I Racconti di Moto.it: “La dinamica”

I Racconti di Moto.it: “La dinamica”
Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
Porca noia. Percorrere in automobile l’autostrada per ore e ore, alternando entrambi i sensi di marcia, senza mai uscirne se non a fine servizio: è un’asfissia...
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
31 maggio 2013

Punti chiave


Il racconto che segue è di pura fantasia e proprio per questo l'autore desidera chiarire che i personaggi coinvolti nulla hanno a che fare con la realtà per le cui categorie l'autore nutre il massimo rispetto.

Porca noia. Percorrere in automobile l’autostrada per ore e ore, alternando entrambi i sensi di marcia, senza mai uscirne se non a fine servizio: è un’asfissia.
Il fatto è che non succede niente, in autostrada. La gente va, la gente viene, al massimo ogni tanto nei servizi notturni tocca fare la buoncostume all’interno delle aree di sosta, quest’ultime rivalutate come giardini d’amore per automobili tremolanti. L’acme dell’entusiasmo lo raggiungiamo fermi per due ore con l’autovelox montato sulla vettura di servizio, magari sotto il sole; fate un po’ voi.

Quella volta ero con Giulio Pini, ci conosciamo bene perché eravamo insieme al corso per agenti. Siamo due poliziotti molto complici, dopo vent’anni di servizio lui sperava di andare all’anticrimine, io alla scientifica: invece siamo finiti alla stradale per un gioco di fattori come la destinazione, la disponibilità, l’attitudine e il categorico rifiuto di chiudersi in un ufficio o, peggio, in una mensa. Avevo pure chiesto di fare l’agente motociclista perché amo le moto e ne ho persino due, una d’epoca e un enduro 1200 che uso ogni giorno ma, dopo l’istanza, nessuna risposta.

Eravamo seduti l’uno di fianco all’altro nell’autovettura con i colori d’istituto, in uno di quei rari pomeriggi piovigginosi e placidi di un’estate sul punto di iniziare per tutti tranne per chi come me e Pini avrebbe visto le ferie da lontano, forse a settembre; ma era, ed è, il mio lavoro e non mi lamento nemmeno quando qualcosa di brutto accade e la porto a casa nascosta nell’animo senza svelarla a nessuno dei miei cari; lì, ringrazio il cielo di fare un mestiere che posso lasciare dietro la porta d’ingresso e vorrei gridare che sono fortunato; e lo dico, ma sottovoce.
Pini guardava fisso davanti, io guidavo nell’autostrada poco trafficata attendendo di arrivare presto alla prossima stazione di servizio perché avevo una certa urgenza di andare al bagno e non volevo deliziare il mio caro collega con flatulenze potenzialmente mortali.

La radio gracchiava concise comunicazioni di servizio.
Pini urlò: - Guarda qui! Rallenta! – ancora intontito dai miei pensieri piantai un frenatone che manco alla Source.
- Cos’è? – chiesi al collega.
- Accosta!- ubbidii e mi fermai a pochi metri da una moto adagiata su un fianco in corsia d’emergenza, eravamo su di un breve ponte sopra un fiume. La moto era in fiamme, per terra si vedevano i segni di una lunga frenata e poi di un impatto sulle barriere che aveva certamente causato la caduta, la fuoriuscita della benzina e il conseguente incendio. Peccato, perché seppure non nuovissima era sempre una moto e quando vedo delle motociclette distrutte mi prende male, ci soffro. Penso a quante emozioni andranno perse e non vissute, a tutto quello che si sarebbe ancora potuto fare con quella motocicletta; solo dopo penso anche al conducente e un po’ me ne vergogno. Io penso alla moto, anche quando cado con la mia. Posso anche non farmi nulla ma se la moto è danneggiata è una tragedia epocale, non solo per il costo assurdo dei ricambi ma anche per lo sfregio indelebile che rimarrà segnato sul serbatoio, sul telaio, sullo scarico.

- Ale, ci sei? Pronto? C’è nessuno? – mi accorsi di essere rimasto imbambolato.
- Eh?? Sì!
- Che bordello! Secondo te dov’è il conducente?
- Secondo me… minchia, vuoi vedere che è caduto di sotto?
Ci sporgemmo istintivamente dalle barriere per guardare il fiume almeno trenta metri sotto di noi e ci guardammo in volto, pensando alla rottura di scatole di dovere redigere un verbale per un incidente probabilmente mortale. Però c’era la possibilità che il motociclista fosse già andato via a piedi in cerca di soccorsi, per esempio.

