EICMA 1983. Grandi novità Made in Japan

EICMA 1983. Grandi novità Made in Japan
Maurizio Tanca
  • di Maurizio Tanca
Si parlava anche allora di crisi dell’economia mondiale, di contrazione delle vendite dei prodotti più economici, del Giappone in difficoltà. Tuttavia non mancarono certo grosse novità, alla 48esima edizione di EICMA
  • Maurizio Tanca
  • di Maurizio Tanca
7 agosto 2013

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Torniamo indietro di altri dieci anni, a bordo della nostra immaginaria macchina del tempo che ci trasporta nel lontano 1983, per andare a riscoprire cosa ci proponeva il Salone milanese della motocicletta nell’anno in cui il numero dei motoveicoli circolanti sul nostro pianeta aveva superato nettamente gli 80 milioni. Anche allora l’economia mondiale accusava una certa sofferenza, anche perché la cosiddetta “rivoluzione elettronica” – leggi “robotizzazione” - iniziava a minare significativamente i posti di lavoro, aumentando il prodotto interno lordo delle nazioni più forti ma aumentando contemporaneamente anche la disoccupazione, e riducendo dunque il potere d’acquisto dei paesi più poveri, e di conseguenza le vendite dei prodotti meno costosi. Anche il Giappone iniziava a segnare il passo per quanto riguarda la diffusione delle sue moto all’estero, e a conoscere le nefaste conseguenza della disoccupazione.


Per dare un po’ di numeri del nostro mercato nei primi sei mesi del 1983 rispetto ai due anni precedenti, troviamo un immatricolato totale di 470.000 veicoli contro i 619.450 dell’82 e i 745.025 dell’81 (!), dunque con un calo globale del 24%, anche se va detto che furono i ciclomotori ad accusare da soli un 24,6% netto, passando nei tre anni succitati da 445.000 a 260.000 unità vendute.


Quanto alle varie fasce di cilindrata, le motoleggere fino a 125 cc accusarono un calo del 15,2%; quelle da 126 a 200 cc crollarono ben del 40,9%, e quelle da 201 a 350 soffrirono un buon – 29,4%. Una grossa boccata d’ossigeno arrivò fortunatamente dalla fascia di cilindrata tra i 251 ed i 350 cc: l’unica con un segno positivo importante: +56,9%. Peccato che per la fascia successiva – da 351 a 500 cc – successe quasi esattamente l’opposto: -50% netto in tre anni, e questo a causa della politica protezionistica (che contingentava l’importazione di moto giapponesi di cilindrata fino a 380 cc) fortemente imposta da Alejandro de Tomaso, allora proprietario di Moto Guzzi e Benelli. Molto meno tragica, di conseguenza, la situazione delle oltre 500 cc, che accusò una negatività ben meno preoccupante:  – 5,3%.


Sempre riguardo al 1983, è sorprendente scorrere la classifica delle vendite di parecchi marchi oggi scomparsi o quasi, e di altri oggi al top: le Case che occupavano le prime dieci posizioni nelle vendite in Italia furono infatti Piaggio (con quasi il 38,5% del mercato), Honda (12,3%), Cagiva (quasi 10%), Yamaha (7%), Moto Guzzi (6%), Kawasaki (4,4%), Suzuki (4%) Fantic Motor e Honda Italia  (circa 2,6%), e poi Moto Morini, Laverda, BMW (!), SWM, Aprilia, KTM, Ducati (che allora era considerata praticamente come persa!), Gilera, Benelli, Beta, Garelli, Italjet, Maico, Villa, Zündapp, Jawa, TGM, Ossa, Serveta (la Lambretta spagnola), Bultaco, Sachs, ed altri ancora…SIGH!!!


Comunque sia, gli economisti  allora prevedevano una prossima ripresa dei maggiori Paesi industrializzati, e l’EICMA N°48, che si tenne dal 23 al 29 novembre sempre allo storico quartiere fieristico oggi denominato Fiera Milano City, vide aumentare il numero di espositori (1.320), e i Paesi presenti furono 25, tanto da costringere gli organizzatori ad aumentare la superficie espositiva fino a 60.000 mq.


Quell’edizione dello show motociclistico milanese ospitò parecchie eclatanti novità , in particolare provenienti proprio da quel Giappone che nel primo semestre dell’1983 aveva esportato in Italia ben il 28,2% contro il 17,2 del medesimo periodo del 1982, aumentando l’immatricolato dal 73,4 al 79,6%.


