I racconti di Moto.it: "Adenau mon amour"

I racconti di Moto.it: "Adenau mon amour"
Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
Il distributore automatico di benzina non accettò gli unici cinque euro che mi trovavo in tasca. Che finale insulso, vero? Eppure questo fu l’epilogo, la diretta conseguenza di incredibili eventi che mai nella mia esistenza avrei temuto di scatenare
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
7 settembre 2012

Punti chiave


Il distributore automatico di benzina non accettò gli unici cinque euro che mi trovavo in tasca. Che finale insulso, vero? Eppure questo fu l’epilogo, la diretta conseguenza di incredibili eventi che mai nella mia esistenza avrei temuto di scatenare. Fu quindici anni fa, ero un uomo sposato; pensavo che tutto mi fosse concesso in nome della libera autodeterminazione. Ardevo di desiderio per lei. Così la ebbi, la possedetti. Una, due, cento volte. E fu come richiamare i demoni più feroci, combattere le battaglie più sanguinarie e stolide della storia dell’uomo vincendole, riemergendo dallo scontro a testa sempre più alta e col corpo ornato di stimmate a monito per chi mai potesse dubitare del mio valore; lei vedeva gli effetti della sua presenza nella mia vita e si pasceva dell’ascendente che esercitava su di me: in verità ero solo il suo burattino, questo sia chiaro oggi a voi così come era assolutamente fuori dalla mia portata capirlo allora.


Maria, mia moglie, era esasperata: da quando ero diventato un centauro non le dedicavo più alcuna tenerezza, impiegavo tutte le energie per andare in moto. Non importava dove mi stesse conducendo quella vita, mi importava solo avere lei, rapirla quando volevo per una mattina di passione o un pomeriggio di intimità. Ma fece un errore: mi tradì. Anzi, mi fece apertamente capire che non si considerava mia, ma libera di accompagnarsi con chi la sapesse far danzare con più grazia e agilità. Non avrei mai dovuto prestarla a Francesco. La vidi volteggiare con lui e dargli tutto ciò che a me aveva sempre negato con la banale scusa della mia scarsa esperienza. Dopo un paio d’ore l’amico me la restituì grato e soddisfatto, pure un po’ invidioso ma certamente pensando che quella moto con me non avrebbe mai esplorato i suoi limiti. Liquidai l’amico e prontamente lo cancellai dalle mie frequentazioni; verso quella sciagurata quattro cilindri che mi aveva prima illuso di essere un pilota e poi coperto di ridicolo come un adolescente inesperto, meditai invece propositi di vendetta.


Elaborai allora il concetto di tradimento selettivo. Volevo a tutti i costi fargliela pagare a quella civetta a due ruote ma tornare da mia moglie sarebbe stato come ammettere le mie incapacità, così continuai a portare a passeggio la mia costosa superbike replica usandola per conoscere, affascinare e conquistare una ragazza. Si chiamava Adenau, non aveva mai conosciuto suo padre, morto prima che lei venisse al mondo: mi chiamava “il mio motociclista”. Adenau, troppo bella e troppo giovane per capire le mie intenzioni, fu la mia nuova passione e possedetti liberamente anche lei. Di notte andavo spesso in garage dalla motocicletta: le dicevo che oramai di lei ero stufo, avevo altro e di meglio per le mani; le raccontavo i particolari più intimi dei miei incontri con Adenau, insistendo sul fatto che finalmente mi sentivo appagato e dopo un po’ le promisi il benservito, magari cedendola ad un pensionato facoltoso che l’avrebbe tenuta al guinzaglio squadrandole le gomme fino a quando non avesse subito la carica dei nipotini con la loro insolente e demolitrice curiosità per poi essere ulteriormente venduta, vecchia e fuori produzione, a chi l’avrebbe trasformata in una street fighter con componenti aftermarket cinesi, verniciata a scacchi, a righe fluo, o semplicemente viola e nera, ed esibita due volte l’anno al bar dell’unica piazza di un paesino montano. Meglio la demolizione, sussurravo in uno specchietto, irridendola e assaporando il piatto freddo della vendetta. Poche settimane dopo la vendetti ad un medico in pensione affetto da una tardiva crisi di mezza età; trovai sollievo e un minuscolo senso di ripicca che furono sufficienti a scuotermi dalla mia stoltezza. Ricordo perfettamente l’attimo in cui mi chiesi chi ero e cosa stavo facendo, non trovando di meglio che rispondermi ad alta voce:


