Nico Cereghini: “Giappone: forza Dovi!”

Nico Cereghini: “Giappone: forza Dovi!”
Nico Cereghini
  • di Nico Cereghini
Sedici punti sono ancora recuperabili, in quattro gare. Ma a Motegi bisogna dare tutto e mettere dietro Márquez. Valentino Rossi, attardato in classifica, può provare almeno a vincere una seconda gara
  • Nico Cereghini
  • di Nico Cereghini
12 ottobre 2017

Domenica prossima quindici ottobre, a Motegi, vanno in scena la tradizione e la storia. Gli appassionati sanno che nel Paese del Sol Levante bisogna entrare in punta di piedi: ciò che i Giapponesi hanno saputo fare dagli anni Sessanta in avanti, e mi limito naturalmente al motociclismo, profuma di miracolo. Certamente avete sentito parlare della Honda 250 sei cilindri e ventiquattro valvole del 1966, iridata con Hailwood; è una splendida moto storica che spesso si vede (e si sente, una musica celestiale!) ai grandi raduni internazionali, ma se vi dico che la Honda 125 dello stesso anno (campione del mondo con Taveri) aveva cinque cilindri e girava a 21.500 giri? E che la 50 dell’anno prima era una bicilindrica da 20.000 giri? Il duello tecnologico tra i costruttori giapponesi era tale, in quegli anni Sessanta, che la Suzuki creò un motore 50 due tempi a tre cilindri a V, alesaggio di 28 mm e corsa di 26.5, rotazione massima a 19.000 giri e potenza di una ventina di cavalli; con una curva di erogazione così appuntita (sotto i 15.000 praticamente si spegneva) che ci volle un cambio a quattordici marce…


La FIM si spaventò: questi, per conquistare il mercato mondiale della moto, avrebbero ammazzato il campionato! Furono cambiati i regolamenti, ma non fu possibile arginare le ambizioni nipponiche: bisognò anche dargli il loro GP, Suzuka, novembre 1963. E io ricordo che la 500 non si disputò (nella classe “regina” ancora non erano arrivati), e in 250 vinse il rodesiano Redman con la Honda/4, Ito e Read andarono sul podio con le bicilindriche Yamaha due tempi e il quarto posto non bastò al nostro Provini, che eroicamente correva (e talvolta anche vinceva) con la monocilindrica quattro tempi Morini.Per due soli punti Jim Redman fu il campione del mondo, l’italiano secondo.


Ai nostri tempi, per fortuna, le Case italiane sono lì, in MotoGP si battono alla pari e c’è anche un marchio come Brembo che domina con la sua tecnologia frenante. La Ducati lo ha vinto spesso, il GP del Giappone: con Loris Capirossi per tre anni consecutivi dal 2005 al 2007. Casey Stoner invece ha vinto nel 2010, battendo in quell’occasione proprio il Dovi (allora su Honda) e Valentino Rossi (vincitore dell’edizione 2008).


Ci si corre regolarmente dal 2004, a Motegi, quando a vincere fu Tamada (il pilota del nostro ingegner Bernardelle!) con le prime gomme Bridgestone e i freni italiani. L’autodromo della Honda è stato inaugurato nel ’97 e già due anni dopo ci si disputò occasionalmente un primo GP con la vittoria di Kenny Roberts Jr sulla Suzuki. Come Capirex, anche Lorenzo e Pedrosa hanno vinto tre edizioni della gara. Si tratta di una bella pista di 4.800 metri dove si gira in senso orario con otto curve a destra e sei a sinistra, con quindici metri di larghezza e 760 metri di rettilineo; dove manco a dirlo è la Ducati ad aver registrato la punta velocistica, con Iannone nel 2015, a 314.3 chilometri orari. Pista molto severa con i freni, tant’è vero che soltanto qui -con tre staccate feroci e poi tante curve lente che penalizzano il raffreddamento- sono obbligatori i dischi grandi da 340.


L’anno scorso, a Motegi Marc Marquez si laureò campione per la terza volta (al quarto anno di MotoGP!) e con largo anticipo, vincendo la corsa con tre secondi di margine su Andrea Dovizioso che qui si è trovato sempre molto bene, e quattro secondi su Vinales. Quelli, per inciso, erano bei tempi per la Suzuki di Brivio, con i suoi due piloti al terzo e quarto posto di giornata. Rossi era scattato dalla pole, ma poi, come del resto Lorenzo, era finito a terra, e le tante cadute avevano segnato il fine settimana: spaventosi gli high side di Pedrosa e dello stesso Lorenzo nelle prove. Ricordo che di questi tempi si parlava molto delle scivolate di Marquez, soprattutto in prova. Dopo quindici gare, il pilota Honda ne aveva già collezionate quattordici (una sola in corsa) contro le tredici del 2015, le undici del 2014 e le quindici dell’anno prima. Sembrava avviato al record personale, che però quest’anno ha già ampiamente battuto avendo collezionato (come annota il nostro Zam) ben ventidue cadute. Nessun dubbio ormai: la caduta, per Marc, è semplicemente un passaggio metodologico nella ricerca del limite. Tanto per ricapitolare, nel 2015 aveva vinto Pedrosa su Rossi e Lorenzo, mentre nel 2014 Lorenzo aveva battuto Marquez e Rossi. A dominare la MotoGP erano sempre i soliti quattro piloti ed è bello che adesso la musica sia cambiata.


Oggi il favorito resta ancora lui, Marc Marquez: è in testa al campionato per sedici punti, nelle ultime sei gare ha conquistato quattro vittorie e un secondo posto, la Honda ha recuperato tutto il gap di inizio d’anno. Ma, nonostante la delusione di Aragon, Andrea Dovizioso è ancora in partita, e l’aritmetica tiene in gioco pure Maverick Vinales staccato di 28 lunghezze quando i punti da assegnare sono cento nelle quattro gare che restano da correre. Certo non sarà facile, ma il Dovi e la Ducati ci devono ancora credere: il binomio italiano è fortissimo e può ancora vincere.

 

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