Beh, preso dall’incontenibile voglia di catarsi che questo fuoco mi ispirava, decisi di fare pochi metri, uscire dal ponte e addentrarmi nella vegetazione oltre la carreggiata per fare un urgente check alle parti nobili, dato che avremmo dovuto impiegare molto tempo fermi lì per i rilievi e non avrei certo potuto approfittare del bagno di una stazione di servizio. Chiesi a Giulio un paio di minuti di pazienza, scavalcai la rete e feci, il verbo cade a fagiolo, una decina di metri tra alberi di eucalipto e vegetazione incolta; aveva smesso di piovere e faceva caldo.
Poi vidi una cosa che mi lasciò di stucco.
A dire la verità credo che anche lui rimase piuttosto sorpreso dal vedere un poliziotto con le braghe giù e non credo fosse per la visione disdicevole di un tutore dell’ordine sorpreso in posa non consona alla dignità del suo ruolo.

Insomma, poco oltre nella vegetazione c’era una splendente Kawasaki Z 900 degli anni ’70 e a fianco un signore ben vestito, sbarbato, sulla trentina, alto e aitante, visibilmente sereno, con uno zaino in spalla. Tutto il mio contrario, che ero già sudato, oltre i quaranta, altezza media, corporatura esile e nervoso. Molto nervoso, ma dovete capirmi, la posizione non mi aiutava e, per soprammercato, quando la tieni da un paio d’ore inizia a diventare pesante sia l’aria, sia l’umore... ma siccome io sono sempre operativo, massiccio e incazzato, avvertii che qualcosa puzzava; in senso metaforico, intendo.

Senza nemmeno rialzarmi i pantaloni, estrassi la Beretta e gridai:
-Fermo! – e nel frattempo balzellavo verso lo sconosciuto con i pantaloni della divisa alle caviglie, la pistola in una mano e l’altra che tirava su le mutande.
L’uomo si girò, alzò le mani e sorrise, chissà poi perché.
- Non spari, per favore. Uccidere è peccato.
- Che cosa stai combinando?
- Niente e lei, invece? Si dia un contegno. – il tizio si permise di redarguirmi.
- Poco spirito, dove vai? – chiesi abbassando l’arma e alzando le braghe.
- A casa, con la mia moto.
- Ah, una Z 900! Che ci fa una moto come quella nei campi accanto l’autostrada?
- Facevo una passeggiata, magari cercavo un luogo appartato dove ritirami e ritrovare me stesso, proprio come lei… - a me l’ironia piace, ma quando la faccio io. Quando la fanno gli altri la rubrico come insolenza.
Gli chiesi i documenti, il tizio disse che non li aveva d’appresso. A quel punto fui obbligato a portarlo alla macchina per fargli il terzo grado assieme a Pini: la cosa puzzava sempre più, nonostante i miei tentativi di serrare le natiche.
- Giulio, guarda che cosa ho trovato lì dietro! – dissi spingendo il tizio, che avevo pure ammanettato, dentro la macchina di servizio.
- Eh? Ma non eri andato lì per una c… controllata del territorio circostante e trovare utili indizi per capire la dinamica dell’incidente?
- Già, e ho trovato questo str… strano signore. – Misi a parte Giulio di quello che era accaduto e decidemmo di perquisire quel signore ben vestito: il tizio non fece resistenza, ostentando una irritante tranquillità. Nelle tasche della giacca aveva soltanto una lettera sigillata indirizzata a “Maria”, nient’altro.

