Jeremy Burgess

Jeremy Burgess
Maurizio Tanca
  • di Maurizio Tanca
Il racconto della carriera del capotecnico più famoso del motomondiale, seguito da un’interessante intervista rilasciata tempo fa a Visordown
  • Maurizio Tanca
  • di Maurizio Tanca
28 maggio 2010


Jeremy Burgess


Nato ad Adelaide Hills, Australia, il 16 aprile del 1953, durante la sua lunga carriera l’ormai celeberrimo Jeremy Burgess è stato capotecnico di tre campioni del mondo: Wayne Gardner, Mick Doohan e Valentino Rossi, ma nel 1985 fu anche meccanico di Freddie Spencer, quando il fenomenale campione della Louisiana compì la storica impresa di vincere sia il titolo iridato della 250 che quello della 500.
Nei primissimi anni ottanta Burgess, come si suol dire, “fece la gavetta” nel mondo dei Gran Premi sotto le ali di altri due celebri tecnici del motomondiale, ovvero gli americani Erv Kanemoto e George Vukmanovich, arrivando a preparare personalmente – o in ogni caso a livello di supervisore - parecchie moto vincenti, dalla Suzuki RG di Randy Mamola alle Honda NSR, sia a tre che a quattro cilindri, guidate dai campioni succitati e dallo stesso Ron Haslam. Gente che dal 1980 in poi ha vinto in totale 14 titoli iridati e 158 GP, oltre ad essere saliti sul podio per ben 282 podi a tutt’oggi, e con moto sia a due che a quattro tempi, giusto per sottolineare ulteriormente la valenza tecnica di del nostro uomo.

Jeremy Burgess è stato capotecnico di tre campioni del mondo: Wayne Gardner, Mick Doohan e Valentino Rossi


Negli anni settanta, Jeremy Burgess fu un pilota di un certo successo nella sua Australia, in particolare quando iniziò a usare la famosa Suzuki RG500, che preparò magistralmente. Nel febbraio dell’80, il 28enne “JB” decise di venire in Europa, per dare un’occhiata da vicino al circus del motomondiale. Già pochi giorni dopo il suo arrivo all’aeroporto londinese di Heathrow, guarda caso gli capitò l’occasione di visitare la sede del Team Texaco Heron Suzuki, a Croydon, Londra, dove conobbe appunto Vukmanovic, che gli offrì l’opportunità di seguire Randy Mamola.
E fu proprio Mamola, nel luglio di quello stesso anno, a far assaggiare al suo nuovo tecnico il sapore della prima vittoria: al GP del Belgio, sulla pista di Zolder, Randy staccò di ben 12” Marco Lucchinelli (anche lui in sella a una RG, e titolare di giro più veloce) e di oltre 31” Kenny Roberts e la sua Yamaha. Seguirono le Suzuki di Crosby, Hartog, Uncini e Perugini, le Yamaha di Patrick Pons e Van Dulmen, e ancora una RG, quella di Bernard Fau.
Burgess rimase in Suzuki fino al 1982, poi passò alla Honda, dove sarebbe rimasto per i 21 anni successivi. Nel primo biennio seguì la NS500R tricilindrica di Ron Haslam, ma nell’85 venne accorpato al team di Spencer, gestito appunto da Kanemoto, per seguire la difficilissima 500 a quattro cilindri, con la quale Fast Freddie bissò appunto il titolo vinto con la NSR250, ultimo ed unico pilota a riuscire in questa impresa (successivamente impossibile anche perché il nuovo regolamento vietò di correre in due classi).
Nel 1986 Burgess fu promosso capotecnico, al seguito del coriaceo connazionale Wayne Gardner, che l’anno successivo vinse il titolo. E due anni più tardi iniziò a lavorare con un altro fortissimo australiano, che non vinse da subito, ma dal 1994 al 1998 fu iridato per ben cinque volte consecutive.
Dopo il ritiro del grande Mick a causa del catastrofico infortunio occorsogli a Jerez de la Frontera, lo stesso Burgess fu vicino a ritirarsi dall’attività per tornare in patria: era stato testimone di parecchi incidenti gravi, e non se la sentiva davvero più di continuare.
Ma quando Valentino Rossi venne contattato dalla Honda, disse che avrebbe accettato solamente se fosse stato seguito da Burgess e dai suoi uomini. Uno stimolo al quale il tecnico australiano, come sappiamo bene, non seppe resistere. E da lì in poi arrivò la sfilza di titoli conquistati dal sodalizio Rossi-Burgess&Co nella classe regina (500/MotoGP). 

