Intervista a Livio Suppo

Intervista a Livio Suppo
Giovanni Zamagni
Dopo un 2009 piuttosto impegnativo, con la delicata “questione Stoner”, il manager torinese ha deciso di passare alla Honda | G. Zamagni
22 dicembre 2009

Punti chiave


Uomo Ducati per undici anni, Livio Suppo ne ha seguito fin dall’inizio il progetto MotoGP. Assieme a Claudio Domenicali, amministratore delegato di Ducati e Ducati Corse e a Filippo Preziosi, responsabile del reparto corse Ducati, Suppo è stato il punto di riferimento della Casa di Borgo Panigale in queste sette stagioni, l’unico dei tre uomini di vertice sempre presente in pista. Un ruolo delicato e sicuramente non facile, che Livio ha ricoperto mettendoci sempre la faccia, anche in momenti difficili da gestire, nei quali avrebbe potuto nascondersi dietro facili “no comment” (come fanno in molti) o scaricare responsabilità su altri. Dopo un 2009 piuttosto impegnativo, con la delicata “questione Stoner” da affrontare, il manager torinese ha deciso di passare alla Honda, con la responsabilità, per il momento, di trovare nuovi sponsor per la HRC, con un coinvolgimento ancora più diretto a partire dal 2011. In attesa di vedere i risultati del suo lavoro con la prima Casa motociclistica del mondo, abbiamo ripercorso con Suppo i momenti salienti della sua esperienza in MotoGP con la Ducati, culminata con la conquista del mondiale nel 2007 con Stoner.

GLI INIZI - Intanto, è importante sapere come perché la Ducati ha deciso di entrare in MotoGP e quali sono state le difficoltà da affrontare.
“Alla fine degli anni Novanta, si parlava già della possibilità di una modifica importante al regolamento, con il passaggio dalle 500 2T ai motori a quattro tempi: una variazione che in qualche modo stimolava l’interesse della Ducati. Quando nel 2000 è stato poi reso ufficiale il cambiamento, abbiamo iniziato a fare dei ragionamenti più approfonditi, sia dal punto di vista tecnico sia sotto l’aspetto economico, per preparare un piano di cinque anni da presentare al consiglio di amministrazione, analizzando pro e contro del progetto MotoGP. Allora, la Ducati era la regina dei quattro tempi, avendo vinto da sola più di tutti gli avversari messi insieme in SBK, ma non si era mai impegnata prima in una categoria prototipi. Mi ricordo che si diceva: ‘Preferiamo essere un pesce grosso nello stagno o uno piccolo nel mare?’. Non fu una decisione facile. Anche per le scelte tecniche, con Claudio (Domenicali, ndr) e Filippo (Preziosi, ndr) che furono molto bravi a non farsi influenzare dalla tradizione Ducati e da un marketing profondamente legato al prodotto di serie: la prima opzione che fu accantonata dopo attenti studi teorici fu quella del bicilindrico, non idoneo al primo regolamento MotoGP (con motori da 990 cc, ndr). Una scelta giusta, che ci ha permesso di avere subito una buona competitività, così da dimenticarsi immediatamente che la Desmosedici era una quattro cilindri. La categoria prototipi ha questo vantaggio: essendo il massimo dell’espressione motociclistica, aiuta a far sognare di più la gente, facendo passare in secondo piano altri aspetti. Furono invece mantenute alcuni elementi tecnici importanti della tradizione Ducati, come il telaio a traliccio (poi modificato nel corso degli anni, ndr) e la distribuzione desmodromica: in questo i nostri ingegneri furono davvero bravi. Il progetto stimolava tutti in Azienda ed era un periodo in cui l’economia era sicuramente messa meglio di adesso. C’era molto ottimismo, anche se, naturalmente, andavano fatte delle scelte ponderate, anche per una Casa che in passato per le corse aveva speso molti soldi, addirittura troppi in alcuni casi. Venne quindi fatta una valutazione attenta degli introiti legati a questo tipo di campionato, ma non avendo mai partecipato al motomondiale, non sapevamo bene dove si potesse arrivare. Fortunatamente, anche lì la realtà andò oltre le più rosee aspettative: gli sponsor hanno seguito con molto interesse il progetto, che negli anni si è rivelato una scelta giusta. Credo che per Ducati la partecipazione alla MotoGP abbia rappresentato un grosso valore aggiunto, una sorta di garanzia della capacità tecnica dell’Azienda, la consacrazione per una Casa fino allora sempre un po’ criticata, perché in SBK eravamo sì vincenti, ma con un bicilindrico 1000 di cilindrata, contro i quattro cilindri da 750. Insomma, c’erano sempre dei detrattori, si trovavano sempre delle scuse per i nostri successi, nonostante si capisse già la bravura degli ingegneri di Ducati Corse. E’ però difficilissimo dire se le corse servano per vendere più moto: mi sembra che il marketing Ducati abbia fatta quest’anno un’indagine, scoprendo che ogni podio della MotoGP, vale 50 moto in più sul mercato. Ma molto dipende dal prodotto: se non ne hai uno valido da proporre, non vendi anche se vinci tutte le corse. Quando nel 2007 abbiamo lanciato la 1098, abbiamo anche conquistato il mondiale della MotoGP, vendendo una quantità di supersportive come mai nella storia della Ducati: io sono convinto che quella fantastica stagione abbia aiutato a vendere più 1098, ma è impossibile quantificare un numero. Sono però anche convinto che se uno non corre – e in particolare la Ducati, così legate all’immagine della pista -, alla lunga la patisce”.

