Dietro le quinte della MotoGP: Cristian Gabarrini

Dietro le quinte della MotoGP: Cristian Gabarrini
Giovanni Zamagni
Per anni è stato a fianco di Casey Stoner, riuscendo a interpretare al meglio le sue richieste. Le sue capacità lo hanno portato fino ai vertici tecnici della HRC | G. Zamagni
17 aprile 2013


Per anni è stato a fianco di Casey Stoner, riuscendo a interpretare al meglio le sue richieste e fungendo da parafulmini quando l’australiano, non di rado, sbottava e dava “fuori di matto”. Al contrario, l’ingegner Cristian Gabarrini non perde mai la calma, è sempre tranquillo, non fa mai una polemica, non dice mai una parola fuori posto. Le sue capacità lo hanno portato fino ai vertici tecnici della HRC, in un ruolo importante e delicato, dietro alle quinte, solitamente affidato ai giapponesi: Cristian è il primo italiano, anzi, addirittura il primo europeo a occupare una posizione di così alto livello. Evidentemente perché è bravo, molto bravo.


Nome e cognome?
«Cristian Gabarrini».


Nato il e dove?
«21 giugno 1972 a Senigallia, provincia di Ancona».


Prima gara di moto vista?
«1990, Misano Adriatico, motomondiale».


E in televisione?
«Molto, molto tempo prima, non ricordo quando. I miei genitori erano appassionati, soprattutto mia mamma, della classe 125».


Quindi la passione per le moto viene dai genitori?
«La mia passione è nata con il fuoristrada, soprattutto con il motocross, poi in seguito mi sono avvicinato alla velocità».


Come sei arrivato al motomondiale?
«Mi sono laureato in ingegneria meccanica e quando ho finito ho mandato in giro un po’ di curriculum. La mia prima esperienza l’ho fatta con il team Campetella (in 250, NDA) nel 2002, a Valencia: lì ho conosciuto un po’ di persone dell’ambiente, in particolare quello che è poi stato il mio capo tecnico, Massimo Branchini, che nel 2003 mi ha “arruolato” nel team LCR (di Lucio Cecchinello, NDA) per lavorare in 125 con Lucio (che ai quei tempi faceva ancora il pilota) e Casey Stoner. Ho fatto un altro anno nel team LCR come telemetrico di Mattia Pasini, compagno di squadra di Roberto Locatelli. Poi sono passato alla Ducati, i primi due anni nel team satellite, come ingegnere elettronico e responsabile tecnico per Ducati nella squadra esterna. Nel 2007 sono diventato l’ingegnere di pista di Stoner nel team Ducati ufficiale e lì sono rimasto fino alla fine del 2010».


Cosa fa un ingegnere di pista?
«E’ il responsabile della squadra. Come prima cosa parla con il pilota e cerca di capire cosa ha bisogno a livello tecnico, ma anche come strategia, quali gomme montare, come gestire tutto il week end di gara. L’ingegnere di pista è quello che ha l’ultima parola su tutto: Filippo Preziosi (l’ex direttore tecnico di Ducati Corse, NDA) diceva che nel box l’ingegnere di pista è come “Dio”, decide tutto. Secondo me non è proprio così, perché l’ingegnere di pista decide sì tutto, ma accordandosi con i suoi collaboratori, usando il buon senso. E la decisione finale sugli aspetti importanti la prende il pilota: l’ingegnere di pista fa da tramite tra lui e gli altri tecnici, cerca di consigliarlo, di farlo ragionare e di presentargli tutte le varie possibilità tecniche».

 
Poi, sei passato alla Honda-HRC.
«Sì, nel 2011 e nel 2012 ho continuato come ingegnere di pista di Stoner, mentre quest’anno ricopro un altro ruolo, che riguarda più la parte tecnica: mi prendo più cura della moto e di tutto quello che gli orbita intorno. Quindi: parti da provare, disponibilità del materiale, scelte da effettuare. Un ruolo che, fino al 2012, era affidato a un tecnico giapponese».


Cosa hai pensato la prima volta che hai lavorato con Stoner?
«Ho iniziato a lavorare con lui nel 2003 e con Casey avevo un rapporto strano, perché per certi versi ero lontanissimo da lui, perché lo “vedevo” solo dall’analisi dei dati, non ci parlavo quasi mai. Dall’altra parte, però, essendo Casey poco più che un ragazzino - aveva 16-17 anni - mi è capitato spesso e volentieri di accompagnarlo al ristorante a mangiare, portarlo in aeroporto in macchina perché non aveva la patente: era una sorta di fratello minore, quello che non ho mai avuto. La prima volta che visto Casey, l’ho quindi “visto” attraverso l’analisi dati, non influenzato da nessun sentimentalismo: ho capito subito che andava già molto forte, sapeva bene dove mettere le ruote».

 

Cristian Gabarrini in Ducati con Stoner
Cristian Gabarrini in Ducati con Stoner

E quando l’hai visto la prima volta alla Ducati?
«E’ stata un’emozione incredibile: io lavoravo già a Borgo Panigale, ho sempre avuto una sorta di adorazione per Casey, sia dal punto di vista umano, perché se uno lo conosce bene è adorabile, sia come pilota, perché a mio modo di vedere rappresenta il più grande talento del motociclismo degli ultimi dieci anni. Quindi è stato bello e, soprattutto, incredibile come per lui passare da una Honda 1000 5 cilindri con le Michelin (guidata nel team LCR nel 2006, NDA) a una Ducati 4 cilindri 800 con le Bridgestone sia stata una cosa del tutto naturale: in un paio d’ore era già più o meno a posto…».