Doohan e Valentino Rossi: due dei tanti campioni cresciuti con Burgess
Doohan e Valentino Rossi: due dei tanti campioni cresciuti con Burgess


E nel 2004 avvenne lo storico passaggio di Vale e di tutto il suo team alla Yamaha, con relativa, incredibile conquista del titolo mondiale, oltretutto ripetuta l’anno seguente: l’accoppiata tra VR e JB era riuscita a compiere il miracolo, transformando una moto fino ad allora solo mediocre in una macchina da vittoria già dalla prima gara, il GP del Sud Africa a Welcom, dove Valentino, in lacrime, baciò la sua M1 sul musetto!
Jeremy Burgess ha dunque sempre rappresentato una componente fondamentale dell’incredibile successo di Rossi, in particolare nel vincere i due titoli consecutivi con Honda e Yamaha.

Non tutti forse si rendono conto di questo, anche perché mentre Valentino è spesso sotto ai rifrettori, JB e la sua fida “ciurma” di australiani e neozelandesi continuano tranquillamente il loro paziente lavoro di preparazione della moto, gara dopo gara.
JB non è certo un tipo con i peli sulla lingua, specie nell’esternare la sua celebre teoria del “80/20” - traduzione: in una competizione motociclistica, il pilota influisce per l’80%, la moto solo per il 20% - che lui ha sempre sostenuto nonostante la testarda convinzione della Honda che anche un pilota da metà schieramento potesse vincere con le sue moto. Teoria, come abbiamo visto, confermata in pieno dopo il passaggio di Valentino alla concorrente Yamaha.
Oggi come oggi, ci viene quasi spontaneo chiederci: vedremo mai Burgess ed i suoi uomini vestiti di rosso?

Ed ecco l’intervista dei colleghi inglesi di Visordown a Jeremy Burgess


Signor Burgess, visto da fuori, il suo sembrerebbe un lavoro molto affascinante. È così?
Io credo che qualunque lavoro dove ci riesca a divertire lo sia. Ma per il fatto vivere assieme a Valentino Rossi per due ore, tre giorni la settimana, non userei la parola “affascinante”: in effetti il mio è un lavoro eccitante.

Quando le è capitato di passare più tempo senza dormire per lavorare attorno a una moto da corsa?
È stato nel 1980, al Paul Ricard, quando mi occupavo della Suzuki RG500 di Randy Mamola. Stavamo sviluppando il nuovo sistema posteriore Full Floater (in sostituzione della classica coppia di ammortizzatori, molto inclinati, della prima RG, ndr), e stavamo sostituendo il telaio: ma nel contempo avevamo serie problemi ai cuscinetti di banco. In pratica, dormimmo più o meno quattro ore in tre giorni! (In quella gara, Randy arrivò secondo a 5”38 da Kenny Roberts. Alla fine dell’anno il podio iridato era composto da Roberts, Mamola e Lucchinelli, ndr)

Quando è diventato capotecnico?
Una volta correvo. Quindi mi facevo tutto da solo sulle mie moto da corsa, e la cosa mi dava parecchia soddisfazione. Trascorrevo moltissime ore ad armeggiare di notte nel mio box, sognando di poter far andare più forte la mia moto. Credo che questo mi abbia aiutato molto nell’ottenere un lavoro in Suzuki, proprio nel 1980. Loro mi conoscevano fin da quando correvo a casa mia, in Australia, proprio con una RG500, che era sempre velocissima in ogni weekend di gare.

Il fatto di aver corso l’ha aiutata quando iniziò ad occuparsi delle moto degli altri?
Ovviamente oggi è differente da allora, ma quando ero al limite, ero al limite. Me ne rendevo conto, e sapevo pure di trovarmi in una situazione scomoda, perché quando sei lì vorresti andare oltre, ancora più forte, ma ovviamente sempre veloce e in sicurezza. Questo ti aiuta a capire il margine che il pilota giustamente pretende in termini di sicurezza della sua moto.
Jeremy Burgess
Jeremy Burgess


Che soddisfazione le ha dato il titolo vinto con la Yamaha nel 2004?
Naturalmente è stata una grande, grande soddisfazione. Essere stati capaci di conquistarlo e di ripeterci l’anno successivo è stato certamente qualcosa che credo nessuno di noi si scorderà mai.

