I Racconti di Moto.it: "Provaci"

I Racconti di Moto.it: "Provaci"
Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
Se i vestiti iniziano a starmi male, è il momento di cambiare. Senza avvisare prima, ogni tanto la roba che indosso rifiuta di cadermi a pennello e tira, si intraversa, si ribella, prende l’iniziativa...
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
3 maggio 2013

Punti chiave


Se i vestiti iniziano a starmi male, è il momento di cambiare. Senza avvisare prima, ogni tanto la roba che indosso rifiuta di cadermi a pennello e tira, si intraversa, si ribella, prende l’iniziativa. Si accorcia e restringe, muta il colore come una pelle, giungo fino alla scomodissima condizione di avere i jeans che da un giorno all’altro mi segano il cavallo in due facendomi lanciare gridolini nervosi in falsetto, molto freak e disco-dance anni ’70.


Ok, cambiare: cosa? Alla bilancia il mio peso è come sempre 70 kg: sarò l’unico uomo al mondo che cambia la forma ma non il peso; quando ero circolare come una camera d’aria il mio peso era 70 kg mollemente distribuiti, poi ho seguito da una dieta drastica col contorno di un’asfissiante e ossessiva attività in palestra quattro volte la settimana e i 70 kg si sono concentrati sulle gambe, diventate due cosce di pollo giganti, e sulle braccia ridotte a nodose mazze venose. Ora sono sempre 70 kg di indolenza e bontà a buon mercato. Sto nella terra di mezzo della mediocre forma fisica in attesa della prova costume: non sarò come quelli che d’estate ostentano il loro corpo scolpito e lucido come un enorme giocattolo glabro, ma anche dopo i cinquant’anni faccio ancora la mia porca, dignitosa, figura, soprattutto quando sono in motocicletta.


Già, in moto. Mi viene da ridere osservando tutti quei soggetti, gonfi di testosterone e sbracciati come un pescatore ad ostentare i bicipiti, che salgono in sella e sperano che il tragitto fino al bar riservi loro un’avventura o un’epica sfida all’ultima piega da semaforo a semaforo contro un ignoto avversario. Ogni periodo ha i suoi modelli, quello che sto vivendo vede il motociclista come un ragazzotto quarantenne in camicia mezze maniche, casco aperto con bluetooth integrato, enduro teutonica d’ordinanza, abbronzato pure per S. Silvestro e sorridente. Che c’avranno da ridere mi dico. Io non mi ci rivedo mica in questo modello.
Forse non sono più il motociclista per tutte le stagioni che mi ero sempre illuso di essere. Ecco quello che i miei vestiti mi vogliono comunicare: quando i tuoi panni ti respingono è solo il segnale che un piccolo cambiamento è già partito, sei tu che sei in ritardo e comunque vadano le cose tra non molto qualcosa sarà diversa, ti piaccia o no.


Comunque, nell’attesa del cambiamento epocale, ho acquistato una circolare prato per il Gran Premio, il massimo che posso permettermi. Il circuito è immenso e io qui mi sento a casa, immerso in una natura rigogliosa e promessa sposa del Gran Premio annuale; un luogo dove se ti fermi il mattino presto a sentire il silenzio del vento scopri che tra le foglie degli alberi secolari che ne delimitano il perimetro è rimasto ancora intrappolato qualche scoppio dei vecchi motori 125 a cinque cilindri 9 marce o qualche nota baritonale dei primi due tempi 500 che affogano nella loro carburazione delicata: il vento del mattino muove le fronde e libera questi echi vecchi di decenni che possono prendere finalmente il largo e andare a riposare ma, prima di lasciare questa terra e spegnersi, si concedono per un ultimo ascolto a me che da piccolo non avevo soldi e stavo giorni interi dietro le reti esterne ad udire senza poter vedere. Mi facevo le telecronache da solo, tiravo ad indovinare su chi o cosa potesse avere quel rumore, dando corpo ad epiche battaglie immaginarie dei campioni che vedevo sui giornali. Fu in quegli anni che sviluppai un incredibile orecchio assoluto per i suoni degli scarichi, riconoscendoli e abbinandoli poi alle moto cui appartenevano con una facilità sorprendente.