E tenete presente che la crisi giapponese aveva portato alla riduzione della produzione motociclistica interna dai 3.756.160 pezzi del primo semestre ’82 ai 2.802.576 dell’83…


Andando poi ad esaminare il venduto del 1984, per le moto si nota un calo netto del 7,3% rispetto all’anno precedente (130.090 moto contro 140.411), ma per gli scooter andò ben peggio: --28,6% (59.194 pezzi contro gli 82.947 dell’83)!


Ma andiamoci un po’ a vedere che razza di eclatanti novità ci gustammo a quel 48° Salone di Milano, ad onta del periodo difficile. E vediamo anche quanto costavano allora quelle moto, e come vennero recepite l’anno seguente, iniziando la nostra rassegna sempre in ordine alfabetico, in questo caso proprio con BMW, che proprio quell’anno iniziò un percorso a marce forzate sulla strada delle tecnologia, che la portò gradatamente fino agli allori attuali.


BMW


Bene, per altri sessant’anni siamo a posto!”. Con questa “storica” (e soprattutto azzardata) esclamazione di entusiasmo, un noto collega, biemmevuista sfegatato, diede il benvenuto alla nuova, rivoluzionaria BMW che spiccava sotto ai riflettori all’EICMA del 1983: ovvero la K100, la “4 cilindri a sogliola” con la quale la dirigenza BMW di allora sembrava voler addirittura a soppiantare i mitologici boxer, seppur senza rinunciare alla trasmissione finale ad albero!


La K100, presentata in versione “nuda” – definizione che allora non era ancora indicativa di una categoria – semicarenata (K100RS) e granturismo (K100RT) fece logicamente un grande scalpore, proprio per quel suo motore così particolare: un “4 cilindri” non si era mai visto su una (moto) BMW, a maggior ragione in quella configurazione non solo longitudinale, ma pure inclinata di 90 gradi! E da lì scattarono fin da subito gli anatemi degli ultràs del boxer, che gridarono al sacrilegio col risultato di prolungargli la vita, come ben sappiamo. Vi immaginereste un GS a 4 cilindri? Difficile, vero?

BMW K100RS
BMW K100RS


Comunque sia, il progetto K100, iniziato nel 1978, verteva chiaramente proprio su quel sofisticatissimo motore a iniezione elettronica (Bosch VZ-51L, per i più pignoli), ovviamente raffreddato a liquido, accreditato di 90 cv a 8.000 con 8,7 kgm di coppia massima a 6.000. La  frizione, azionata tramite cavo d'acciaio, era monodisco a secco e controratante, per annullare la famigerata coppia di rovesciamento, e gestiva un cambio a 5 marce. Mentre la trasmissione finale era ad albero cardanico sul lato destro: soluzione, quest’ultima, chiaramente facilitata proprio dalla configurazione definita “longitudinale a sogliola”. Le K100 montavano 3 freni a disco con pinze Brembo, una sospensione posteriore Monolever con ammortizzatore laterale, e pesavano rispettivamente 239, 249 e 254 kg in ordine di marcia. Ecco i prezzi delle nuove BMW K100: 9.920.000 lire per la nuda, 11.990.000 per la semicarenata e 12.360.000 per la granturismo.

 

Il consuntivo di fine ’84 risultò molto lusinghiero per le nuove K100, tant’è che sommando le vendite dei tre versioni (669 RS, 316 “nude” e 121 RT) la nuova arrivata risultò la terza maximoto più venduta in assoluto, con 1.106 esemplari. E, giusto per la cronaca, naturalmente la bicilindrica più richiesta era già allora la R80 GS.  Nessuna BMW, tuttavia, figurava ancora tra le Top 20 del 1984, che troverete elencate a consuntivo di questo articolo, in modo da rendervi contro di com’era orientato in quel periodo il mercato italiano

 

Ducati


Proprio nel 1983 Claudio e Gianfranco Castiglioni avevano stipulato un accordo con la Ducati per poter utilizzare i motori bicilindrici ad L delle Pantah (350 e 650) su alcuni modelli Cagiva. L’acquisizione del Marchio bolognese da parte di Cagiva Group si concretizzò però tre anni più tardi, durante i quali da Borgo Panigale ogni tanto usciva qualche modello, diciamo, non propriamente esaltante: come la TL350, unica novità Ducati presentata al Salone milanese di quell’anno, e versione in minor della omologa 600.
Ducati TL350
Ducati TL350

La TL350, peraltro, non era che una rivisitazione estetica della precedente XL, che appariva come una Pantah alla quale era stata sostituita la carenatura con un cupolino squadrato, esteticamente poco coinvolgente. Comunque sia, le TL erano comode motociclette  da 177 kg dichiarati, piacevolmente prestanti e divertenti da usare, con manubrio rialzato e un minimo di protezione dall’aria. Ma diciamo che l’estetica le gratificava ben poco, tant’è che quando Cagiva produsse le omologhe Ala Azzurra 350 e 650, le TL sparirono. La TL350, che venne realizzata anche in versione depotenziata a 27 cv, godeva di una quarantina di cv, per una velocità di circa 165 km/h effettivi; e costava 4.366.000 lire.