Da quel momento e nonostante le nostre insistenze non spiccicò più una parola e mostrò di essere insensibile persino alla minaccia di passare la notte in gattabuia. Lo lasciammo ammanettato in macchina e andammo a consultarci fuori dalla volante.
- Mi pare che possiamo passare la palla alla centrale. – disse Giulio allargando le braccia sconfitto.
- No. – risposi.
- Che vuol dire “no”?
- Ma a te uno che in mezzo al nulla parcheggia una Z 900, è vestito come un damerino nonostante la pioggia, senza un documento addosso, con uno sguardo così sereno che sembra il Dalai Lama, con una lettera non affrancata indirizzata ad una certa Maria e che non risponde alle nostre domande manco fossimo a Guantanamo, un po’ di curiosità te la smuove o no? Ma che cazzo lo facciamo a fare questo mestiere?
- Ale, io non mi ci metto in questi ragionamenti. Chiamiamo la centrale, facciamo venire qui un’altra volante, portiamolo in questura e che se la sbrighino loro.
- Eddai, per una volta che possiamo fare qualcosa di più che avanti e indietro per l’autostrada! Vediamoci chiaro! Qui c’è un incidente strano, il corpo del motociclista non si trova, questo non parla! Ci scappa l’encomio solenne se risolviamo tutto da noi!
- Va bene, e che vorresti fare?
- Secondo me, dovremmo aprire quella lettera.
- Sei scemo? Non si può fare, c’è la privacy.
- Dai Giulio, magari la lettera ci aiuta a capire meglio quello che sta accadendo qui e chi è il tipo dentro la macchina!
- Quello non c’è con la testa, Ale! Guardalo: non parla, fissa il vuoto col suo sguardo da asceta, non ha un euro, gira senza documenti…
- …ah! Ma glielo abbiamo chiesto come si chiama? Che mestiere fa? Dove abita?
- No, io no. Tu?
- Manco.
- Minchia.
- Vabbè Giulio, ma se anche sapessimo il nome, cosa cambierebbe?
- Avremmo un punto di inizio, perlomeno.
- Ahhh! Allora ti stai incuriosendo pure tu! Facciamo così, diamoci quindici minuti: se in quindici minuti non abbiamo scoperto niente chiamiamo la centrale e portiamo in questura il tizio, ok?
- Affare fatto. Un quarto d’ora, poi facciamo i bravi poliziotti.

Il motociclista continuò a tacere, nonostante blandizie e intimazioni. Mancavano cinque minuti allo scadere dei quindici che ci eravamo concessi per sentirci dei grandi investigatori americani capaci di magiche congetture risolutive e come extrema ratio minacciammo di aprire la lettera, solo allora lui disse:
- Non importa. So già come andrà a finire.
Con un gesto plateale, Giulio prese la busta e ne strappò un margine, poi ne spiegò il foglio contenuto all’interno e iniziò a leggere, dopo avere gettato un’occhiata al prigioniero, seduto nel divanetto posteriore della macchina con gli sportelli spalancati.
- Senti qui, Ale: “Dolce amore, innanzitutto niente fiori. Detesto l’odore dei fiori marcidi ai funerali, soprattutto al mio; avrò il piacere di vedere la gente avvicinarsi alla mia bara vuota, sussurrare parole di circostanza e magari scoprirò chi mi era amico veramente e chi no. Se tutto va bene farò ritorno da te appena il clamore della mia scomparsa si sarà placato, credo un paio di mesi. Ho inscenato tutto; se stai leggendo questa lettera vuol dire che il mio proposito di simulare un incidente in motocicletta dandole fuoco e facendo credere di essere stato sbalzato dalla sella e caduto nel fiume sottostante ha avuto successo: il mio corpo non verrà mai trovato e si penserà che sia stato trasportato nel mare poco distante e disperso nei flutti. Perdonami se non ti ho detto nulla dei miei propositi, ma non avevo altre soluzioni.

Non sai alcune cose: la prima è che la nostra relazione stava per essere scoperta e tu capisci benissimo che un prete innamorato di una giovane parrocchiana ha le ore contate; questi sono tempi difficili per la Chiesa e mi avrebbero immediatamente trasferito in una missione in Congo. I sussurri delle vecchiette nel confessionale mi hanno avvertito dell’urgenza di fare perdere le mie tracce, anche per il bene della tua onorabilità.

La seconda è che con i soldi della questua ho comprato una motocicletta d’epoca, una Z 900 degli anni settanta, che ho sempre tenuto ben nascosta a tutti. L’inseguivo da un paio d’anni come una chimera e non appena ne ho trovata una su internet non me la sono fatta sfuggire. Miserevolmente, non possedevo denaro a sufficienza per acquistarla (la sai anche tu quella vecchia storia della castità, povertà, obbedienza… vabbè, cose che si dicono) e ho dovuto ricorrere ai soldi che i fedeli mettevano nel cestino che passa durante la messa. La nostra parrocchia è in un quartiere ricco e sono bastati un paio di mesi per accumulare la somma necessaria a soddisfare la mia passione per le motociclette d’epoca. Alla faccia della crisi, aggiungo.