- Mi ero illuso di essere un motociclista e ora sto solo incasinando tutto.
Ero ancora in tempo per riprendere in mano la mia vita senza troppi danni collaterali, mi dissi. Maria non aveva ancora sospettato nulla, né della maniacale passione per la motocicletta, né della relazione extraconiugale con Adenau. Nemmeno Adenau sapeva nulla, né dell’una (la moto), né dell’altra (mia moglie), né delle motivazioni tutt’altro che accettabili alla base del nostro rapporto malato. Incontrai un pomeriggio fermo ad un semaforo il mio ex amico Francesco: nella sua auto due bambini giocavano nei sedili posteriori e c’erano delle scatole ikea sul portabagagli; si girò verso di me: io abbassai lo sguardo e sentii che era scattato il verde solo per i clacson che ruggivano. Cominciavo a provare vergona, ecco la verità. I pomeriggi con Adenau non erano più passionali come quelli di qualche mese prima. Avere venduto la motocicletta aveva svuotato la nostra relazione che si reggeva esclusivamente sulla vendetta e sul proibito tradimento, Adenau se ne accorse e iniziò a chiedermi se avessi qualche problema, arrivando a mettersi in discussione e provocandomi con folli trovate, erotiche nelle intenzioni ma ai miei occhi soltanto buffe. A volte pure pericolose. Sparii. Adenau continuava a chiamarmi. Cambiai numero di cellulare.


Non ero iscritto ad alcun social network, per fortuna. Sei giorni dopo, uscendo da un cinema pomeridiano trovai una dimagritissima Adenau appoggiata alla mia automobile. Lei mi guardò, poi si accorse di Maria al mio braccio e lasciò cadere dei baci perugina che teneva nelle mani. Maria le chiese gentilmente di spostarsi senza minimamente immaginare chi fosse, quindi Adenau liberò l’accesso alla portiera della macchina scusandosi con una lama di voce. Senza dare nemmeno cenno di essermi accorto della sua presenza, avviai il motore e partii; dallo specchietto vidi Adenau schiacciare i cioccolatini sull’asfalto.  Credevo fosse la chiusura consensuale della nostra relazione, invece no. Una sera tornando a casa dal lavoro trovai di fronte casa, ferma ma col motore acceso, la superbike replica che avevo venduto al medico in pensione: riconobbi la targa, era la mia ex moto. Nessuno accanto, strano. Mi affrettai ad entrare nella mia villetta monofamiliare.
- Ciao amore; non è una moto come quella che avevi, quella lì fuori? – chiese mia moglie.
- Ciao Maria. Sì, è così. – risposi turbato.
- Scusa Riccardo, ma è proprio di fronte il nostro ingresso. Hai visto di chi è?
- No Maria, non ho idea.
- Motociclisti maleducati come al solito! Magari sta al cellulare e ha lasciato la moto accesa praticamente dentro casa nostra! Ora esco e gliene dico quattro!
- Ferma, che vuoi fare! Lascia stare, vado io!


Mentre uscivo di casa una ragazza salì sulla moto, senza casco: Adenau. Mi fissò. Gelai. Non feci in tempo a parlarle che svanirono, lei e la moto. Tornai a casa e riferii a Maria che era tutto a posto.
Da quel giorno fu un inferno. Adenau mi mandò in ufficio un mazzo di gerbere allegando un bigliettino nel quale mi accusava di averla raggirata, “se avessi saputo che tu non sei un vero motociclista non ti avrei manco degnato di un saluto. Ho trovato la tua moto e l’ho ottenuta grazie ai miei servizi ad un vecchio medico. Volevo riportartela e ricominciare, ma ti ho visto con tua moglie e ho capito quanto mi hai ingannata e umiliata. Ti ho amato, mentre tu mi hai soltanto usata. Sono schifata dal tuo egoismo.” Stracciai il bigliettino e donai i fiori alla mia segretaria nel tentativo di comprare il suo silenzio. Trascorsi i mesi seguenti nell’intento di scivolare verso la piatta normalità, vivere pienamente l’unione con Maria progettando di avere dei bambini, in tutti i casi dimenticare quel turbolento periodo di passioni dissennate. Con le motociclette avevo definitivamente chiuso. Eppure, fu impossibile liberarsi di Adenau che spesso incrociavo nascosta nei pressi di casa mia, la cui motocicletta trovavo parcheggiata all’esterno dei luoghi che frequentavo con mia moglie. Maria iniziava a farsi delle domande, alla faccia di chi pensa che le donne non riflettano: moto come quella erano rare, come mai noi ne incrociavamo sempre una che era proprio identica alla mia? Mi trinceravo dietro i misteri della fede. Sapevo però che l’equilibrio era destinato a rompersi e l’ultima volta che sorpresi Adenau dietro un albero a fissarmi mentre aprivo la porta di casa mi ripromisi di chiamare la polizia e di fare saltare il banco. Lasciai perdere. Esattamente dodici ore dopo, in ufficio, mi arrivò un altro bigliettino di Adenau: “Devo parlarti. Vediamoci per l’ultima volta a cena, poi ti lascerò in pace. Mi troverai domani sera alle 21 al ristorante “la curva”.