Qual è la chiave del successo della coppia Rossi/Burgess?
L’esperienza, il saper capire le reciproche esigenze e la capacità necessaria per lavorare con metodo al di là dei problemi.

Quanto tempo ci è voluto per arrivare a quel punto?
Fin dal primo test effettuato in Spagna, alla fine del ’99, ho potuto rendermi conto che l’unico fattore limitante avremmo potuto essere noi, come team, intendo. Valentino era uscito da una squadra vincente con una moto italiana e tecnici italiani, che aveva lasciato per entrare a far parte di un team giapponese con meccanici australiani: quindi stava facendo un gran passo, nel lasciare una situazione per lui ideale. Per quanto mi riguarda, dissi subito a tutti i miei ragazzi che se la cosa non avesse funzionato sarebbe stato perché noi stavamo sbagliando qualcosa. Ma dopo tutti questi anni siamo ancora qui, ancora insieme, quindi suppongo di aver iniziato subito con il piede giusto.

Siete mai stati in disaccordo, lei e Valentino?
I nostri disaccordi non sono mai stati del tipo “bianco e nero”, come invece fu con Mick Doohan. Vale è molto ricettivo rispetto ai miei consigli, mentre con Mick bisognava assolutamente fare come voleva lui, per poi provare la nostra soluzione nel caso la sua scelta si fosse rivelata non risolutiva. Per esempio, la capacità di Valentino di capire una gomma particolare può essere leggermente differente dalla mia. Quando ci è capitata una gomma che sapevamo potesse durare quanto bastava, ma della quale lui non era convinto, e si trovava meglio con un’altra, discutevamo sul fatto di correre il rischio di utilizzarla o meno.

Quali sono le affinità tra Doohan e Rossi, e quali le differenze?
Mick aveva una profonda interiorità. Valentino altrettanto, per molti versi, ma esterna sempre un senso di calma che Mick non sembrava avere: lui era molto duro con i suoi avversari, mentre Valentino appare più rilassato nei loro confronti. Ma i tempi sono cambiati. Guardate Doohan oggi, e non vi sembrerà più la stessa persona.

Quanto sono diverse Honda e Yamaha?
Il progettisti Honda arrivano da una cultura fatta di vittorie, sono giovani ingegneri cresciuti attraverso grandi successi. Tuttavia, molti di loro non capiscono veramente come sono arrivati lì: sono semplicemente entrati a far parte di quel team che è stato vincente. E nel corso degli anni si sono persi qualcosa per strada. Noi lasciammo la Honda alla fine del 2003 dopo aver vinto l’ultima gara con loro, dopodiché non sono riusciti a vincere che sei gare in tre anni. Hanno passato un’intera stagione senza vincere una corsa, senza capire come mai si trovassero in quella situazione. Sono sempre stati convinti che la maggior parte del lavoro la facesse la moto, e che il pilota fosse solamente un tizio preparato per verificare se questo lavoro funzionasse o meno. I ragazzi di Yamaha sono gente più alla mano, sono dei “ragazzi di campagna”, con i quali si convive più facilmente. In Honda sono molto più “tipi da città”.

È cambiato il modo di lavorare, da quando lei iniziò?
Oggi c’è più di organizzazione nella programmazione dei weekend di gara! Ci sono le prove alle dieci di mattina e alle 14, e la gara alle 14. Vent’anni fa poteva capitare di provare alle 14 e alle 17 lo stesso giorno! Era un po’ un caos, anche perché ad ogni gara c’erano organizzatori indipendenti che facevano le cose in modi differenti. Era un casino per i team, tutto il meccanismo non era affidabile, e si arrivava a lavorare anche 16 ore al giorno, perché c’era sempre qualche complicazione cui far fronte.

Se lei dovesse organizzare una cena di gala, chi sarebbe l’ospite che non potrebbe fare a meno di invitare?
Inviterei Ian Chappel, il capitano della nazionale australiana di cricket. Il suo metodo di lavoro è molto simile al mio, e lui usa anche un linguaggio abbastanza colorito. Mi piacerebbe incontrare Robert DeNiro e Robert Redford, li vorrei al mio tavolo. Ma mi piacerebbe anche sedere a chiacchierare con Adolf Hitler, giusto per cercare di capire che cavolo aveva in testa. Come può vedere, niente cose da donne, qui.
 

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