 

Fantic Motor


Negli anni 80 era ancora ampiamente possibile acquistare delle notevoli moto da trial con le quali poter percorrere anche tragitti stradali stando seduti in modo ergonomicamente accettabile, seppur su sellini che stavano diventando sempre più risicati. Ecco dunque comparire a Milano la nuova ammiraglia “da acrobazia” di Fantic Motor: la 300 Professional, con motore raffreddato ad aria da 249,5 cc anziché 243 della Trial Professional 240. La nuova 300 pesava 92 kg, ed era accreditata di una velocità massima di 110 km/h. Prezzo: 3.314.500 lire.


La nuova ammiraglia da trial della Casa di Barzago fu parecchio apprezzata,
visto che ne furono vendute ben 500 nell’arco del 1984.

 

Honda


Honda puntava dichiaratamente sul fascino dell’Endurance, paracadutando a Milano la straordinaria VF1000R, evidente replica delle racer ufficiali realizzate da HRC. Questa magnifica motona, sostitutiva della CB1100R a 4 cilindri trasversali, era spinta da un formidabile V4 a 90° raffreddato a liquido da 998 cc, con distribuzione bialbero a 4 valvole per cilindro azionata da doppia cascata di ingranaggi, esattamente come le Honda ufficiali da Endurance. Il nuovo V4 Honda era alimentato da carburatori Keihin CV da 34 mm, aveva un cambio a 5 marce e frizione ad azionamento idraulico. Per il “bolide” in questione venivano dichiarati ben 130 cv  a 10.400 giri, con 8,8 kgm di coppia a 8.000 giri, un (molto ottimistico) peso di 240 kg e una velocità massima sulle prime generosamente valutata in ben 280 km/h.


Niente alluminio nel telaio, però, che a differenza delle racer qui era in tubi quadri, ma di acciaio, astutamente verniciati in argento. Si trattava di una struttura a doppia culla chiusa parzialmente scomponibile, con davanti una forcella tele idraulica regolabile dotata del sistema anti-dive allora molto in voga, in questo caso denominato TRAC (Torque Anti Reactive Anti Dive Control), e dietro un forcellone in alluminio con sospensione progressiva Pro-Link. Da notare le celebri ruote “stellari” Comstar scomponibili in acciaio: l’anteriore era da 16” con doppio freno a disco, la posteriore da 17” con disco auto ventilante, e con un esclusivo radiale Bridgestone da “ben” 140/80. L’eclatante super Honda costava la bellezza di 15.490.000 lire.

 

Honda VF500F
Honda VF500F

E la casa dell’ala dorata puntò sul V4 anche per una nuovissima 500 sportiva declinata in due versioni: VF500F semicarenata, e VF500FII con carena completa. Quella che mi permetto di considerare una delle moto più efficaci e divertenti in assoluto che mi sia capitato di usare, non era per nulla derivata dalla omologa VF400R (quella con i discussi freni a disco in-board, presenti anche sulle quadri cilindriche CBX400 e 550F, e sulla bicilindrica VT500F), altra piacevolissima media cilindrata, per la quale era in essere anche un combattutissimo trofeo monomarca, poi istituito con le nuove 500. Le VF500, infatti, erano un progetto nuovo di zecca, il cui motore a 6 marce da 498 cc, nato praticamente accoppiando due unità della bella VT250 che in Italia non arrivò mai, erogava 70 cv a 11.500 giri, con 4,4 kgm di coppia a 10.500. Anche le VF500, moto da 181/185 kg capaci di superare i 200 orari effettivi, godevano di un telaio in tubi quadri d’acciaio, con forcella dotata di anti-dive, forcellone in alluminio con Pro-Link monoammortizzatore, e ruote Comstar, questa volta a tre razze sdoppiate, con l’anteriore da 16” e la posteriore da 18”. E l’impianto frenante non adottava più il succitato sistema in-board, ma la classica terna di dischi in bella vista. Erano molto tecnologiche e quindi costose, le piccole V4: la VF500F infatti costava ben 7.728.000 lire, mentre la carenata FII arrivava a circa 8.250.000.


