ci riunivamo il venerdì sera in adorazione, parcheggiando le nostre motociclette all’umido del lungomare, in fila come se le stessimo offrendo in vendita al miglior offerente. Ogni tanto qualche prostituta sull’altro lato della strada ci salutava, quelle del venerdì avevano volti da bambine cresciute e gli stessi abiti da sfilata nel centro commerciale delle loro coetanee, mia figlia diciottenne in primis.
 

Noi, il gruppo, ci distinguevamo per appartenere o alla ristretta élite degli ammessi ad avere una reverente confidenza col Capo oppure alla massa blandita e cooptata per mostrare forza, prestanza, coesione e dedizione totale alla volontà del Capo al quale tutti elemosinavamo comprensione e attenzione, un bonario paternale rimprovero o magari uno sguardo di complicità quando la conversazione faceva incontrare la propria opinione con quella, sempre corretta e comunque insindacabile, del Capo.
In quegli anni di frequentazione del gruppo, stilai un mio personale decalogo di concetti e principi:
Il Capo è sempre il Capo. E va rispettato.
Il Capo è infallibile.
Il Capo è onnisciente.
Se hai un dubbio sulla strada da seguire, segui il Capo.
Il Capo ha già fatto la scelta più giusta per te e per gli altri, ed era esattamente quella di cui avevi bisogno.
 

Noi tutti avevamo bisogno del Capo per dimenticarci di noi stessi, trovare quell’abbraccio che nell’età adulta manca perché il nostro ruolo ora di marito, ora di padre, ora di figlio troppo cresciuto, ci impone di essere volitivi, maturi, dignitosi e perno immobile della vita degli altri. Invece la presenza del Capo ci rassicurava e confortava: c’era qualcuno ad occuparsi di noi, tracciando un itinerario da seguire dove è tutto previsto, non dovevamo fare altro che affidarci a lui. Andare in motocicletta è bellissimo ma quando inforcandola senti di appartenere ad una famiglia retta da un indulgente e giusto signore, dove tutti si è fratelli ma c’è un solo padre, è meglio che andare in chiesa.
 

Quella sera giunsi di proposito al lungomare prima di tutti, prima ancora del Capo, per sapere cosa c’era oltre, cosa si vedeva prima del Capo e osservare il suo moto di sorpresa, precederlo. Metaforicamente, s’intende: lo sapevamo tutti che il Capo non andava mai sorpassato perché la sua andatura era la migliore, la più prudente, la più piacevole e gratificante. Una volta un ragazzo nuovo del gruppo ebbe un impeto giovanile di intemperanza e osò superare il Capo, buttandosi a capofitto nelle curve per limare qualche millimetro dalla spalla della gomma della sua sportiva: asserì poi che la sua intenzione era solo quella di divertirsi e aspettarci qualche chilometro più in là, ma non fece in tempo. Il più veloce di noi, ad un cenno impercettibile del capo del Capo, lo andò a prendere, lo costrinse a fermarsi e lo redarguì selvaggiamente per la sua condotta pericolosa e poco intonata con lo stile del gruppo; ne nacque un diverbio e i due si tolsero i caschi, in quel momento arrivò il Capo e come in un set di un film tutto si fermò nell’attesa delle disposizioni del regista. Il Capo non ebbe esitazioni, in lui tutto era chiaro. Pollice dritto e lì grandi abbracci e pacche sulle spalle, risate di tutti, i due litiganti sembravano di colpo accomunati dalla stessa rarissima patologia che li portò a rivelarsi confidenze via via più intime, persino le abitudini sessuali delle mogli e i peccatucci di gioventù. Lui, il Capo, senza fare un plissè e sorridente più di prima riprese la strada in mano per guidarci verso la meta: nella fattispecie concreta una trattoria a prezzo convenzionato arroccata in un paesino ameno e lontanissimo della quale saremmo stati gli unici avventori domenicali. Felici di essere avvelenati per l’ennesima volta con stinchi di maiale databili col carbonio 14 conditi da olio di provenienza dubbia come il seno di Belen e allietati da un brindisi finale con limoncello aromatizzato Mennen. Caffè a parte.
Con le gambe sotto il tavolo si fa più amicizia, diceva il Capo. Sì, però… sono sempre trenta euro…
 