Ho il mio posto segreto dove seguire le gare: le motociclette escono velocissime dall’ultima variante affrontando il lunghissimo rettilineo chiuso da una curva che all’inizio è così lontana che non la vedi e la pista si chiude in un punto lontano come l’iperspazio. Io mi metto a metà rettilineo e sono sempre da solo perché forse sono l’unico a godere della pura espressione della velocità e tra i pochissimi a cui non interessa la battaglia per la vittoria ma piuttosto sentire l’adrenalina dei piloti tesi alla conquista della velocità e pronti ad affrontare una curva veloce col cuore in gola, magari pieni di speranze affidate la sera del sabato alle mani giunte o alle gambe di una donna.


Mi metto lì sul prato, apro il mio zaino che mi segue da trentacinque anni appendendolo allo stesso ramo di quercia ogni anno e quando alle mie spalle inizia la gara con un gran boato di festanti esagitati a torso nudo per il caldo, chiudo gli occhi e ascolto le motociclette: aspetto un minuto e mezzo circa e le sento arrivare, prima alla staccata, poi lanciarsi alla ricerca del vertice delle prestazioni; passano di fronte a me rapide come i fotogrammi di un film che reca un messaggio subliminale, tanto che non saprei nemmeno dire di quale colore è la carena.


Mentre sfilano oltre i duecento all’ora, sento la rabbia dei piloti e il loro pensiero, il timore che il motore ceda, di sbagliare la staccata e di perdere tutto il buono fatto fin lì, di alcuni sento persino l’io che si chiede quando finirà il rettilineo perché il dritto è noioso e fa paura, di qualcuno, ma sono stati pochissimi in oltre trent’anni di presenza, avverto la lucida calma e la fusione con l’erba e le querce, con i castagni e i cordoli, come nuotassero sull’asfalto e la vittoria non fosse altro che il risultato del loro intimo appagamento nel guidare una moto da corsa. Altro che sfide da semaforo a semaforo con i bicipiti al vento e le infradito.


Adesso, però, è soltanto sabato mattina, e quelle in corso sono solo le prove della categoria minima e dei loro motori con i tromboncini che petulano disperati negli allunghi. Questi piloti fanno tenerezza se li vedi senza casco e senza tuta. Sembrano i nipoti che non ho mai avuto, smarriti dentro una pista più grande di loro, la cui storia li sovrasta; alla loro età, io ero un ragazzino che il sabato e la domenica del Gran Premio andava ad appicciare il naso e la fronte sulle reti di protezione della pista dove loro oggi si contendono le posizioni sulla griglia di partenza e rincasavo con dei grossi rombi impressi sulla pelle del volto. Avessi avuto la loro fortuna! Ma la vita dà ad ognuno un ruolo e un copione e se si vuol essere felici bisogna farselo piacere senza mai sperare che cambi.


Oggi le motociclette da corsa sono tutte molto simili tra loro, non c’è più molto da sbizzarrirsi tecnicamente: forse questi non sono i tempi né dei tecnici creativi ed intraprendenti, né dei piloti estroversi ed eclettici che giocavano l’onore e la carriera solo per la voglia di emergere e se c’era da farlo mettevano in pista, perdendola, pure la vita. Ora vanno come schegge, tutti con le stesse traiettorie, le stesse pieghe, le stesse dichiarazioni del dopogara a volte stranamente somiglianti a quelle calcistiche. Mi sembrano un po’ stressati, ‘sti ragazzi. Un po’ computerizzati, programmati, poco flessibili. E questi della categoria minore non fanno eccezione, li preferisco in sella ai loro microbolidi da cinquanta cavalli piuttosto che sentirli scimmiottare, per necessità imposta dagli sponsor o per sentirsi già degni della top class, gli atteggiamenti e le improponibili pose dei pluricampioni, risultando a volte un po’ antipatici, a volte patetici, spesso suscitando in me un affetto paterno tale che li prenderei e li porterei a prendere un gelato con mio Morini tre e mezzo sport.


