In moto in salute: i traumi fratturativi della mano, lo scafoide

In moto in salute: i traumi fratturativi della mano, lo scafoide
Il dott. Lorenzo Boldrini, motociclista e Medico dello Sport presso il Centro di Riabilitazione per lo Sport Isokinetic, spiega la complessità delle fratture allo scafoide e come affrontare la riabilitazione
26 agosto 2010

Punti chiave

Cari Motociclisti,
molti di voi avranno sentito parlare dello scafoide, un “osso duro” nel senso della complessità per la sua guarigione in caso di trauma fratturativo. Ma come è fatto e dov’è esattamente quest’ossicino della mano?
Lo scafoide fa parte del carpo, ovvero di quell’insieme di ossa che si interpongono tra le ossa metacarpali delle dita verso le falangi e radio-ulna a livello del polso. All’interno del carpo lo scafoide si trova appena al di sopra del radio, dalla parte del pollice per intendersi, e può essere palpato a livello della cosiddetta “tabacchiera anatomica” ovvero in quella piccola conca che si crea portando all’esterno il pollice alla base della mano.

La complessità delle fratture dello scafoide, tra le più frequenti nella popolazione giovanile in caso di caduta con appoggio della mano al terreno con polso iper-esteso, deriva dalla sua precaria vascolarizzazione, ovvero dallo scarso apporto di sangue che ne limita le capacità di guarigione in particolare a livello della parte vicina al radio (prossimale). Le fratture dello scafoide si classificano in base alla sede: terzo prossimale, corpo dello scafoide, terzo distale e tubercolo. In base all’orientamento si differenzieranno le fratture trasversali e le fratture oblique o verticali che possono portare più frequentemente a complicazioni in termini di guarigione, tra le quali in particolare la pseudoartrosi (mancata consolidazione della frattura) e la necrosi avascolare dell’osso (ovvero la morte cellulare per mancanza di apporto di sangue a carico del frammento prossimale).

In caso di frattura composta trasversale il trattamento è di norma conservativo con immobilizzazione in apparecchio gessato per un periodo prolungato, variabile da 40 giorni fino a 3 mesi, in base al tipo di frattura ed alla sua evoluzione clinica e radiografica.
La pseudoartrosi è comunque un evento relativamente frequente, comportando oltre a dolore persistente spesso un’artrosi tra scafoide e radio e compromettendo il recupero della funzione.
Le fratture scomposte o composte verticali-oblique complete vengono di norma trattate chirurgicamente, con applicazione di una vite dopo riduzione della frattura. La scelta chirurgica può essere presa in considerazione anche in casi in cui le complicazioni di una prolungata immobilizzazione (rigidità, perdita di tono muscolare e ritardo di ripresa funzionale) a seguito del trattamento conservativo non possano essere tollerate.
 

Isokinetic, il centro dove esercita il dott. Lorenzo Boldrini
Isokinetic, il centro dove esercita il dott. Lorenzo Boldrini


A volte le fratture dello scafoide possono non essere riconosciute anche ad un esame radiografico standard a causa dell’orientamento particolare dell’osso, per cui a seguito di un trauma con dolore persistente alle manovre cliniche e nei movimenti della mano in specie a pugno chiuso è opportuno effettuare valutazioni radiografiche con proiezioni specifiche per lo scafoide ed eventuale approfondimento con tomografia computerizzata (la TAC) che permette di studiare l’osso nel dettaglio.

Il trattamento riabilitativo prevede, alla rimozione dell’apparecchio gessato dopo valutazione radiologica della guarigione ossea, mobilizzazioni assistite dolci per il recupero della funzione articolare, esercizi attivi graduali per i muscoli della mano e di funzionalità manuale (ad esempio esercizi di micromanualità o di attività specifiche manuali) frequentemente associati all’uso di un tutore nella vita quotidiana per ancora qualche settimana (da rimuovere per l’igiene personale e per gli esercizi riabilitativi). Non vanno trascurati esercizi precoci per la mobilità passiva e attiva del gomito e della spalla che a volte appaiono ridotte. Le mobilizzazioni in una seconda fase divengono più intense per ottenere il recupero più completo possibile della mobilità articolare. Utile la massoterapia drenante e decontratturante, lo scollamento delle aderenze e lo stretching graduale di tutto l’arto superiore; da valutare eventuali applicazioni di terapie fisiche alla mano (esempio magnetoterapia, ultrasuoni in acqua).

Il recupero può richiedere più di 4-5 mesi dal trauma e in alcuni casi non essere completo. Nel trattamento chirurgico l’immobilizzazione viene effettuata di norma per un periodo di circa 1 mese, permettendo in seguito un recupero più precoce della funzione.


Lorenzo Boldrini