 
E Marquez che effetto ti ha fatto la prima volta che l’hai visto sulla RC213V?
«E’ stato un approccio diverso, ma si è visto subito che è un altro di quelli “buoni”, come si dice nell’ambiente, un altro talento incredibile. Marc ha un approccio totalmente differente da Casey: Stoner è più istintivo, genio e sregolatezza, Marc è più metodico, ma hanno in comune un grandissimo talento».


Qual è il GP più bello in assoluto che ricordi di aver visto, indipendentemente dal tuo lavoro?
«In realtà ne ricordo vari: la prima vittoria nel 2007 di Casey in Qatar, poi, nello stesso anno, Barcellona. Si può pensare che li nomini perché Stoner vinse, ma non è solo per quello, anche per il modo in cui ci riuscì. Anche il successo del Mugello, dove Ducati non aveva mai trionfato, passando dal bagnato all’asciutto è stata qualcosa di eccezionale. Quella che mi ha emozionato di più nell’ultimo periodo è stata la gara di Jerez nel 2012, una pista che Casey odia: vincere lì, con tutto il “chattering” che avevamo, è stata una soddisfazione incredibile».


E’ molto diverso lavorare con una Casa italiana o una giapponese?
«Sì, anche se in realtà, anche alla Honda lavoro con tanti italiani – tutti i ragazzi della squadra di Marc, con i quali lavoriamo ormai da otto anni e che in un certo senso mi adottarono quando io arrivai al team Ducati ufficiali, perché loro erano già lì da tempo. Naturalmente, la mentalità, il modo di vedere le cose è molto diverso, anche se non è facile fare dei paragoni, perché sono a stretto contatto con i giapponesi in un ruolo differente rispetto a quello che avevo in Ducati; di conseguenza, anche l’approccio al lavoro cambia».


Dimenticati per un attimo di essere un addetto ai lavori: da appassionato, erano più belle le gare delle 500 2T o preferisci queste delle MotoGP 4T?
«Difficile rispondere, perché è impossibile dimenticarsi di essere direttamente coinvolti. Non ho mai lavorato con le 500, anche se mi sarebbe piaciuto perché adoro i motori 2T; erano moto completamente differenti. Capisco che le gare di adesso potrebbero essere più noiose per gli appassionati a casa, perché capita spesso che chi riesce a prendere un certo ritmo, poi difficilmente viene ripreso dagli altri. Forse le 500 richiedevano più improvvisazione da parte dei piloti in pista, mentre adesso nulla – ma veramente nulla – viene lasciato al caso».

 

Le 500 richiedevano più improvvisazione da parte dei piloti in pista, mentre adesso nulla – ma veramente nulla – viene lasciato al caso

Ti sarebbe piaciuto vedere Stoner su una 500?
«Assolutamente sì. Quando sento qualcuno affermare: “Togliete l’elettronica e vediamo veramente chi è il più forte”, mi viene da sorridere. Per due motivi: con le gomme e il livello di oggi, se tosi eliminasse l’elettronica di piloti ne rimarrebbero pochi, perché ci sarebbero un sacco di infortuni; e, soprattutto, Casey avrebbe un vantaggio immenso nei confronti di tutti gli altri».

 
So che non fai mai polemica, ma la domanda te la devo fare: Stoner avrebbe vinto con la Ducati del 2012?
«Impossibile rispondere, non solo per una questione di correttezza, ma perché non ho la più pallida idea di come sia fatta la Ducati adesso. Ho lasciato una Desmosedici che era fatta in un certo modo, mentre quella di adesso è completamente differente già a vederla dall’esterno. Credo comunque che Casey abbia dimostrato di essere competitivo con moto diverse e a livelli diversi, ma non posso dire di più perché non ho gli elementi per giudicare».


Da domani si inizia a girare su una pista nuova, ma che voi già conoscete avendo provato a marzo; che tracciato è?
«Concordo con le dichiarazioni fatte da Valentino (Rossi, NDA) che dice che si vede subito che è stato disegnato da Tilke (ingegnere tedesco che ha realizzato gran parte dei circuiti moderni, NDA). Alcune parti sono molto interessanti, tecniche e divertenti, altre, da spettatore, mi sembrano insignificanti. Dal punto di vista tecnico è un circuito abbastanza severo: per esempio, alla frenata dopo il traguardo si arriva in quinta piena, quindi a una velocità piuttosto elevata, con una salita che mette in crisi l’anteriore. Ci sono diversi cambi di direzione uno attaccato all’altro, curve molto lente e altre velocissime: bisogna quindi essere veramente a posto con la moto. Essendo nuovo, per il momento l’asfalto è liscio come un biliardo».


Da ingegnere, che regola cambieresti nella MotoGP?
«Dipende qual è l’obiettivo: ottenere più spettacolo, esaltare l’aspetto tecnologico o abbassare i costi?».


Più spettacolo.
«Allora, bisogna abbassare il limite tecnico, fare qualcosa di simile a quello fatto in Moto2, dove comunque, alla fine, come si è visto con Marquez, il più forte vince sempre, ma per il podio lottano più piloti. Dal mio punto di vista, sono abbastanza certo che più il limite tecnico è alto e meno sono i piloti che riescono a sfruttare la moto al 100%».


Qual è l’aspetto bello del tuo lavoro?
«Ce ne sono vari: lavorare con un pilota come Marquez, che per ora si è dimostrato incredibile da tutti i punti di vista, prima di tutto quello tecnico; lavorare con un’azienda come l’HRC, punto di riferimento nel mondo motociclistico; la possibilità di imparare un approccio tecnico alla moto molto diverso dal mio precedente».


E quello negativo?
«In questo ruolo si lavoro ancora più di prima. Ma va bene così».

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