L’indomani alle 21 trovai Adenau con il bicchiere già colmo fino all’orlo seduta al tavolo del locale, era scheletrica ma elegantissima e senza un filo di trucco, non le serviva. Appena mi sedetti coprì il calice col tovagliolo.
- Non voglio fare ossigenare troppo un merlot da venti euro il bicchiere.
Mi accolse così, senza salutarmi.
- Ciao Adenau. Ho dovuto inventare una scusa per essere qui, quindi cerchiamo di non perderci in chiacchere.
- Non mi avevi detto di essere sposato.
- Non me lo avevi chiesto. La nostra relazione non era di quelle che guardano lontano, del resto.
- Ordina qualcosa, aiuta a non dare nell’occhio.
Trovai invitante un carpaccio. Da bere presi solo acqua frizzante.
- Lo sai perché mi chiamo Adenau?
- Scusa che domanda è?
- …tu non capisci niente.
- Adenau… forse il nome di un’attrice anni trenta che piaceva tanto a tua mamma?
- Riccardo, ti sei mai chiesto come è morto mio padre?
- Che cavolo c’entra! Se non te l’ho mai chiesto è perché ho sempre rispettato la tua riservatezza!
- Quello che penso e la mia vita non ti hanno mai interessato. Anche una relazione di sesso ha le sue regole, Riccardo, la sua etichetta. Tu non rispetti niente, perché tu non vuoi capire né conoscere nessuno, tu desideri qualcosa e te la prendi, forte del tuo denaro e del tuo fascino. Lo ammetto, ci sono cascata come una stupida.
- Chiarissimo; dimmi quanto vuoi per non farti più vedere.
Adenau mi guardò come se avesse previsto la mia risposta.
- Tieni- sospirò porgendomi una valigetta.
Aprii la valigetta trovandoci la targa e le chiavi della mia ex moto; c’era pure un forte odore di benzina.
- Che fine ha fatto?- chiesi senza mostrare molto interesse.
- L’ho bruciata.
- Peccato, valeva ancora un sacco di denaro.
- Esatto, se avessi voluto soldi potevo rivenderla.
- Cosa ti serve, allora? Cosa posso fare per te?


