Manuale di resistenza motociclistica: La moto D.O.C.

Manuale di resistenza motociclistica: La moto D.O.C.
Sarà il caldo, sarà il fatto che si avvicina la scadenza del bollo, oppure sarà che a furia di stare in garage i vapori di benzina mi danno alla testa. Un pensiero mi ha sfondato il cranio come una biella il carter dopo un epico fuorigiri
18 luglio 2014

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 Sarà il caldo, sarà il fatto che si avvicina la scadenza del bollo, oppure sarà che a furia di stare in garage i vapori di benzina mi danno alla testa, ma analizzando i dati di mercato moto e scooter del mese di giugno 2014 un pensiero mi ha sfondato il cranio come una biella il carter dopo un epico fuorigiri: l’industria motociclistica italiana arranca; magari non nei numeri di vendita nudi e puri, ma nella sostanza. Vedo aziende storiche in crisi nera o decotte a causa di un mercato interno che stenta a crescere e a rialzarsi dopo una durissima crisi. Non mancano i motociclisti, ma i denari.

Siamo in una situazione difficile, come dopo un terremoto o un’alluvione, ed è il momento di fare resistenza: non è detto che non ci si possa guadagnare tutti. Senza industria motociclistica italiana e il suo indotto, niente moto appassionanti e anticonformiste, niente gioielli della tecnica che anche se non puoi comprarli ti servono a sognare, a mantenere viva la passione, ad accontentarti della tua moto “un po’ così”, magari già alla seconda revisione ma che ti tiene attaccato al mondo del vento in faccia.

Qualcosa si deve fare, anzi: chi governa deve agire! Nel Bel Paese vantiamo alcuni tra i migliori team di progettisti di moto (il migliore al mondo è andato di recente a fare un intervento in garanzia alla F4 serie oro di Dio, non credo tornerà presto), un’ottima manodopera specializzata, le menti che escono dalle nostre università sono preparatissime, la fantasia e la creatività dei nostri designer è universalmente apprezzata, i team di collaudo delle case motociclistiche sanno il fatto loro e negli ultimi 25 anni non ricordo una moto italiana decisamente “sbagliata” sotto il profilo della guidabilità. Insomma le moto non solo le sappiamo fare, ma spesso le facciamo meglio degli altri. Per questa ragione le nostre motociclette sono apprezzate all’estero nei mercati “premium”, per non parlare di tutto l’indotto che rappresenta una punta di eccellenza della produzione industriale nazionale e che conferisce al prodotto “fatto in Italia” un fascino – e un prezzo – particolare, del resto la scritta “Made in Italy” apposta sulla motocicletta, sull’accessorio o sull’abbigliamento tecnico continua ad essere un insostituibile valore aggiunto.

A questo punto la domanda è: comprereste una BMW GS 1200 fatta in Corea? Non penso. Al contrario, un’ipotetica Casa asiatica troverebbe un beneficio in termini di immagine e certamente di vendite se producesse motociclette in un Paese dove notoriamente le moto sono fatte molto bene, per il solo fatto che le sue motociclette (o gli scooter) verrebbero costruiti in un Paese con una forte tradizione nella produzione motociclistica e garanzia di qualità. In altre parole, se gli fosse consentito di scrivere sulle proprie motociclette “Made in Italy”, l’ipotetica casa asiatica migliorerebbe sia il prodotto (perché meglio costruito), sia la sua immagine (perché i suoi mezzi sarebbero costruiti in un luogo notoriamente a spiccata vocazione motociclistica), sia le vendite (come risultato complessivo), ma per fare ciò dovrebbe evitare l’aumento dei prezzi di vendita, ovvero dovrebbe produrre più o meno agli stessi costi di produzione asiatici.

Questo discorso è valido, con aggiustamenti, anche per marchi che magari producono già in Europa ma che potrebbero beneficiare del forte ritorno di immagine nell’avere il marchio “Made in Italy” nelle proprie motociclette costruite/ progettate/collaudate in stabilimenti Italiani. Non si tratta di svendere il nostro prestigio nazionale ma di creare una vera e propria marchiatura “D.O.C.” per le motociclette costruite seguendo canoni di competenza, capacità e anche di creatività che nessun altro paese al mondo può vantare.

Per fare tutto questo sarebbe necessario che il Governo, un ipotetico Governo, creasse una o più zone in Italia dove le industrie estere che venissero a progettare/produrre avessero garantiti costi di produzione assimilabili a quelli asiatici, risultato ottenibile istituendo delle “Free Zones” all’interno delle quali la pressione fiscale sarebbe pari a zero.

