I Racconti di Moto.it: "Polvere"

I Racconti di Moto.it: "Polvere"
Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
Ero in una minuscola stanzetta senza luce, un tetto e quattro mura basse rimaste integre dopo i bombardamenti della Gigantesca Guerra che io non ho combattuto...
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
18 ottobre 2013

Punti chiave


Ero in una minuscola stanzetta senza luce, un tetto e quattro mura basse rimaste integre dopo i bombardamenti della Gigantesca Guerra che io non ho combattuto perché ero un bimbo e vivevo tra il rifugio antiradiazioni e il seno di mia mamma fino a quando non perì pure lei e mi rimase solo il rifugio e il latte in polvere.


Polvere: mi sembrava fosse il mattone del mondo; quella dei detriti delle città sbriciolate dagli attacchi nemici, quella spessa accumulata sui pochi mobili del rifugio, quella lasciata in terra dalle persone quasi smaterializzate dalle armi elettromagnetiche e, infine, il latte. Respiravo, toccavo e mangiavo polvere. Ingurgitavo una farina bianca dolciastra mescolata all’acqua e ad ogni sorso ingoiavo l’assenza più triste di tutte. Col tempo ci abituammo a vivere una condizione di costante timore, facendo l’abitudine a vedere mucchietti di polvere prendere il posto delle cose o delle persone e questa insensibilità che aveva sostituito la paura ci permise di andare avanti, di iniziare qualcosa – qualsiasi cosa - e di vivere una vita in qualche modo regolare. Quando si capì che eravamo tutti chiamati a combattere e a difenderci ogni giorno dagli attacchi io avevo sedici anni e l’esercito mondiale fu sciolto, restò solo una direzione generale delle operazioni strategiche e alcuni presidi locali ai quali chiedere armi e supporto per la resistenza contro i nemici. La scomparsa dell’esercito fu il primo passo che permise alle persone, guerra o non guerra, di trasmettersi l’un l’altro il virus della gioia di vivere nonostante tutto, nonostante i timori, nonostante le perdite, la povertà, il cibo scarso e cattivo, nonostante la polvere.


Fu così che io iniziai a trascorrere i pomeriggi accanto a mio padre lasciato libero da impegni militari, seduto di fronte ad un oggetto che aveva comprato al mercato nero e che custodiva segretamente: un cubo, forse un piano di lavoro tridimensionale.


La principale attività di quei pomeriggi era capire come funzionasse il piccolo cubo nero che da acceso proiettava nello spazio antistante una figura tridimensionale e un enorme foglio virtuale con numeri e segni a noi incomprensibili. Sul foglio virtuale si poteva scrivere usando le dita come una penna e, quando venivano modificate le cifre o i segni, la figura tridimensionale cambiava nelle sue forme o nel suo posizionamento. Papà era convinto che quel cubo contenesse tecnologie perdute durante la Gigantesca Guerra iniziata oramai da più di seicento anni e che riscoprirle avrebbe potuto fare la sua fortuna; passava tutto il suo tempo a casa col cubo, tracciando segni, provando a caso, cercando di capire cosa fosse quell’ologramma tridimensionale e che eventuale importanza strategica avrebbe potuto avere nello sconfiggere gli invasori in orbita sulla Terra da più di sei secoli.


Gli invasori ci stavano sfiancando: da quel poco che ne sapevamo erano esseri con un’aspettativa di vita di migliaia di anni, simili a noi nelle forme, nei gusti, nei comportamenti; ci accomunava forse la disperazione ma non ci rivolgevano quasi mai messaggi o parole, solo attacchi dai quali avevamo imparato a difenderci con armi crudeli. Orbitavano intorno alla Terra facendo ogni tanto brevi incursioni, sterminando e riducendo in polvere tutto quello che capitava loro a tiro. Circola qualche foto del loro primo incontro con il Rappresentante Generale Terreste nella quale sembrano esseri ridicoli, bassi e tarchiati, con braccia corte e sottili, occhi a forma di farfalla, un sorriso falso e immutabile nel loro volto, un ghigno. Detto tra noi, non fanno paura. In suoni stentati e virtuali chiesero asilo per il loro popolo in fuga da un lontano sistema solare devastato da una nana bianca ma ospitare sulla Terra altri dodici miliardi di esseri viventi, era sinceramente improponibile e la richiesta fu respinta. La presero male, non si può negarlo. Iniziarono ad attaccare e a depredare di risorse il nostro pianeta vivendo per secoli come parassiti ai nostri danni, stabilendosi in orbita con gigantesche stazioni spaziali che spesso oscuravano il sole.


Poi, un giorno di circa seicento anni dopo, mio padre mi confidò che forse conosceva una persona che avrebbe potuto sapere come capire il cubo e il suo contenuto, un amico. Il mattino che andò ad incontrarlo fu anche l’ultimo che lo vidi mentre la sera seguente qualcuno cercò di entrare a casa nostra, dove tenevamo il cubo. Ma il cubo non c’era, io ero scappato portandolo via appena il sospetto che mio padre, rivelando ad un estraneo dell’esistenza di questo oggetto enigmatico e misterioso, avesse riposto male la sua fiducia e causato la sua scomparsa, altro che alieni.