ESORDIO – L’esordio pubblico in pista della Ducati avvenne a fine 2002 a Valencia, ma il primo vero test fu effettuato qualche mese più tardi a Phillip Island: fu così positivo, che a Borgo Panigale decisero di imbrogliare sui tempi, dichiarandoli più alti di quelli effettivamente ottenuti.
“Allora si poteva girare quando si voleva, anche da soli, una opportunità importante che oggi manca, per ragioni economiche, alla MotoGP, e così ogni sessione di prove comuni si trasforma in una sorta di mini GP, dove i piloti si preoccupano più dei tempi che della messa a punto della moto. Tornando a noi, a dicembre 2002 andammo in Australia e Capirossi fece una simulazione di gara, per la verità con Michelin già in versione 2003, andando più forte di quanto avesse fatto Rossi pochi mesi, quando aveva vinto il GP, con anche un tempo sul giro mostruoso. Così, decidemmo di dichiarare tempi leggermente più alti: anche noi eravamo un po’ sorpresi. Credo che Loris, che firmando per noi aveva preso un bel rischio, perché la Desmosedici nasceva veramente da un foglio bianco, senza nessuna esperienza alle spalle, tirò un bel sospiro di sollievo”.

2004 – L’anno del debutto, il 2003, fu un anno straordinario, con nove podi, tra cui la vittoria di Barcellona, ma nel 2004 la Ducati incontrò un sacco di problemi inaspettati.
“E’ stato un anno difficile, soprattutto perché venivamo da una stagione esagerata: esordire come abbiamo fatto noi è bellissimo, ma è anche una sorta di fregatura, perché al primo anno abbiamo fatto quarti nel mondiale piloti con Loris e secondi in quello costruttori, ridicolizzando una Casa come la Yamaha, protagonista da tanti anni del motomondiale. Quindi le aspettative erano altissime, invece patimmo molto, probabilmente a causa del cambio della misura della gomma anteriore, da 17” a 16,5. Raddrizzare una stagione in corsa non è così facile, ma alla fine, non andò nemmeno tanto male, perché facemmo due podi e diversi piazzamenti, risultati che Case importanti, a volte, fanno fatica a ottenere: nel 2003, per esempio, la Yamaha fece un solo podio, oltretutto in una gara interrotta per l’acqua e la Suzuki ne è ottenuto uno negli ultimi due anni! Certo, il confronto con il 2003, quando siamo sempre stati competitivi, era impietoso. Per me in particolare, forse è stato più impegnativo il 2005, influenzato dalla scelta delle Bridgestone volute da me: ci sono stati dei momenti particolarmente difficili”.

