I racconti di Moto.it: "Tachimetri senza lancette"

I racconti di Moto.it: "Tachimetri senza lancette"
Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
A noi che da piccoli davamo prima di tutto uno sguardo al tachimetro per vedere “quanto fa”, il display lcd ha inferto un colpo mortale all’immaginazione: ai giorni nostri, a moto spenta, il tachimetro è solo uno schermo piatto e grigio
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
21 settembre 2012

Punti chiave


A noi che da piccoli davamo prima di tutto uno sguardo al tachimetro per vedere “quanto fa”, il display lcd ha inferto un colpo mortale all’immaginazione: ai giorni nostri, a moto spenta, il tachimetro è solo uno schermo piatto e grigio con buona pace di marmocchi sognanti e adulti curiosi.  A nove anni mi sentivo forte e ricco nel possedere tutte le moto che trovavo parcheggiate in strada; ne immaginavo le sbalorditive prestazioni credendo alla strumentazione come ad un oracolo, poi salivo sopra la sella, giravo la manopola del gas e strizzavo con tutta la mia forza le leve anche se non sapevo ancora né a cosa servissero, né il perché la sinistra fosse sempre la più facile da tirare fino in fondo. Sognavo i miei capelli al vento a velocità pazzesche e desideravo con tutto me stesso avere una moto, da grande. I parvenu in Hogan e camicia bianca che invocano i carabinieri quando un bimbo si avvicina alla loro motocicletta sarebbero arrivati solo dopo il 2000: negli anni ’70 tutto era più amichevole e facile, persino salire su un Laverda SFS e lasciare penzolare i piedi all’altezza dell’albero motore. Mi piaceva da morire cavalcare da ferme le moto di ignoti signori e ammetto pubblicamente di avere desiderato con infantile innocenza che uno di questi fosse mio papà, ma lui non ha mai imparato ad andare nemmeno in bicicletta; oggi ha sessantanove anni e non mi sento più in diritto di chiederglielo.


Da piccolo scalavo torri di tubi metallici per me mitiche più della Eiffel (mica c’erano i deltabox) e giungevo, senza fare ribaltare la moto, sulla vetta di smisurati selloni buoni per tre o quattro culetti come il mio; ero un bambino timido ma sveglio e avevo già capito che bisognava salire con una certa cautela e dalla parte del cavalletto laterale; arrivato in cima levavo il freno alla fantasia e immaginavo che l’ago del tachimetro andasse a fondo scala con fragori di rumorose marmitte (io le chiamavo “scappamenti”) oppure, mi illudevo un po’ credendoci, un po’ no, che bastasse levare il vetro alla strumentazione e portare con le mani l’ago sopra lo zero per fare avanzare la moto alla velocità scelta: proprietà transitiva del moto motociclistico inventata da un bambino degli anni settanta.  C’erano già i freni a disco, leggevo sui serbatoi del liquido idraulico e imparavo a memoria (senza conoscere una parola d’inglese) la scritta che imponeva di utilizzare solo quello di un contenitore sigillato: era consigliato il DOT 3. Per non parlare degli adesivi sui serbatoi che raccomandavano la benzina super e l’uso del casco: mandavo tutto a mente come avrei fatto anni dopo per le poesie di Ungaretti. Io, per la disperazione dei miei genitori, ero già motociclista quando la mia età era ad una sola cifra. Mai, dico mai, nessuno di loro due mi ha sospinto verso la motocicletta. Anzi.


Vi spiego: mio papà è un avvocato con un passato di giocatore di calcio. Conosce i nomi, le date di nascita e le carriere di tutti gli attuali giocatori della serie A e sicuramente di parte di quelli della B. Mai messo il sedere su una moto prima che lo trasportassi io, per ragioni di emergenza, su un ER-5 nel ’97. Avete capito il tipo? Bene. Per aggravare la mia posizione, io il calcio non lo amo. Ci ho provato. Ma non lo amo.  Mio padre odia le moto, diciamocelo in faccia: dai papà, hai tentato cento volte di farmi smettere di andare in moto con ricatti, blandizie, indifferenza, minacce e tanta pazienza quando tornavo a casa con un arto ingessato o dolorante. Non le hai viste tutte, abitavamo già in due case diverse e la prima a spaventarsi era la mamma. Poi arrivavi tu e risolvevi la situazione a modo tuo. Oramai sono troppo grande e non mi chiedi più di lasciare perdere le motociclette. C’è da dire che da qualche lustro ho smesso di rompermi le ossa (una volta ho riflettuto sul fatto che mi sono rotto un campione di quasi tutte le ossa del corpo ad eccezione di quelle del cranio, del piede e della schiena… comprendo una certa esasperazione): adesso se mi faccio male mi rintano a casa mia senza dirvi nulla, aspettando che passi. Mi manca la tua frase “è colpa della motocicletta” quando avevo un malanno, uno qualsiasi: il mal di testa, di denti, unghie incarnite, acne giovanile, febbre virale e anche i miei acufeni dicevi che erano causati dalla moto; ammiravo la tua perfetta ed onesta buona fede: ti abbraccerei anche adesso, ma forse non capiresti e ti imbarazzeresti come al solito.