Siamo in una situazione difficile, come dopo un terremoto o un’alluvione, ed è il momento di fare resistenza: non è detto che non ci si possa guadagnare tutti. Senza industria motociclistica italiana, niente moto appassionanti e anticonformiste, niente gioielli della tecnica che anche se non puoi comprarli ti servono a sognare, a mantenere viva la passione

È molto semplice: una Casa motociclistica decide di venire a produrre da noi per apporre il marchio “Made in Italy” sulle proprie motociclette, fonda uno stabilimento di progettazione/produzione, assume un certo numero (maggioritario) di lavoratori locali contrattualizzati secondo le leggi italiane, compra la maggior parte dei semilavorati e della componentistica da industrie italiane (decretando così una inoppugnabile italianità del mezzo) e per cinque anni non paga né tasse sul reddito, né contributi previdenziali ai lavoratori italiani assunti, che non vuol dire soltanto non sborsare denaro ma anche evitare l’aggressiva burocrazia italiana, primo spauracchio per molti investitori esteri. L’assenza di fiscalità diretta potrebbe tranquillamente equiparare i costi di produzione delle Free Zones a quelli asiatici ma, anche se non fosse così, l’incremento delle vendite e il miglioramento di immagine sarebbe da solo bastevole a giustificare per la Casa straniera l’investimento nel territorio Italiano.
Anche già affermate Case europee (o comunque che producono moto ad alto valore aggiunto) avrebbero vantaggi in termini di immagine e di costi di produzione nel produrre/progettare in Italia nelle Free Zones. Pochi marchi potrebbero non essere interessati a questa proposta, come per esempio Harley-Davidson, radicatissima nella propria terra di origine e la cui provenienza geografica è essa stessa un tratto indistinguibile del loro prodotto, ma se pensiamo che la nuova Harley-Davidson Street 750 è prodotta in India…

In questo modo, l’aumento dell’occupazione sarebbe a costo zero per l’erario. Il solo gettito IVA generato dall’acquisto dei semilavorati e della componentistica sarebbe enorme. Il reddito generato da molti posti di lavoro in più rispetto alla asfittica situazione odierna potrebbe far fare un balzo in avanti al nostro PIL con benefici trasversali a tutta l’economia, la moto guiderebbe la ripresa e chissà che non si venda pure qualche motocicletta in più! Dopo cinque anni si potrebbe rimettere tutto in discussione, modulando il sistema e correggendone gli effetti.

C’è un però: come placare le ire delle Case motociclistiche italiane che vedrebbero come una forma di concorrenza sleale le facilitazioni per le industrie straniere nelle Free Zones e, inoltre, potrebbero temere il rafforzamento dei loro concorrenti esteri? Semplice: con la totale detassazione degli utili reinvestiti in ricerca, sviluppo e beni strumentali, così le Case Italiane potrebbero mantenere la loro leadership tecnologica e creativa e non rinunciare alle proprie quote di mercato, soprattutto nei segmenti a più alto valore aggiunto; quest’ultimo provvedimento sarebbe anche una mano santa per le piccole Case motociclistiche italiane, che potrebbero puntare ancora di più sull’eccellenza e sulla tecnologia senza alzare i prezzi di vendita; si creerebbe una bella concorrenza sul mercato italiano e i benefici sarebbero girati all’intera comunità.

Su questa farneticante proposta ci sarebbero da proporre tanti distinguo, perché, come e quando. Avremo, se vorrete, tutto il tempo per parlarne ma questa, fratelli e compagni di moto e polvere, è l’unica possibilità di rinascita per la nostra economia motociclistica che mi viene in mente in un mercato che stenta a crescere, sono pronto a modificarla però fatene buon uso: un uso rivoluzionario, un uso consapevole e moderato, perché le idee strane a volte funzionano ma vengono sempre viste con sospettosa diffidenza dai poteri forti e dalle consuetudini.

C’è caldo, il mio garage è distante dal mare solo pochi chilometri e penso che sia venuto il momento di un po’ di sole in spiaggia: se vicino a voi vedete un bagnante col volto celato da un passamontagna nero, fate finta di nulla: eviterete il rischio di essere presi per rivoluzionari e anche voi sospettati, controllati, diffidati e costretti a rintanarvi nella stessa umida trincea dalla quale io lancio i miei utopistici proclami. Ma se proprio volete rischiare, nel mio garage c’è posto. Hasta la manetta siempre!

A.Seeger