BRIDGESTONE – Proprio il passaggio dalle Michelin alle gomme giapponesi è stato un momento chiave della storia Ducati, perché dopo qualche inevitabile difficoltà iniziale, fu anche merito di quella scelta se Stoner conquistò il titolo nel 2007. Convincere però i “tradizionalisti” ingegneri bolognesi non deve essere stato facile.
“Ho avuto una sorta di illuminazione nei test del lunedì successivo al GP del Portogallo all’Estoril. Noi, in quel periodo, stavamo trattando con Gibernau: doveva essere un segreto assoluto, ma quando arrivammo in Portogallo, scoprimmo che su un settimanale spagnolo c’era in copertina Sete vestito con i colori Ducati. Insomma, qualcuno aveva “cantato” la trattativa, sparando tra l’altro la cifra pazzesca di sette milioni di dollari, anche se, effettivamente, Gibernau chiedeva tanti soldi in quel periodo. Il mio ragionamento fu: c’è un pilota, Rossi, che vince 11-12 gare all’anno, c’è n’è un altro, per l’appunto Gibernau, che ne vince quattro, ma che vuole un ingaggio altissimo e poi c’è un tal Tamada, che viene dalla Superbike giapponese, peraltro senza averla vinta, che ha già conquistato un GP, facendo secondo all’Estoril dietro a Rossi. Questo, a mio modo di vedere, significava che le Bridgestone andavano già meglio delle Michelin guidate da degli “umani” e non da Valentino. Mi venne da dire: evidentemente, queste gomme, perlomeno in certi circuiti, sono molto competitive. Noi, in quel momento non avevamo ancora fatto un podio e se andavamo avanti così sarebbe saltato il gioco, perché per Ducati il supporto degli sponsor è fondamentale e senza risultati fai fatica a trovarli e a mantenerli. Ne iniziai a parlare con Claudio e Filippo, i quali, all’inizio, giustamente, avevano delle perplessità, perché dal punto di vista tecnico bisognava essere dei matti per passare dalle Michelin alle Bridgestone, ma da un punto di vista manageriale poteva avere più senso. In quegli anni in Ducati si fondevano le peculiarità caratteriali mie con quelle degli ingegneri e abbiamo iniziato ad analizzare le prestazioni delle Bridgestone, per capire se c’era una crescita. Andando a vedere i numeri si vedeva che, effettivamente, le gomme giapponesi diventavano sempre più competitive, con grosse difficoltà soltanto nelle piste a basso coefficiente di attrito. Cominciammo a parlare con loro e capimmo che volevano crescere, anche se non avevano più piloti forti, perché Tamada, o chi per lui, aveva voluto passare alle Michelin: alla fine, noi avevamo bisogno di loro, ma loro avevano bisogno di noi e quindi la trattativa andò in porto facilmente. Insomma, fu un matrimonio conveniente per entrambi. Noi abbiamo potuto diversificarci, tornando già a vincere delle gare nel 2005 (due con Capirossi, in Giappone e Malesia, ndr)”.

Continua a pagina due: Suppo racconta la trattativa con Rossi

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ROSSI - Nel 2003, prima di contattare la Yamaha, Valentino Rossi fece un giro a Borgo Panigale, attratto dalla possibilità di costituire un binomio tutto italiano da sogno. La trattativa, però, non andò in porto, ma Suppo, in questo caso, non dice tutta la verità e, comunque, non entra più di tanto nel dettaglio.
“L’unica vera trattativa con Rossi è stata quella del 2003. In quel periodo era chiaro che Valentino era fortissimo, ma la maggior parte della gente pensava che lui avesse sempre avuto le moto e i team migliori. In altre parole, molti pensavano che fosse forte, ma non così forte come poi si è dimostrato, anche se in pochi oggi lo riconoscono. Infatti, non a caso, molti erano convinti che passare in Yamaha fosse un azzardo troppo grosso e che Vale avrebbe picchiato più volte il muso per terra, perché la M1 allora aveva la nomea di moto difficile e che non dava confidenza. In realtà Rossi era fortissimo e lui lo sapeva: in quegli anni, con una Honda super competitiva, non fece vedere il suo reale potenziale, perché si divertiva di più così, senza svelare che poteva dare una vita a tutti. Allora faceva i colpi di teatro, rifilando un secondo ai rivali all’ultimo giro, facendo la figura di quello bravo a sfruttare le gomme finite. In realtà lui aveva un talento che gli permetteva di andare un secondo al giro più forte degli altri, ma anche una intelligenza tale che gli faceva capire che se avesse fatto così avrebbe resa la cosa noiosa, mentre costruendo ad arte il valore degli avversari, di conseguenza diventi più forte anche tu. Detto questo, fu una trattativa fatta, dal nostro punto di vista, con molta voglia di iniziare, anche se non facile da portare avanti perché, tra l’altro, avevamo già un contratto con Capirossi e Bayliss per il 2004 e avremmo quindi dovuto costruire una terza moto ufficiale per far correre Troy con noi. L’idea ci piaceva, ma poi, purtroppo, Valentino ha scelto diversamente. Non c’è mai un unico motivo per cui le cose non vanno in porto: ha contato sicuramente l’aspetto economico, il feeling a pelle con le persone e, soprattutto, lo stimolo di Rossi di provare a vincere con una moto (la Yamaha, ndr) che in quel momento veniva considerata come un cancello. Insomma, il pilota Rossi avrebbe potuto fare maggiore differenza con la Yamaha piuttosto che con la Ducati. Paradossalmente, il 2003 così competitivo della Ducati è stato forse negativo per un eventuale accordo con Valentino”.

