Bridgestone, i perché della débacle a Phillip Island

Bridgestone, i perché della débacle a Phillip Island
Edoardo Licciardello
  • di Edoardo Licciardello
La Casa giapponese, attraverso le parole del boss Shinji Aoki, chiarisce le motivazioni tecniche dietro al grave problema accusato dalle gomme posteriori utilizzate nel GP d’Australia
  • Edoardo Licciardello
  • di Edoardo Licciardello
23 ottobre 2013

 “Divertente, ma non sono queste le gare della MotoGP” ha commentato Valentino Rossi al termine del Gran Premio d’Australia della scorsa domenica. Ci sentiamo di appoggiare in toto la sua posizione, perché pur apprezzando l’elemento di novità del cambio moto al volo con relativi risvolti spettacolari, onestamente ci è piaciuto molto meno il fatto che gli organizzatori, di concerto con il gommista, siano dovuti arrivare ad accorciare sostanziosamente la gara imponendo anche una finestra precisa per il cambio gomme. Decisione che, come tutti sappiamo, ha causato la confusione costata la gara a Marc Marquez. Per non parlare, ovviamente, del brivido provato nel vedere la gomma posteriore dello stesso Marquez dopo il cambio.

 

Bridgestone ha spiegato attraverso la sua tradizionale disamina post-gara motivi ed origini del problema incontrato, più complesso di quanto alcune spiegazioni un po’ semplicistiche abbiano fatto pensare. Il nuovo asfalto, migliorato moltissimo tanto nel grip quanto nella regolarità della superficie, ha mandato in crisi l’intera struttura dello pneumatico posteriore causando surriscaldamenti ingestibili dalle soluzioni portate in Australia. Non si è cioè trattato di un semplice problema di incompatibilità nell’interfaccia fra mescola dello pneumatico e quella dell’asfalto, ma di un vero e proprio cambiamento radicale nella superficie che ha dato origine a tutta una serie di problemi. Vediamoli meglio.

All’origine c’è ovviamente un maggior grip che, per sua stessa natura, ha causato un innalzamento della temperatura media della struttura dello pneumatico. Fino a questo punto forse il problema avrebbe potuto essere gestito dalla gomma, non fosse che la regolarizzazione della superficie ha portato con sé due conseguenze.

 

In assenza di buche (ma sarebbe più corretto parlare di avvallamenti o dossetti) la gomma resta attaccata all’asfalto e si può quindi accelerare molto prima: la prima conseguenza è stata dunque la possibilità per i piloti di adottare assetti più estremi, che consentivano loro di aprire il gas in netto anticipo e prolungare così la fase di accelerazione sulla spalla della gomma, a profilo deformato e con forti stress termici.

Ma non finisce qui: la seconda conseguenza è che l’assenza di perdite di aderenza – o meglio, di microsollevamenti della gomma rispetto all’asfalto – ha fatto venire meno un momento, per quanto minimo, in cui la gomma si raffreddava perdendo grip. Se vi sembra un’esagerazione pensate alla capacità di dispersione termica (ovvero di “tenere la temperatura” come si dice in gergo) delle Bridgestone impiegate in MotoGP, accusate in passato di raffreddarsi troppo rapidamente e di causare cadute come quella di Valentino Rossi al Mugello o di Jorge Lorenzo a Laguna Seca di qualche anno fa.

 

Scartata la possibilità di utilizzare altre mescole (la extradura provata nelle FP4 non offriva vantaggi rispetto alla dura, la più morbida è stata valutata positivamente dal solo Bautista e solo nelle prime sessioni) il problema si è ulteriormente aggravato la domenica mattina, perché gli assetti affinati nel corso delle quattro sessioni di prove hanno determinato un ulteriore aumento del passo che ha aumentato lo stress termico: da qui la riduzione a 19 giri dell’intera gara, dopo che i tecnici Bridgestone hanno identificato in dieci giri il massimo numero di tornate percorribili in sicurezza. Da qui si è arrivati alle decisioni che hanno dato origine alla gara che tutti abbiamo visto.

 

Pur comprendendo le ragioni di Bridgestone, che ha scelto correttamente la soluzione di maggior sicurezza per i piloti accettando di esporre in maniera macroscopica i problemi dei suoi pneumatici, qualche obiezione ci sentiamo di farla. Il comunicato ufficiale riporta una dichiarazione di Shinji Aoki (al comando del reparto sviluppo gomme Motorsport di Bridgestone) secondo cui “provando con i piloti ufficiali a Phillip Island il prossimo anno” il problema verrà risolto.

Quello che lascia perplessi è la spiegazione sul motivo per cui questo test – o per meglio dire un qualunque test – non sia stato effettuato nell’intervallo fra la gara del Mondiale SBK, che ha evidenziato lo stesso ordine di problemi, e la gara della MotoGP. “Phillip Island non viene usata per test IRTA o sessioni private dei test team, quindi stiamo trattando per trovare un modo di provare qui il prossimo anno con qualche pilota”. Nemmeno il circuito di Austin è stato usato per test collettivi ma nulla ha impedito alla Honda di organizzarvi una sessione di prove prima del Gran Premio. Dubitiamo che se Bridgestone l’avesse chiesto le Case si sarebbero tirate indietro dalla possibilità di effettuare qualche sessione di prove a Phillip Island. La domanda è molto semplice: perché non è stato fatto, stante l’avvisaglia lanciata dalla SBK?

 

Attendiamo che qualcuno, magari fra chi ci ha rimesso in questa gara, prenda il coraggio a due mani e si decida a porla a chi di dovere.