Mi sto dilungando, e al Capo non piacerebbe. Torniamo a quella dannata sera.
Mentre lo vedevo arrivare al lungomare con la pacifica autorevolezza di uno di cui ti puoi fidare, già godevo nel sapere di poter disporre della sua attenzione tutta per me. Pensavo che se mia moglie avesse mai dovuto fare una scappatella… ecco: lui in qualche modo lo avrebbe fatto per il bene del gruppo, capitemi. Lo so che mi capite.
- Antonio…
- Ciao Capo. – ostentai accogliente devozione, senza esagerare.
- …siamo i primi. – disse senza manco guardarmi negli occhi, piantati dentro la sua borsa da serbatoio alla ricerca dell’accendino.
- Vero.
- Sai, Antonio, è la prima volta che qualcuno del gruppo arriva qui prima di me. - sbuffò tra i denti e la sigaretta.
- Veramente? – come se non lo sapessi…
- Già. Sarà un segno. Come gli incredibili piccoli inconvenienti accaduti ad Agostini a fine carriera che lo convinsero a smettere prima di farsi male sul serio. Una volta gli si grippò pure un cilindro all’ultimo giro di una gara, una cosa stranissima, e lui si arrese al fatto che le corse di moto non lo volevano più. Smise quando ancora la parabola della sua carriera era in zona dignitosa, capisci?
- La mia presenza qui è un segno? E di cosa, Capo? – attesi la sua risposta illuminate e sicura lasciando le labbra aperte a metà e intossicandomi col fumo passivo della sua sigaretta che mi entrava in bocca e nelle narici dilatate dalla salsedine.
- Ho preso una decisione, irrevocabile. – guardava lontano, oltre le mie spalle.
 

Certamente sentirsi messo a parte in anteprima assoluta di una decisione del Capo dà un’emozione che mezza basta. Ebbi un conato di felicità e non vedevo l’ora di raccontarlo ai miei figli. Mi venne in mente di aggiornare il mio profilo, con una mano tastai il mio smartphone dentro il giubbotto.
- Antonio, sei il primo a cui lo dico: da domani sera io non sarò più il Capo. Mi dimetto.
Non proferii mezza parola, ma il mio pallore aveva già detto tutto.
E che, si fa così? Con quale coraggio ti dimetti? E a noi non ci pensi? Chi potrà prendere le tue veci, chi sostituirà la tua autorevolezza e il riferimento che se sei da tutti questi anni? E a me che ho chiamato mio figlio come te, non pensi?
 

- Scusa… “ti dimetti”? – dissi sottovoce.
- Mi dimetto da Capo e basta, non ho più voglia. Cercatevi qualcun altro che vi organizzi le gite, i pranzi, le opinioni, la vita. A parte il fatto che sentirsi ogni volta criticare per il menù a prezzo fisso della trattoria ha iniziato a farmeli girare come un desmodromico.
- Ma non puoi…
- …non posso? Non posso!? Vedrai tra un attimo, appena arrivano gli altri, se non posso…
- Sono l’unico a saperlo?
- Sei il primo, sì.
Lo stordii con il mio casco. Lo composi a terra e chiamai un’ambulanza prima ancora che arrivassero gli altri motociclisti del gruppo. Lo feci portare in terapia intensiva, facendolo isolare dal mondo esterno rendendomi personalmente garante delle sue condizioni con i suoi parenti, infinitamente grati per il mio impegno disinteressato.
 

Nei giorni successivi, tentai di convincerlo in ogni modo che la sua scelta irragionevole avrebbe sfaldato e rotto in faide interne il gruppo nel tentativo di eleggere un Capo degno di succedergli, ma lui era sempre testardo e minaccioso nonostante le dosi da cavallo di sedativi e ipnotici che gli somministravo per evitare che i suoi farfugliamenti venissero presi sul serio.
Andavo da lui ogni giorno, più volte al giorno tenendo in una mano la siringa con le benzodiazepine e nell’altra il contratto retrodatato con l’impegno a ricoprire il ruolo di Capo del gruppo per almeno altri cinque anni. Ma era dannatamente testardo e non firmava.
Così, presi la decisione da solo e in totale autonomia. Falsificai le cartelle cliniche con facilità e lo feci internare in un ospedale psichiatrico dove gli sospesi bruscamente i sedativi e, per colui che fu il Capo, risvegliarsi tra i matti, lucido e senziente, fu la peggiore punizione. Raccontava a tutti che lui era sano, che aveva viaggiato per centinaia di migliaia di chilometri per tutto il globo con la propria motocicletta, che era stato a capo di un gruppo di esuberanti bikers cinquantenni e che era lì dentro per uno sbaglio di cui additava me come colpevole. Nessuno gli dava la minima credibilità, ovviamente; nemmeno i pazienti.
Beh, colpevole sì, ma sbaglio no.
Tutti i venerdì, prima di levarmi il camice e di recarmi al lungomare da solo, mentre il personale dell’ospedale mi saluta reverente del mio ruolo di primario di neurologia, lo vado a salutare.
Ciao Capo, niente è eterno.
Dimettersi. Ma siamo pazzi?