Ma nell’83 le nuove Honda non erano solo V4: infatti apparve anche la non esaltante CBX750F, semi-carenata con tanto di “sottopancia”, dotata di un vivace nuovo propulsore a 4 cilindri in linea raffreddato ad aria, con distribuzione bialbero a 16 valvole e punterie idrauliche, accreditato di 91 cv a 9.500 giri e 7,1 kgm di coppia a 8.500.


La ciclistica verteva su un telaio in tubi tondi d’acciaio a doppia culla chiusa, mentre il resto ripeteva la tendenza del momento: quindi ruote Comstar da 16” davanti e 18” dietro, forcella con anti-dive e sospensione posteriore Pro-Link, ma con forcellone in acciaio. Il prezzo della nuova CBX era di 8.699.000 lire.

Ma anche la filiale italiana della casa di Tokio, ovvero l’Honda Italia Industriale S.p.A. di Chieti (fondata nel 1971 come I.A.P. Industriale S.p.A., cambiò ragione sociale 10 anni dopo), presentò all’EICMA 1983 una carinissima novità: si trattava della XL200R, allettante endurina stradale gemella della già nota 125 presentata l’anno precedente, e subito in vendita a circa 2.750.000 lire (circa 1.400 euro, insomma...). Motina tuttofare essenziale, con sospensione posteriore Pro-Link, freni a tamburo (conico, anteriormente, più avanti sostituito con un disco idraulico) e avviamento elettrico, montava un monocilindrico raffreddato ad aria da circa 195 cc, che sviluppava 18 cv a 8.000 giri (e 1,64 kgm di coppia a 7.000), pesava 124 kg a secco e superava i 110 orari, con un consumo di oltre 30 km/h.

 

Quale fu l’accoglienza del pubblico italiano verso queste nuove Honda, nell’arco del 1984? Beh, se la possente VF1000R non figurava tra le prime 10 maxi più vendute, le altre novità invece raccolsero molto di più, a partire proprio dalla piccola XL200R: ben 3.450 esemplari venduti, seconda della classe fino a 350 cc e settima assoluta a fine anno. Alle sue spalle la CBX750F, con 1.768 immatricolazioni, seconda maxi più venduta e 17esima in assoluto, e la VF500F, prima delle “medie cilindrate” con 1.308 esemplari immatricolati, e fuori per un pelo dalle prime venti dell’84.

 

HRD Motors


Il marchio H.R.D. richiamava un noto brand storico del motociclismo britannico, ovvero Vincent HRD, le cui tre lettere in maiuscolo erano acronimo del nome Howard Raymond Davies, un pilota della British Royal Flying Corps. Davies, che aveva fondato  l’HRD Motors nel 1920, nel 1928 la vendette a Phil Vincent, che creò appunto le Vincent HRD, “le moto più veloci del mondo”.
HRD 125 Silver Horse
HRD 125 Silver Horse

In questo caso, però, si trattava dell’HRD (acronimo di “Happy Red Devils”, leggi “Felici Diavoli Rossi”) Motors, fondata nel 1980 da un estroso designer e appassionatissimo motociclista: quel Luciano Marabese che più avanti fondò il celebre studio Marabese Design, creando in oltre 25 anni più di 460 modelli, molti dei quali di gran successo, per numerosi costruttori italiani e non, e guadagnandosi numerose onorificenze. Nel suo piccolo atelier di Busto Arsizio, Marabese aveva iniziato quasi per gioco (ovvero per far divertire e correre i figli Riccardo e Roberto, oggi colonne portanti dello Studio e della recente Quadro, che costruisce scooter a 3 e 4 ruote) a realizzare bellissime minicross, midi-cross, e addirittura mini-speedway,  per giovanissimi piloti, per poi passare a vere moto sportive stradali da 125 cc, che presentò proprio a Milano nel 1983. E’ li che debuttò la bellissima Silver Horse 125, sportivissima carenata con motore monocilindrico Tau a 2 tempi, raffreddato a liquido da oltre 25 cv a 8.750 giri, capace di superare i 140 orari e completamente colorato di rosso. La SH125, che vantava un peso dichiarato di soli 106 kg, aveva un robusto telaio in tubi tondi al CrMo, sospensione posteriore con monoammortizzatore centrale in catilever, ruote in lega con freni a disco anteriore e posteriore e un’estetica decisamente attraente. Lo era un po’ meno il prezzo (sui 4.750.000 lire), ma in fin dei conti stiamo parlando di una sorta di piccola Bimota…


La HRD Formula
era la versione racing della SH, quindi non omologata per l’uso stradale: ovviamente aveva il codone monoposto, un peso dichiarato prettamente “trialistico” (88 kg a secco!), una potenza dichiarata di addirittura 32 cv, e costava ben 5.140.000 lire.