BAYLISS – Un altro momento delicato è stato quando a fine 2004 si è scelto di mandare via Troy Bayliss, un’autentica bandiera per il popolo ducatista e di sostituirlo con Carlos Checa. Una decisione naturalmente “aziendale”, ma le colpe sono ricadute su Suppo.
“E’ normale, per il ruolo che ricoprivo: onori e oneri. In realtà, già in quell’anno avevamo proposto a Troy di tornare con noi in SBK, perché per qualche motivo, lasciando stare la giornata speciale di Valencia 2006, Bayliss ha fatto fatica in MotoGP, che piaccia o no. Dopo un anno disastroso con la Honda, ha accettato di tornare in SBK, finendo la carriera da super eroe, ritirandosi vincendo le ultime due manche. Forse quella era la sua dimensione. Noi lo avevamo capito, perché se nel 2003 e nel 2004 paragonavi le prestazioni di Capirossi e Bayliss, il confronto era impietoso. Proprio perché gli volevamo bene, continuare sarebbe stato negativo per entrambi. Lui per qualche motivo sentiva la pressione ed ero ossessionato dal fatto che fosse già vecchio e avrebbe dovuto fare in fretta, mentre poi è andato avanti a correre fino a 39 anni: forse, se fosse stato più tranquillo, avrebbe raccolto più risultati”.

CHECA, GIBERNAU, MELANDRI E HAYDEN – Il secondo pilota ha quasi sempre deluso in Ducati. Ecco chi più e chi meno secondo Livio.
“Per la verità, nessuno mi ha sorpreso positivamente. Partiamo da Checa, che avevamo preso perché aveva una grande esperienza ed era super appassionato di Ducati, un aspetto importante per le motivazioni del pilota. Forse abbiamo fatto male a mandare via Carlos, perché nelle ultime gare del 2005 aveva fatto due podi e stava crescendo: con il senno di poi, avremmo fatto meglio a tenerlo. Ma sulla carta, Gibernau era molto più forte e va detto che Sete è stato molto sfortunato in Ducati. Nel 2006, a Jerez, avevamo la moto e le gomme per vincere e, infatti, alla fine fu Capirossi a tagliare per primo il traguardo. Credo che Gibernau se la sarebbe potuta giocare con Capirossi e se l’avesse battuto all’esordio con la Ducati probabilmente la sua stagione avrebbe preso una piega molto differente. Invece si ruppe subito uno “stupido” attuatore del cambio e ricordo che quel giorno Sete era un uomo finito, si sentiva come “Paperino”. Quando ti senti così, ovviamente, ne risentono anche le prestazioni e l’incidente di Barcellona (pauroso contatto in partenza con Capirossi e Melandri, ndr), indipendentemente dal fatto che sia stato innescato da lui o meno, ha di fatto messo la parola fine sulla sua carriera, perché la spalla infortunata in quella occasione non gli è più tornata a posto. Hayden siamo riusciti a portarlo a fare quello che io mi aspettavo facesse fin dall’inizio, ovvero lottare costantemente per il miglior piazzamento alle spalle dei Magnifici Quattro (Rossi, Lorenzo, Stoner e Pedrosa, ndr). Ci è servito per capire che dovevamo fare qualcosa per rendere la moto più facile. Purtroppo ci abbiamo impiegato un po’, ma lui è stato bravissimo a crederci, a non mollare mai: una qualità che ha portato al rinnovo del contratto anche per il 2010. Melandri è stato chiaramente una delusione enorme: credo che, nella storia delle moto, raramente ci si sia trovati di fronte a un binomio che sulla carta poteva funzionare benissimo ma che nella realtà ha funzionato tanto male. Sicuramente ci sono delle responsabilità da entrambe le parti, però con la stessa moto, Toni Elias ha fatto due podi, contro un quinto posto come miglior risultato di Marco. In Cina, Melandri stava andando a riprendere Stoner e sembrava rinato, ma dopo quella gara su Melandri è calata la nebbia assoluta: come sia possibile, io proprio non lo so! Marco, nel 2006, correva con la Honda con le Michelin, esattamente come Casey: lo aveva battuto in Turchia, al termine di una gara bellissima, e a fine campionato aveva molto più punti. Poi, nel 2007, Melandri è rimasto con il team Gresini e da noi è arrivato Stoner, che ha dominato il campionato. Probabilmente Marco si è convinto che con quella moto avrebbe fatto sfracelli, avrebbe conquistato facilmente il titolo, sottostimando probabilmente il grande valore di Casey. Che è un fenomeno assoluto, anche se, per un motivo o per l’altro, in molti se ne sono resi conto molto più tardi”.