Mia mamma, invece, rimaneva ad aspettarmi sonnecchiante sul divano con la televisione accesa fino a quando non rincasavo dai giri notturni col mio cinquantino (balle: era truccato 80!). Tornavo a casa, mi avvicinavo al divano con la replica notturna del Costanzosciò in sottofondo e cercavo di farle capire che la notte di avventure mi aveva restituito sano e salvo e lei poteva finalmente e meritatamente andare a letto: una volta le sussurrai “mamma io vado a dormire”, lei mi rispose nel sonno, automaticamente: “non tornare tardi”. Ha sopportato pazientemente che crescessi e diventassi più riflessivo e sono convinto che sotto sotto le piace che io vada in moto. Insomma, non sono un figlio d’arte.  Ho imparato ad andare in motocicletta la stesso pomeriggio in cui mio padre, cedendo alle mie insistenze e ai suoi sensi di colpa, mi portò dal concessionario comprandomi a 14 anni appena compiuti una Aprilia ET 50. Non avevo mai guidato prima d’allora un mezzo con le marce e la mia esperienza in termini di ore di guida sui motorini automatici dei miei amici ammontava a zero virgola qualcosa. Sotto lo sguardo irridente e sardonico degli impiegati del concessionario ci misi mezzora per capire come staccare la frizione in prima e, con la scorta di mio papà in automobile, ebbi bisogno di un’altra ora per coprire i due o tre chilometri che mi separavano da casa.


Ad ogni semaforo rosso ricominciavo daccapo a litigare con la frizione: era una tragedia. Mio padre era lì a pochi metri, chiuso nel suo Mercedes 190 canna di fucile, ad aspettare che io risolvessi da solo il problema e ripartissi. Arrivati a casa non disponevo di un box dove mettere la motocicletta, semplicemente non mi ero ancora posto il problema: io volevo la moto e basta, ogni altra considerazione era secondaria, così lavorai per buona parte della notte allo sgombero dell’ex locale caldaie condominiale e dopo avervi ricoverato l’Aprilia, andai a dormire stremato e felice. Era il 1984, ottobre; il mattino successivo non andai a scuola per avere il battesimo del mio primo giro in motocicletta senza meta e senza casco, col pieno regalatomi dal nonno. Mio padre mi ha confessato soltanto poco tempo fa di avere ammirato in quel giorno di ottobre la mia caparbia volontà di guidare una motocicletta nonostante la mia totale impreparazione. Invece io ho il ricordo di un enorme e ingiustificabile gesto di fiducia di un quarantenne che regala al proprio figlio adolescente un ordigno di cui non sa nulla, di cui non si fida, che riteneva allora come oggi pericolosissimo e già troppo veloce: anche tu, papà, davi un’occhiata al tachimetro e dicevi “ma fa 120! È troppo!”, e io dovevo spiegarti che l’ET 50 faceva a malapena i quaranta. Ci fossero stati i display lcd nel 1984, non ti saresti preso d’ansia.  Grazie per la fiducia papà: alla fine della fiera credo che tu possa dire sia stata ben riposta. Nonostante tutte le difficoltà, devo ammettere che sono stato un ragazzino molto fortunato.


Però, grazie; non te lo avevo mai detto. E non per avere speso due milioni di lire, ma per l’investimento nella mia maturazione come persona, per l’autostima che mi hai permesso di acquisire, per le prove che mi hai consentito di superare da solo, per le scoperte e le esperienze che ho accumulato e che solo con una motocicletta avrei potuto fare; grazie anche per avere contribuito alla nascita del mio spirito critico e del senso di indipendenza. Avere una moto mi ha permesso di capire meglio il mondo, di girarlo a modo mio, andare dove il conformismo non arriva, distinguermi; avevi ragione tu: è colpa della motocicletta. Spero che tanti altri ragazzi possano avere quello che ho io avuto fin dai 14 anni.  Poi abbiamo preso strade diverse, eppure per la mia laurea mi hai dato una mano a comprare un’altra Aprilia, una RSV 1000: credo fosse il ‘99. Eri felice, forse quello era il giorno nel quale ti ho visto più felice, quando mi sono laureato. Forse eri felice anche perché l’RSV 1000 aveva tachimetro senza lancette e non potevi sospettare che faceva i 260. Oggi, quando mi vedi passare sopra il mio 1200, punti il mento, alzi gli occhi e dici compiaciuto ai tuoi amici: “quello è mio figlio”; sai, la gente me lo racconta e anche io sono felice: come il ragazzino dell’ottobre 1984 che non riusciva a staccare la frizione.

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