Ma della Silver Horse nacque anche una versione “naked”, la WH (White Horse) Road 125, con mini-cupolino, sella comodamente biposto, freno a disco anteriore (e a tamburo dietro), 105 kg di peso a secco e motore da 22 cv. Chiaramente questa era la meno cara delle HRD, infatti costava 3.816.000 lire.

 

Kawasaki


Altra bomba dagli occhi a mandorla, stavolta proveniente da Akashi, ergo Kawasaki. Era la l’elettrizzante Ninja GPZ900R a catalizzare l’attenzione all’EICMA: una magnifica supermoto completamente carenata, ma tuttavia col motore bene in vista: un quadricilindrico trasversale da 908 cc alimentato da carburatori a depressione da 34 mm, raffreddato a liquido, con contralbero di bilanciamento e distribuzione DOHC a 16 valvole.
Kawasaki GPZ900R Top Gun
Kawasaki GPZ900R Top Gun

Il motore aveva in corpo 115 cv a 9.500 giri, con 8,7 kg di coppia a 8.500 giri, e godeva di frizione idraulica e cambio a 6 marce. Il motore era “appeso” a un telaio a diamante in grossi tubi tondi d’acciaio a culla aperta, con davanti una forcella oleo-pneumatica con steli da “ben” 38 mm (misura mai adottata prima di allora su una Kawasaki sportiva) dotata di un rivoluzionario sistema anti-affondamento progressivo denominato AVDS (Automatic Variable Damping System). La sospensione posteriore progressiva Uni-Trak azionava l’ammortizzatore tramite un bel forcellone in alluminio con i comodi tendicatena a camma circolare, apprezzati ancora oggi.


Anche la velocissima Ninja, accreditata di velocità abbondantemente superiore ai 240 km/h (poi confermati dalle varie prove pubblicate) e di 228 kg di peso a secco, montava una ruota anteriore da 16” abbinata ad una posteriore da 18”, secondo la tendenza di quegli anni. E – come del resto la formidabile sorella GPZ750 Turbo presentata pochi mesi prima -  godeva di una ciclistica decisamente superiore rispetto alla maggior parte della concorrenza di allora.


Riguardo a questa moto, ricordiamo come fosse oggi che alla presentazione ufficiale alla stampa, avvenuta verso la metà dell’84, un nostro irsuto collega, molto veloce e ben noto, lasciò di stucco lo staff Kawasaki presente a Laguna Seca (pista utilizzata per la prima volta per un lancio internazionale, e ancora non modificata con l’introduzione della parte mista dopo il tratto velocissimo davanti ai box. Sulla pista ancora bagnata dopo un acquazzone, il nostro si era infatti permesso il lusso di infilare prepotentemente in staccata nientemeno che il pilota ufficiale Kawasaki per il campionato AMA Superbike di allora -  tale Wayne Rainey - tornandosene ai box a fine turno col cavalletto consumato e le gomme fumanti…Sono soddisfazioni, dai, ma va detto che quella Ninja era davvero una gran moto, che ovviamente ricordiamo anche come co-protagonista in Top Gun, il mitico film di Tony Scott, con in sella Tom Cruise e la bellissima Kelly McGillis. Il prezzo della formidabile Ninja era di 9.998.000 lire.


Che la nuova GPZ fosse piaciuta molto era palese già al Salone. E il mercato lo confermò alla grande, visto che l’ammiratissima Ninja a fine ’84 svettava nettamente nella classifica delle maxi, con i suoi 2.496 esemplari immatricolati, risultando così la 12esima moto più venduta in Italia.

 

KTM


Nei primi anni 80 la Casa di Mattighofen apparteneva ancora alla famiglia Trunkenpolz, e le moto stradali non le aveva nemmeno in mente (ad eccezione di alcune classiche 125 a due tempi). Quindi non era certo potentemente sotto i riflettori come negli ultimi anni. Tuttavia era sempre all’avanguardia tecnologicamente, e nel novembre dell’83 presentò a Milano la nuova 600XC, una leggera monocilindrica da soli 134 kg allestita per gli estenuanti rally nei deserti. Il suo motore era un Rotax a 4 tempi da 562 cc da 46 cv a 8.000 giri, raffreddato ad aria, con distribuzione monoalbero a 4 valvole azionata da cinghia dentata e con cambio a 5 marce.