STONER – La storia dice che l’arrivo di Casey Stoner in Ducati sia stato piuttosto fortuito, reso possibile solamente dall’impossibilità per Marco Melandri di rompere già nel 2007 il contratto con il team Gresini e la richiesta economica troppo elevata di Sete Gibernau. Ma Suppo svela di aver pensato all’australiano già nel 2005.
“Dico sempre che l’errore più grosso che ho fatto nella mia carriera in Ducati è stato quello di non chiudere il contratto con Casey nel 2005. Avevamo parlato con suo papà a Brno, poi, però, ci spaventava un po’ l’idea di prendere un esordiente in MotoGP, anche perché la nostra moto, già allora, veniva considerata più scorbutica e difficile della altre. In quel periodo non era ancora così chiaro che un ragazzino proveniente dalla 250 potesse essere subito veloce con le 1000, era ancora il periodo dei “senatori”, come Biaggi, Barros, Gibernau, tutti piloti sopra i 30 anni. Insomma, non ci fidammo e ritenemmo più sicuro puntare su un talento certo come Sete, uno che aveva fatto secondo nel mondiale due volte. Lì abbiamo fatto un errore, perché credo che Casey potesse già conquistare il titolo nel 2006. A me piaceva molto dai tempi della 250 e, naturalmente, continuò a piacermi molto nelle prime gare del 2006. Ma in quel momento era già stato notato da tutti: parlai con Colin (il papà-manager, ndr) a Donington, quando però era molto vicino a Yamaha. Tra l’altro, nel 2007 si sarebbe passato dalle 990 alle 800 cc, ed era naturale che il manager di un pilota pensasse che fosse più sicuro puntare su Case più importanti, come appunto la Yamaha. La seconda parte di stagione di Casey fu meno positiva e alla fine fummo fortunati entrambi, perché lui era piedi e noi senza pilota”.
Suppo fa anche il punto sull’ingaggio di Stoner, da sempre ritenuto piuttosto basso.
“E’ una leggenda, perché Casey, fin dall’inizio, ha avuto un contratto con un fisso e dei bonus: essendo andato molto bene, il suo stipendio a fine anno era adeguato a quello di un pilota che va forte. E’ vero, però, che come solo ingaggio, il suo stipendio è probabilmente inferiore a quello degli altri piloti di vertice (Rossi, Lorenzo e Pedrosa, ndr)”.

2009 -  Siamo al 2009, alla strana malattia di Stoner, scomparso in Australia per oltre due mesi, perdendo tre GP. Una situazione delicatissima, sicuramente non facile da gestire. Ecco come l’ha vissuta l’ormai ex responsabile del progetto Ducati MotoGP.
“E’ stata una vicenda molto difficile, anche perché ai piloti ti affezioni: vedere Casey che stava così male dopo le gare era veramente preoccupante, soprattutto perché lui è uno di quelli che solitamente non ha mai nulla. C’è stata una apprensione vera per il suo stato di salute, anche perché non si capiva esattamente cosa avesse. Era facile dire che era solo uno stress psicologico che lo stava distruggendo, ma lui stava male per davvero e finché non ne scopre le cause, è normale che ti preoccupi. La scelta di salvaguardarlo ci ha procurato una serie notevole di critiche, però alla fine si è rivelata una decisione giusta. E’ stato un esame che abbiamo superato tutti bene. La cosa che mi ha fatto più sorridere sono le voci e le malelingue su di me: dall’estate a Valencia sono passato da quello che veniva considerato come il colpevole dell’assenza di Casey – in particolare, lo aveva fatto capire Capirossi in un’intervista -, all’essere quello ingaggiato dalla Honda per portarsi dietro Stoner! Dove sta la verità? Non sta a me dirlo, ma si è dimostrato che, anche nella MotoGP, il pettegolezzo piace alla gente”.

Giovanni Zamagni

Audio: Suppo in esclusiva a Moto.it
 

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