- Niente, non puoi fare niente. Il pensiero di essere ancora innamorata di un uomo abietto come te mi umilia, Riccardo. La psicologa mi ha detto che in te ho voluto trovare la figura paterna. Mio papà era un motociclista: è morto con la motocicletta al Nurburgring poco prima che io nascessi; mia mamma mi ha chiamato come il luogo dove è avvenuto l’incidente, Adenau. Non ho mai perdonato mio padre per avere lasciato sola mia mamma incinta per andare a girare in una pista a mille chilometri da casa, morendoci; chiamami pazza ma ho sempre provato a redimerlo cercando un vero motociclista, come tu mi sembravi, da conquistare, da stringere a me per non farmi abbandonare mai più. Ho sbagliato tutto: tu non sei un vero motociclista. Non hai esitato a vendere la tua moto, io ero il tuo nuovo giocattolo che ha preso il posto di quello vecchio. Ti volevo e ti vorrei tutt’ora, ma è inutile che mi illuda ancora: tu sei un ometto che vuole tornare la sera a casa e trovare un piatto caldo e un letto tiepido. Non troverai mai più nessuna donna che potrà darti un amore puro come il mio; guarda che scema: anche adesso, se tu volessi, verrei con te ovunque: noi due, da soli, anche senza moto. Devo essere veramente matta…
- Non dire idiozie Adenau! Non lascerò mia moglie. Mi dispiace per te e per come hai preso la fine della nostra storia ma ora non è più il tempo di rimpianti e soprattutto tu devi smettere di perseguitarmi!
Seguì un infinito silenzio nel locale rumoroso e affollato, mangiai il mio carpaccio e bevvi la mia acqua gasata, mentre Adenau piangeva a singhiozzi muti. Non potevo farci nulla, avevo sbagliato ma quella ragazza stava esagerando.
- Senti, voglio chiederti scusa se ti ho ferita, ora però dobbiamo andare avanti per la nostra vita. Bevi qualcosa, non hai ancora toccato il vino.
Adenau avvicinò a sé il bicchiere ancora coperto dal tovagliolo, dignitosamente. Leccandosi le labbra mi sibilò:


- Ho il rimorso di non riuscire ad odiarti.
Bevve tutto d’un fiato il contenuto del calice fino a farlo strabordare sulla sua guancia, lo poggiò sul tavolo con simulata calma e mi mandò un bacio, come fanno gli adolescenti. Nell’aria c’era uno strano tanfo di benzina che attribuii alla valigetta. Mi tuffai per un minuto dentro il menu, indeciso se prendere qualcos’altro o chiedere il conto, poi mi girai verso la sala cercando un cameriere per ordinare un cannolo alla ricotta e un caffè. Udii un tonfo e il tavolo sussultò, voltandomi trovai Adenau riversa sulla tovaglia, priva di conoscenza. Chiesi aiuto urlando; confuso, pensai ad un malore simulato per stimolare la mia reazione pietosa. Si avvicinarono in molti, arrivò un medico da un tavolo vicino che domandò cosa avesse ingerito questa ragazza:
- Che io sappia ha ordinato solo un bicchiere di merlot. - risposi.
Un cameriere disse a voce alta e stupito:
- Impossibile, qui non serviamo vini al bicchiere!
Presi il calice dal quale Adenau aveva bevuto e lo annusai: benzina, mista probabilmente a qualcos’altro di ancora più venefico. Il medico mi guardò con lo sguardo di pietra. Mi sentii come se l’avessi uccisa io. Adenau andò via in ambulanza, poi arrivò la polizia. Mandai un messaggio a mia moglie avvertendola che avrei fatto molto tardi, non rispose. Inaspettatamente gli agenti furono molto comprensivi e subito dopo l’identificazione capirono che non ero assolutamente in grado di rispondere ad alcuna domanda né di guidare; mi diedero appuntamento in questura per la mattina successiva e una volante mi accompagnò immediatamente a casa.
Ero di fronte alla mia villetta dalle luci ancora accese, stordito e allucinato, con un senso di colpa grande come la mia determinazione a confessare tutto a Maria e dirle che ero stato uno stupido, che avrei fatto qualsiasi cosa per ottenere il suo perdono e tornare ad avere la nostra vita così come l’avevamo immaginata prima che io comprassi una motocicletta e la tradissi con una ragazza venti anni più giovane di lei. 


Parcheggiato sul marciapiede c’era uno scooter. Aprii la porta cercando le parole per spiegare tutto dall’inizio, sapevo che avrei procurato un enorme e immeritato dolore a Maria: mia moglie era tutto quello che mi rimaneva. Appena a casa ebbi l’impressione come se prima del mio ingresso ci fosse stato un gran trambusto, frettolosamente sedato e tramutato adesso in una calma sospetta e irreale. Avvertii una scossa elettrica e corsi in camera da letto sudando freddo. Trovai avvinti nelle lenzuola Francesco e Maria: inebetiti e terrorizzati come nel più miserabile copione di una fiction a puntate. Nessuno disse una parola, strozzati chi dalla sorpresa, chi dalla vergogna, chi da entrambe. Scesi in cucina e presi un calice da vino, dal portafoglio prelevai cinque euro e uscii. La stazione di servizio era aperta anche di notte e non era lontana.

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