Le prove scorrono e queste zanzare scoppiettanti sbriciolano ad ogni loro passaggio l’aria di fronte la mia postazione solitaria su questo rettilineo. Cavolo come vanno! Piccoli fosfeni, lampi multicolori nella ristretta porzione di spazio percepita dal mio campo visivo che, tra una misodesopsia e l’altra, impressionano la mia cornea e la retina: io serro le palpebre e li rivedo tutti, uno per uno.


Mentre ho gli occhi chiusi, sento che una motocicletta arranca: no, non arranca, rallenta. Sembra a mezzo gas proprio nel rettilineo più veloce! Il regime basso, la velocità ridicola: io non posso fare a meno di riaprire gli occhi e cercare di capire cosa stia accadendo. A poche decine di metri da me, quella moto va a passo turistico, la velocità è in continuo calo; sembra non avere problemi, forse il pilota vuole provare una partenza ma non è il momento, mancano più di venti minuti alla fine del turno di prove ed è troppo pericoloso fermarsi in mezzo alla pista. Poi, giuro, la motocicletta accosta sull’erba e rallentando fino a fermarsi si mette all’ombra delle querce accanto il guard rail che delimita il tracciato di gara, proprio davanti a me, quasi nascosto al passaggio degli suoi avversari. Il motore si spegne; il ragazzino in sella poggia le mani sulla nuca e china la testa. Sono singhiozzi quelli che sento? Non lo so, i miei vestiti mi distraggono perché proprio in questo momento hanno deciso di starmi più scomodi del solito anche se sono soltanto un paio di jeans e una maglietta, mente le calze pare abbiano le ortiche dentro.
 

Il pilota si sfila il casco dalla testa e affiora l’imberbe volto di un bambino al quale io affiderei si e no la mia vespa per andare a comprare il pane, con tante prediche di stare attento e l’avvertenza che il freno è quello a destra; invece questo è in sella ad una moto da Gran Premio e ha le saponette abrase pure sui gomiti. Però piange. Potrebbe essere mio nipote, figlio no, ma solo perché io dei figli degli altri ho rispetto.
- Amico, tutto ok? Stai bene? – mi viene spontaneo chiedergli.
Lui sobbalza e si gira verso di me.
- …sì…
- Chiamo qualcuno?
- …no, grazie. Tutto ok.