Inoltre arrivarono i nuovi motori a 2 tempi con distribuzione a lamelle
: un 125 raffreddato a liquido da ben 35 cv a 9.800 giri, con lamelle sul carter, e un 495 raffreddato ad aria da 56 cv a 6.000 giri, con pacco lamellare tradizionalmente piazzato sul cilindro.

Moto Guzzi V65C
Moto Guzzi V65C

 

Moto Guzzi


Nessuna novità stratosferica dalla fabbrica di Mandello del Lario, allora ancora appartenente all’industriale argentino Alejandro De Tomaso. Unico spunto degno di nota fu infatti l’arrivo della cruiser V65C, che andava dunque ad affiancare le gemelle V35 e V50, al prezzo di 5.313.000 lire. La nuova arrivata era accreditata di 45 cv alla ruota a 7.250 giri, con una coppia massima di 4,5 kgm a 6.500, ed un consumo medio dichiarato in 16,4 km/litro. Velocità massima 175 km/h.

Ebbene, nel 1984, la V65C fu la seconda custom più venduta in Italia (1.066 esemplari), preceduta soltanto dalla sorellina V35C (2.494), in una classifica di categoria che allora, oltre alle tre Guzzi (c’era anche la V50C) non contemplava (ancora) nemmeno un’Harley-Davidson, bensì una saga di custom nipponiche da 500, 650, 750 e 1000 cc di Honda, Yamaha e Kawasaki.

Moto Morini

 
La celebre azienda bolognese, allora ancora gestita dalla signora Gabriella Morini, figlia del fondatore Alfonso, presentò all’EICMA l’ultima evoluzione della celebre bicilindrica 350: si chiamava K2, era dotata di un piccolo cupolino squadrato, e sarebbe stata prodotta fino al 1987. Rispetto alle precedenti versioni Standard e Sport, la K2 rappresentava una via di mezzo, per via dell’adozione di un albero a camme meno spinto di quello della Sport. Sulla K2, inoltre, esordiva la leva del cambio (che rimaneva a 6 marce) spostata a sinistra. La moto era dotata di tre freni a disco forati, e pure di manubrio regolabile, e costava 4.463.000 lire.

 

Suzuki


Per il suo stile abbastanza particolare, la nuova GSX1100EF si beccò subito il nick name di “Batmoto”. Il suo aspetto poderoso ma rassicurante da comoda sport-tourer completamente carenata, era garanzia di lunghi viaggi con medie notevoli, cosa che confermò presto nelle successive prove su strada. La nuova Suzukona godeva della gran coppia del suo corposo “4 cilindri” fronte marcia, un bialbero a 16 valvole raffreddato ad aria e olio da 1.135 cc di cubatura, alimentato tramite 4 Mikuni da 36 mm e con cambio a 5 marce con frizione a cavo. Questo motore era un vero mulo, con in corpo 125 cv a 8.500 giri ma soprattutto, appunto, una coppia di 10,7 kgm a 6.500.

Suzuki GSX 1100EF
Suzuki GSX 1100EF


Il telaio, come su altre moto di quegli anni, era un doppia culla chiusa in tubi quadri di acciaio, con forcella oleopneumatica con steli da 37 mm, dotata di anti-dive idraulico regolabile, e sospensione posteriore progressiva Full Floater (quindi con doppi bilancieri di progressione alle estremità del monoammortizzatore) e forcellone posteriore in alluminio scatolato. Anche qui la ruota anteriore era da 16” mentre la posteriore era da 17”. La GSX1100EF costava 10.419.000 lire, e nell’84 se ne vendettero 505 esemplari. 

 

Yamaha


Senza nulla togliere alle altre  formidabili novità giapponesi, alla 48esima edizione dell’EICMA il colpo più grosso lo fece probabilmente la Yamaha. La “bomba” a tre diapason si chiamava RD500LC, ed era la prima “replica” prodotta in serie di una 500 da GP a due tempi! Immaginatevi dunque lo scalpore suscitato da questa moto, che professionalmente ebbi la fortuna di provare in anteprima assoluta in Italia (per il mensile La Moto, per il quale lavoravo allora). E a tal proposito – scusatemi, ma non so resistere - anche qui scatta l’aneddoto: con il collega Maurizio Gissi andammo a ritirare la prima RD500LC arrivata in Italia alla vecchia sede dell’importatore Belgarda, a Ronco Briantino, poco lontano da quella attuale.


