Cinema
14 feb 2020

"Voglio correre", il film del Dott. Costa

Abbiamo visto il docufilm voluto e realizzato dal Dott. Costa, una testimonianza commovente lunga 40 anni di gare

Due ore sulle ginocchia di un nonno che racconta una storia, davanti a un caminetto che  scalda e proietta variazioni di luce. Solo che le ginocchia sono state le poltroncine di un cinema sopravvissuto alla modernità, il Centrale di Imola, e il fuoco lo schermo su cui andava in scena la prima del mini tour di “Voglio correre”, il film voluto e realizzato da Claudio Marcello Costa per raccontare la sua vita tra i piloti. Un nonno, il Dottorcosta, che ricorre all’epica, alla letteratura, al linguaggio di fiaba e che potrebbe talvolta correre il rischio, proprio per questo suo modo, di non risultare abbastanza credibile.

E allora ecco che in prima fila c’erano i testimoni, almeno alcuni, di quanto vera fosse la favola di quel medico eretico - capace di diventare il mito dei suoi stessi miti, l’Omero degli òmeri, la seconda mamma dei piloti - e della sua clinica mobile: da Loris Reggiani a Marino Bartoletti, da Virginio Ferrari a Vinicio Salmi. Testimonianze a rafforzare le immagini sullo schermo, ma anche segno di riconoscenza per quell’uomo che, aderendo al principio che “la follia è la vera saggezza”, ha permesso ai protagonisti di 40 anni di corse di regalare a tutti gli appassionati pagine di motociclismo leggendarie.

Sin da quella volta in cui, piccolissimo, attraversò la pista di Imola per soccorrere un pilota e evitare che altri si facessero male. Un’immagine immortalata da un giornale dell’epoca che costò a Claudio Marcello Costa il durissimo rimprovero del padre Checco e una profezia per la vita: “tu farai questo, tu salverai campioni”. Per essere crudi: senza il dottor Costa ci sarebbe stata la metà dei piloti, sarebbero rimasti solo quelli più fortunati e meno avvezzi al rischio. E, diciamolo chiaramente, sarebbe stato tutto un altro, noioso, spettacolo. Rossi, Zanardi, Marquez, Doohan per dirne alcuni, con gli occhi pieni di luce mentre parlano di un uomo capace di cullare le loro debolezze e custodire i loro segreti.
 

Come quello, svelato proprio nel film, protetto fin dopo il tragico primo maggio del 1994: “Sì, sono stato il medico di Ayrton Senna, ma non si doveva sapere in giro, e ho pianto tanto quel giorno in cui ho capito che non avrei più sentito la voce di quel brasiliano dolcissimo che mi chiedeva dei suoi acciacchi”. Perché, inevitabilmente, la vita raccontata dalla pellicola è stata anche una vita sempre accompagnata dall’idea della morte, da quella signora vestita di nero con cui il protagonista è stato sempre in amorosa lotta. E, come in ogni film, finiscono per non mancare anche le lacrime.

“Un medico tutto matto”, “uno stregone”, “uno che mischiava scienza e magia”, in due ore di docufilm i campioni di 40 anni di corse hanno provato a definire un uomo e la sua storia. Senza riuscirci. Con la soluzione che, ancora una volta, è arrivata dallo steso protagonista: “chiamatemi dottorcosta, tutto piccolo, tutto attaccato”. E’ così che lo riconosce la gente, è così che raccoglie gli abbracci sia degli attori che degli spettatori, in quella simbolica passeggiata nel paddock che chiude il film e fissa per sempre, anche su una pellicola ormai digitale, la favola vera di un nonno che accoglieva i suoi ragazzi sulle ginocchia, li curava e, poi, trovava il coraggio e la forza di rimandarli a giocare. 

di Emanuele Pieroni

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