Sarà, ma il bimbo continua a piangere. Mi guarda, probabilmente infastidito dalla mia presenza che non aveva certamente né desiderato né preventivato prima di fermarsi sull’erba del rettilineo.
- …è che non ce la faccio… - mi dice trattenendo a stento un singhiozzo, quasi a giustificarsi.
- Non ce la fai a far cosa, stai male?
- È tutto troppo difficile, io non mi diverto più… ma non posso fermarmi. Papà ha ipotecato la casa per farmi correre, il team spera che io faccia risultati per continuare ad andare avanti, ho dovuto lasciare la scuola per trovare il tempo di allenarmi e per le trasferte, non vedo più gli amici… io mi chiedo cosa sto a fare qui a diciassette anni. Il mio miglior risultato in queste due stagioni di mondiale è stato un ottavo posto e oggi non riesco manco a capire che marce devo usare in questa pista sfigatissima!
- Ragazzo, così rischi di farti male. Se non ti senti, ritirati e torna a casa. – pista sfigatissima lo dici a qualcun’altra piccolo presuntuoso, penso tra me e me.
- È proprio questo il punto, non posso! Come faccio a spiegarlo a tutti quelli che mi aspettano nel box!?
- Bon, gli dici che ti sei stancato, che non te la senti! Ma che vuoi fare, girare e manco qualificarti o magari arrivare alla gara, partire in ultima fila, andare dieci secondi più lento degli altri e fare la figura del pirla tirandotela dietro tutta la vita? Se non ti va di correre non è una colpa, vedrai che il tuo babbo e il team capiranno!
- Ma che ne sa lei, che mi parla da dietro la rete e si gode lo spettacolo!
- Bimbo bello, io alla tua età e al tuo posto sarei stato il ragazzino più felice del mondo!
- Sul serio?
- Certo! Non sai la fortuna che hai, io per mettere il culo su una moto come la tua e girare in questa pista avrei venduto l’anima al diavolo!
- Non c’è bisogno di arrivare a tanto. Questa è la sua buona occasione. – e detto questo il fanciullo scende dalla moto, scavalca le reti e viene dalla mia parte.
- Che ti prende? – urlo, sorpreso da questo gesto insolito.
- Farebbe una cosa per me?
- Cosa intendi?
- Prenda tutto: la mia tuta, il casco, i guanti e gli stivali. Abbiamo bene o male la stessa corporatura… salga sulla moto. Io mi godo lo spettacolo di questi ultimi venti minuti di prove, poi lei appena vede la bandiera a scacchi fa l’ultimo giro, si ferma qui e rifacciamo il cambio dei vestiti. Non mi interessa se va piano o va forte, io voglio solo rilassarmi un po’ e prendere le cose con più calma. Mi sono già qualificato per domani, non corro rischi. – e nel frattempo si spoglia rimanendo in mutande.
- Io? Pilota per venti minuti? - i miei vestiti mi tormentano- tu sei scemo, ragazzino!
- Lei come si chiama, signore?
- …Andrea.
- Andrea, ti prego. - il disgraziato mi fa gli occhioni e passa al “tu”.
- Ma non ho mai guidato una moto come quella!
- È solo una moto!
- Sì ma è… cattiva!
- Andrea, provaci. Vedrai che ti piace. Io ho bisogno di fermarmi, altrimenti non riparto più. – un attimo di silenzio si intrufola nella nostra conversazione mentre soppeso la tuta che il ragazzino mi mette nelle mani.
- …la prima è in alto e il cambio a sinistra, vero?
- Esatto.
- … mi ci dovrò abituare.

I miei vestiti sono felicissimi: dico la verità se ammetto di non avere mai provato un’eccitazione come questa. La tuta e il casco del ragazzo mi stanno a meraviglia, sono più giovane di trent’anni. Scavalco la rete, mi affianco alla moto e la accendo a spinta, il motore mi dà il benvenuto a bordo con un urlo a 10000 giri. Ho il cuore in gola, spalanco il gas in una marcia che non ho capito bene se sia la terza o la seconda e la pista mi sembra larghissima adesso che per la prima volta la vedo da dentro. Punto dritto verso il curvone a destra che immette sul rettilineo d’arrivo con l’animo di un ragazzino di diciassette anni e le attese di una vita lunga più del triplo. Ho venti minuti. Non importa come li spenderò, se sarò veloce o sarò lento.
Venti minuti: erano trent’anni che li aspettavo, poi di nuovo qui a cambiarmi d’abito. I miei vestiti non sbagliano mai.

Venti minuti, sento la mancanza di un figlio al quale raccontarli.
Venti minuti che vorrei eterni ora che passo davanti ai box e c’è un cartello per me.
Non so come, ma alla prima variante ho superato una moto. Abbasso la testa e regolo il freno, cerco il feeling con l’avantreno e penso che posso superarli tutti, non importa quello che ho fatto negli ultimi cinquant’anni. Contano solo i miei venti minuti.

Nessuno sa mai chi è veramente prima dei propri, inattesi, venti minuti.

 

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