La moto ci fu consegnata con targa prova, e fui io a provare per primo l’ebbrezza di cavalcarla, cedendola poi all’emozionatissimo Gissi nella seconda metà del tragitto che ci riportava in redazione, a Milano, dove ci attendeva Nico Cereghini.


In effetti non era propriamente legale andare in giro con una targa prova altrui, però in quegli anni talvolta succedeva, anche se noi tester in effetti non circolavamo propriamente a cuor leggero, perché si rischiava quantomeno il ritiro del mezzo: nel qual caso, addio prova… Un giorno ero in giro per Milano con la mitica RD, che certamente non passava inosservata, non fosse altro che per il magnifico suono proveniente dalle sue 4 espansioni. Mi trovavo in viale Scarampo, un larghissimo stradone a sei corsie che portava alle autostrade. Fermo ad un semaforo sulla corsia all’estrema destra, vidi sul marciapiede opposto, quindi parecchi metri più in là, un vigile che mi intimava l’alt a braccio alzato! E naturalmente pensai: “questa si chiama sfiga!”, rimuginando sulla probabile confisca del mezzo e tutte le noie conseguenti, a partire, appunto, dall’annullamento della prova in anteprima. L’agente venne verso di me, dicendomi: “scusami, ma volevo solo vedere la moto dal vero!”. E ci mettemmo a chiacchierare amichevolmente per un quarto d’ora…. Fiuuuuu.

Yamaha RD500LC
Yamaha RD500LC


Ma torniamo alla straordinaria Yamaha V4 a 2 tempi, la moto più vicina ad una racer da GP che si fosse mai vista. Il suo V4 da 599 cc, chiaramente raffreddato a liquido, dotato di lubrificazione automatica e costituito da svariati particolari in magnesio, aveva le due bancate indipendenti divaricate di 50°, ed era dotato di due alberi controrotanti di bilanciamento, e da altrettante valvole di scarico YPVS azionate elettronicamente tramite un unico servomotore, per ottimizzare l’erogazione della potenza. L’alimentazione era assicurata da 4 carburatori Mikuni da 26 mm, e la distribuzione era lamellare mista, con ammissione superiore nei cilindri ed inferiore nel carter. Naturalmente gli scarichi erano 4 espansioni silenziate – 2 sotto il codone per la bancata verticale posteriore, e gli altri che passavano sotto al motore, uscendo ai lati della ruota motrice. Un particolare decisamente sottotono su una moto da quasi 10 milioni di lire (9.815.000, per la precisione), era l’avviamento a “kick starter”, ovvero la cara, vecchia pedivella, scelta certamente effettuata per abbassare il peso della moto, dichiarato in 200 kg a secco. La potenza dichiarata era di 87 cv all’albero a 10.250 giri, con 6,2 kgm di coppia a 9.250.


Alla prova dei fatti, però, tanto motore non risultò assecondato da una ciclistica propriamente superlativa: si trattava infatti di un telaio in acciaio a doppio trave rettangolare superiore con doppia culla inferiore in tubi quadri.  E se davanti c’era una forcella tele idraulica dotata di anti-dive regolabile, la sospensione posteriore si avvaleva di un ammortizzatore centrale – regolabile in precarico ed idraulica in estensione - montato orizzontalmente sotto al motore, e compresso, tramite biellismi di progressione, da un forcellone rettangolare in acciaio.

 

Ma da Iwata, oltre alla strabiliante e sibilante “due tempi”, era arrivato anche un nutrito manipolo di “sport-tourer” semicarenate, tutte quadricilindriche a 4 tempi, raffreddate ad aria e, ovviamente, alimentate da 4 carburatori a depressione. La più prestigiosa era senz’altro la FJ1100, col suo motorone da 1.098 cc dotato di 125 cv a 9.000 giri, e con ben 10.5 kgm di coppia a quota 8.000. Moto dalle notevoli prestazioni, dunque, ma anche molto comoda per i viaggi in coppia. Anche qui il telaio era un “doppia culla” perimetrale in tubi quadri d’acciaio, con forcella regolabile con steli da 41 mm dotata di anti-dive, e sospensione posteriore progressiva “monocross” con ammortizzatore tipo DeCarbon regolabile, su forcellone rettangolare in lega di alluminio. La FJ anteriormente montava due dischi freno auto ventilanti, su ruote entrambi da 16”, e costava 10.815.000 lire.