Credo, però, che qualcuno si sia reso conto della cosa, perché la perpetua nelle ultime settimane ha preteso di tenere presso di sé la questua rifiutando di versarla nel conto corrente della parrocchia, tra l’altro guardandomi in tralice. Di quella vecchia c’è poco da fidarsi e temo che abbia scoperto qualcosa o di noi, o della motocicletta e ho pensato che non ci fosse altra soluzione che sparire, simulare la mia morte e ricominciare d’accapo. Io non sono come i politici, cui tutto può essere perdonato col passare del tempo: il Vaticano ha dichiarato tolleranza zero verso quelle piccole debolezze un tempo tollerate (anche perché altrimenti sai che palle la vita da prete!), specialmente a causa dei numerosi scandali oramai di dominio pubblico. Insomma, l’atmosfera intorno a me, e a noi, era diventata rovente.

Amore mio, tornerò presto da te, insieme alla motocicletta. Distruggi questa lettera e non fidarti di nessuno, non rivelare niente nemmeno a tua mamma (poi ti racconto cosa ha confessato manco un mese fa a padre Ignazio!). Tuo, Pancrazio.”

Fu come rivelare ad un bambino che Babbo Natale si era appena scopato la sorella nel giorno del suo matrimonio: l’iconoclastia più perversa e disarmante; non rimaneva che dirmi che Valentino Rossi se la intendeva con Biaggi a lume di candela con la benedizione di Burgess e poi avrei puntato la Beretta verso di me. Certe cose turbano. Mi scappò pure una flatulenza, ma almeno ebbe il merito di smuovere un po’ l’aria che era diventata di ghiaccio. Nel frattempo aveva ripreso a piovere.

- Pancrazio… tu sei il padre Pancrazio della parrocchia di Santa Maria della Guardia, vero?
Ovviamente il tizio tacque ma si vedeva chiaramente che era scioccato, e non dalla puzza. Controllammo il suo zaino, dentro c’era un casco jet, una tunica da prete, biancheria e venti biglietti da cinquecento euro. Sarebbe stato più logico e più professionale dare prima un’occhiata alla zaino, ma c’eravamo fatti affascinare dalla situazione e avevamo perso un po’ di vista la correttezza delle procedure.
- Ale, non ci resta che chiamare la Centrale.
- Giusto. Chiamo io.
- No, ci penso io, Ale.
- No, preferisco parlarci io, perché…

Quest’indecisione fu il nostro ultimo errore: Pancrazio approfittò del momento di esitazione ed ebbe un guizzo improvviso: uscì fuori dalla volante e corse in mezzo alla carreggiata, dove venne travolto da una macchina che giungeva a forte velocità. Sbalzato in aria, fece una capriola strana; forse le mani ammanettate dietro la schiena influirono sulla dinamica della caduta perché ricadde sull’asfalto praticamente seduto.
Io e Giulio ci intendemmo all’istante e facemmo ricorso a tutto il sangue freddo e alla nostra esperienza di poliziotti navigati.

Attesi che la macchina si fermasse un centinaio di metri dopo e ne scendesse un ragazzino bianco come un cadavere e tremante; gli andai incontro, mentre Pini si occupava del prete. Dissi al ragazzo che aveva combinato un bel guaio, che quello era morto ma che non doveva preoccuparsi, ci avremmo pensato noi. Lui doveva solo andarsene, lasciarmi i suoi documenti e non fare mai parola con nessuno di quello che aveva fatto altrimenti sarebbe andato in galera. Il ragazzino mi lasciò la patente, disse cento volte sì e mille grazie e scappò con la macchina ammaccata.

Pini, invece, trascinò il cadavere del prete vicino alla motocicletta e gli tolse le manette, bruciò la lettera a Maria e depose il casco jet accanto al corpo. Tornammo entrambi in macchina, Pini si mise le mani sulla faccia e mormorò qualcosa, sconvolto. Poi fece per prendere la radio ma io gli chiesi di aspettare un paio di minuti, il tempo di nascondere la Z 900 per bene nella vegetazione: la sarei venuto a prendere di notte, al riparo da sguardi indiscreti. Tornai in auto, poi gli dissi:
- Questi sono tuoi. – erano metà dei diecimila euro che il prete aveva nello zaino. Giulio si mise i soldi in tasca, quindi prese la radio:
- Centrale, qui Savona/Como 12: incidente sulla A19, motociclista deceduto nell’impatto con il guardrail a seguito di perdita del controllo del mezzo per eccessiva velocità. Non ci sono altri mezzi coinvolti, rimaniamo sul posto in attesa di ambulanza e per i rilievi.

 

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