L'intervista a Luca prima dell'incidente

Il forte pilota sardo racconta i suoi sogni e le sue ambizioni prima della gara, consapevole dei rischi e dei pericoli insiti da sempre nella Dakar
8 gennaio 2010


Riportiamo il testo integrale dell'intervista rilasciata da Luca al quotidiano La Nuova Sardegna.
Vale la pena leggerla, per comprendere cosa spinge un pilota esperto e preparato come Luca ad affrontare una corsa così dura. 
Alla base di tutto c'è la passione; e a pensarci bene è proprio l'amore per ciò che facciamo a farci sentire vivi.
In bocca al lupo, Luca. Siamo con te.

A.P.


L'intervista a Luca Manca


Luca Manca ama i deserti dell’Africa,
il suo sogno era partecipare un giorno alla Paris-Dakar. L’ha realizzato oggi che di quella gara è rimasto solo il nome e le dune da superare sono quelle cilene dell’Atacama. Va bene lo stesso, a Capodanno si comincia.

Il motociclista sassarese è già partito per le verifiche, destinazione Buenos Aires dopo una tappa a Madrid, la novità è che non va a far numero o vivere un’esperienza particolare. Corre sulla Ktm ufficiale e può fare un risultato importante, i riflettori se li è meritati in ottobre con uno straordinario secondo posto in Egitto al Rally dei Faraoni. Ora la Dakar, la gara più seguita dai media e dagli appassionati di sport con le tv di 189 paesi che trasmettono dirette e sintesi, vissuta con grande passione in Sudamerica dove nelle speciali si accalcano le folle come al Mondiale rally per auto. Due settimane a cavallo di una Ktm 690 gommata Pirelli, Buenos Aires andata e ritorno passando per la Pampa e il Cile, con lo sguardo fisso sul navigatore Gps: «È la nostra guida, non possiamo distrarci nemmeno per un attimo - dice Manca -. Basta un battito di ciglia ed esci dal percorso, finisci per terra ed è finita, la moto non parte più e devi solo aspettare il “camion scopa” che ti porta al villaggio».

Quanto è diverso correre in Sudamerica?
«Per me è la prima volta. Conosco benissimo i deserti africani, mi sarebbe piaciuto partecipare alla vecchia Dakar anche per una questione di confidenza col terreno. In Sudamerica ci sono sterrati veloci e con molta polvere, l’anno scorso a decidere la classifica è stata una gomma squarciata. In generale, chi ha corso l’anno scorso dice che non è durissima. Per questo è importante non forzare nella prima settimana, evitare di deteriorare le gomme e cadere. La gara vera comincia dopo il giorno di riposo, quando ci confronteremo con l’Atacama».

Com’è la giornata in queste competizioni?
«La Dakar è una piccola città di di 5000 persone che si sposta ogni giorno. In media devi stare sulla moto per 9 ore con lo sguardo fisso sulla bussola, non hai certo il tempo di guardare il panorama. Mangi barrette, per bere hai un tubicino di gomma collegato alla sacca dell’acqua. Il massimo che ti puoi concedere è una sosta in un bar durante qualche trasferimento. Quando arrivo vado al villaggio, monto la tenda e mi metto subito a dormire. Per fortuna io ho il mio gruppo di meccanici per l’assistenza e posso ritagliarmi un po’ di tempo per riposare».

Altrimenti?
«Sarebbero giornate che non auguro a nessuno. Qualche volta mi è capitato di dare una mano a qualcuno per rimettere a posto la moto, i privati fanno una vita d’inferno. Ho visto gente che per giorni e giorni si buttava dentro una tenda con gli stivali ancora ai piedi perché non aveva le forze e il tempo di toglierli».

Durante la gara qual è il problema principale?
«Devi guardare costantemente la bussola digitale. Se esci dal percorso lo fai a tuo rischio e pericolo, nessuno ti obbliga a seguire il tracciato prestabilito ma quando vai fuori dal percorso sai già che l’organizzazione non ha verificato quei tratti e non si assume alcuna responsabilità, stiamo parlando di andare su dune alte 170-180 metri. In queste situazioni chi ha esperienza la sfrutta, solo i piloti del posto possono permettersi di accelerare all’inizio della Dakar. Per quel che mi riguarda, non voglio andare troppo forte all’inizio e nemmeno perdere il treno dei migliori. Quello che tutti temono, anche se può sembrare strano, è il giorno di riposo. Rischi di rilassarti troppo, perdere la concentrazione e la carica nervosa. Il giorno dopo però si va nell’Atacama e basta un attimo per ucire dalla corsa».

Fisicamente è impegnativo?
«Queste gare di durata sollecitano soprattutto la parte alta del corpo. Io ho un personal trainer col quale faccio una preparazione specifica e poco prima della gara abbiamo un programma di scarico per arrivare completamente rilassati e senza dolori. Durante la gara i dolori comunque arriveranno, se parti già con qualcosa sulle spalle diventa una sofferenza».

E dove si prepara una gara come la Dakar?
«La Sardegna va benissimo, non ci manca certo la sabbia. Bisogna un po’ adattarsi ma non c’è bisogno di fare trasferte».

Quanto è pericolosa la Dakar?
«Da uno a dieci, sette. Resta sempre la gara con più morti tra quelle che si corrono nel deserto, quello che distingue i professionisti dai dilettanti è la coscienza del pericolo. Il rischio resta sempre alto, però almeno sai a cosa vai incontro e ti comporti di conseguenza. Per chi corre queste gare all’arrembaggio, il rischio e i pericoli raddoppiano. Sono pur sempre sport estremi».

Se è così pericoloso, cosa la spinge a correre questi rischi?
«È troppo bello».

Il primo sogno l’ha realizzato, iscriversi alla Dakar. Con quali propositi?
«Intanto ringrazio i miei sponsor, più la Travaglini Moto di Alghero che segue i miei mezzi in allenamento e le Assicurazioni di Stefano Sardara: loro mi hanno consentito di iscrivermi. Per quanto riguarda gli obiettivi, voglio arrivare fino in fondo e possibilmente nei primi cinque. Dopo il secondo posto in Egitto tutti gli addetti ai lavori dicono che posso farcela. E poi quest’anno lascio in Sardegna la famiglia: la mia compagna Giuliana e mia figlia Beatrice di sei mesi. Pensando a loro andrò più forte e solo un risultato importante potrà compensare un’assenza da casa così lunga».