Le nuove XJ600 e 750, invece, erano le discendenti della già nota 900.
Per la precisione, la 750 differiva dalla gemella 900 solo per quei 2 mm di alesaggio in meno dei suoi cilindri che riducevano la cubatura da 853 cc a 749 cc, oltre che per la trasmissione finale a catena anziché ad albero. Mentre la potenza dichiarata era di 87 cv (contro 97) a 9.000 giri, con una coppia di 7,1 kgm a 7.000 giri contro 8,2 a 7.500. Su entrambe il cambio era a 5 marce, mentre sulla nuova XJ600 era a 6. La minore delle XJ, esteticamente identica alle altre due, era spinta da un brillante propulsore da 598 cc, con 72 cv a 10.000 giri e 5,5 kgm di coppia a 8.000. E secondo quanto dichiarato, pesava 188 kg, ovvero la bellezza di 30 kg netti in meno rispetto alla 750, e addirittura 54 in meno rispetto alla 900.


I telai delle XJ erano tutti a doppia culla chiusa in tubi tondi d’acciaio, con davanti forcelle tele idrauliche: rispetto alla 900, però, sulle più piccole mancavano le regolazioni e l’anti-dive. Inoltre, la 900 e la 750 montavano due ammortizzatori posteriori regolabili con serbatoio separati, mentre la “piccola” 600 godeva di sospensione posteriore progressiva “monocross”, con ammortizzatore centrale. Tutte le XJ montavano ruote in lega da 18” davanti e dietro.
Quanto ai prezzi, se la XJ900, introdotta mesi prima, costava 8.060.000 lire, con la 750 si scendeva a 6.680.000, mentre la 600 – anche per via della sospensione posteriore più sofisticata – costava 7.2.15.000 lire.

 

Yamaha TY250
Yamaha TY250

Dulcis in fundo, Yamaha presentò al 48° EICMA la nuova TY250, ovvero la prima motocicletta da trial dotata di sospensione posteriore “monocross”: il “monocross vero”, però cioè con l’ammortizzatore quasi orizzontale collegato anteriormente al telaio, e dietro imperniato direttamente alla capriata superiore del forcellone. La rivoluzionaria TY pesava 83 kg a secco, e montava raggi ruota irrobustiti con sezione a Z e freni a tamburo ermetici. Il suo monocilindrico a 2T, da 68x68 mm di alesaggio e corsa (247 cc), aveva aspirazione lamellare, cambio a 6 marce ed accensione elettronica.

 

A fine ’84 della pur esaltante RD500LC non risultarono vendite pari al clamore da essa suscitato tra gli appassionati, tant’è che ne circolavano in Italia circa 300. La FJ1100 invece risultò la quarta maxi più venduta (1.050 pezzi), mentre la XJ600 figurava al nono posto tra le medie cilindrate davanti alla Moto Guzzi V65 Lario, e preceduta in ordine inverso da altre due Guzzi (V65 e V50III), quattro Honda (CB400N, CX650E, VF400 e CBX550F), alla Suzuki GSX550ES e alla succitata Honda VF500F.

 

Le 20 moto più vendute del 1984


Ed ecco la classifica delle Top 20 dell’anno 1984( con relativi numeri di immatricolazioni), dalla quale si evince la netta propensione per le enduro stradali di piccola e media cilindrata, che costituiscono il 50% esatto dei modelli elencati, evidenziati in neretto:

 

1)      Cagiva Aletta Rossa 125        13.652

2)      Gilera 125 RX                          6.475

3)      Yamaha XT 600                     6.427

4)      Honda XL 125R                       5.236

5)      Honda XL 600R                      4.626

6)      Cagiva Ala Rossa 350                         3.605

7)      Honda XL 200R                      3.450

8)      Laverda LB 125                                       2.914

9)      Kawasaki KLR 600                  2.725

10) Gilera RV 125                                          2.674

11) Honda XL 125S                         2.662

12) Kawasaki GPZ900R                              2.496

13) Moto Guzzi V35 Custom                     2.494

14)  Cagiva Aletta Electra 125                 2.148

15) Aprilia ST 125                                         2.038

16) Moto Morini Canguro 350     2.003

17) Honda CBX750F                                    1.768

18) Honda CS 125                                          1.436

19) Cagiva SS 125                                          1.418

20) Honda XL 500 R                     1.537