Io e il cubo ci rifugiammo in una stanzetta minuscola e solitaria, quello che restava di una residenza di campagna nascosta in mezzo a quella che era una volta una pianura verde ma oggi diventata una distesa di polvere. Da piccolo venivo qui a giocare ed è un posto che conosco benissimo, era il mio rifugio segreto.


Mi illusi, non ci misero molto a trovarmi. Gli invasori avevano le loro spie, terresti prezzolati che vendevano informazioni per pochi denari e dove non arrivavano i traditori arrivavano i loro infallibili satelliti spia.


Ero in quella minuscola stanzetta, un tetto e quattro mura basse, e sentii un verso acuto. Nel buio due farfalle si illuminarono e il cubo si accese, proiettando nello spazio di fronte a me l’ologramma tridimensionale e il foglio virtuale. L’alieno, mi accorsi, era dall’altra parte dell’ologramma e mi guardava; lo so che sembra assurdo ma credo che il suo sguardo e la sua espressione esprimessero meraviglia. Ero spacciato, tra poco sarei stato un mucchietto di polvere grigia e non avrei mai avuto la soddisfazione di risolvere l’enigma del cubo. Invece cominciai a sentire una melodia strana, non una musica ma un delicato fraseggio sonoro senza regole ritmiche né armoniche, eppure gradevole, come un codice, una lingua, un messaggio: era l’alieno che mi parlava a modo suo, nei suoi suoni, suoni che talvolta scomparivano per riapparire appesi a frequenze ora altissime ora profonde fino a diventare inudibili per me. Quello che percepivo era il tono, quello di chi non riesce a trattenere lo stupore e la felicità e vuole comunicare al mondo – e in quel momento c’ero solo io – il proprio incanto.

Poco alla volta l’alieno calmò la sua eccitazione, prese a girare attorno alla figura tridimensionale e a manipolare i segni sul foglio virtuale gridando di soddisfazione e stupore, ogni volta più forte. Mi guardava come se fossi istantaneamente diventato un suo grande amico, non ero più un terreste indifeso da sterminare per appropriarsi delle sue risorse ed io persi ogni timore arrivando a toccarlo su un braccio. Era caldo, più caldo della nostra pelle, e liscio come i petali dei fiori più delicati.

Il mio tocco gli piacque, mi guardò e mi fece cenno di sedermi, poi iniziò a modulare la propria voce a tentativi sempre più precisi fino a quando io non sentii distintamente parlare la mia lingua da una voce femminile, o forse era quella di un bambino.

 

- Il vostro ciclo sta per chiudersi, terreste. Mi dispiace. – il tono era amichevole, le farfalle sincere.
- Questo lo pensate voi.
- No, manca poco.
- Perché? Chi sei?
- Mi chiamo – e seguì una breve serie di suoni musicali indefinibili -.
- Benvenuto, io sono Kjon.

L’invasore mi spiegò che la Terra era oramai totalmente circondata da stazioni satellite aliene, in questi ultimi cento anni l’accerchiamento era stato completato l’invasione stava per iniziare dopo averla indebolita con secoli di guerra. Gli alieni trovavano perfetto questo pianeta dalla temperatura mite, composto da un unico continente abbastanza grande per dodici miliardi di esseri che, per loro natura, non sopravvivevano al freddo intenso e prolungato. Era il pianeta perfetto. Avrebbero ricostruito la loro civiltà qui, e preso il possesso di tutto. Noi saremmo scomparsi per sempre.

In tutto questo, il cubo non era altro che un oracolo, un dispositivo che prediceva il futuro e lo anticipava. Un congegno vecchio di milioni di anni, una leggenda di cui le galassie narrano meraviglie e misteri. Ma noi, mai usciti dal nostro pianeta, non potevamo saperlo, così come non potevamo sapere che era probabilmente piombato qui con qualche asteroide chissà quante migliaia di anni fa. Il fabbricante era ignoto, qualcuno affermava che non era altro che l’Occhio di Dio in persona e unica testimonianza dell’esistenza di un essere supremo. L’alieno prese a parlarmi:


- Quella che vedi in questa immagine tridimensionale… nella mia lingua la chiamiamo con un nome che nella tua può essere tradotto con la parola “emozione”. Ma noi non ne abbiamo mai vista una, non abbiamo strade ma solo nubi e cunicoli, anzi ora non abbiamo neanche più un pianeta. Sappiamo solo che funziona solo in determinate condizioni di gravità e pressione. Le stesse che avete qui sulla Terra, Kjon.
- Ma a che serve? Due ruote, un sedile… in mezzo un motore…
- L’oracolo sta soltanto predicendo quello che accadrà, forse tra poco, forse tra molto tempo ancora. Qui, sul sedile, ci si siede, le ruote vengono fatte girare dal motore e tutto questo serve a… muoversi.
- Solo?
- Sì, ma con tanto… non lo so come dite voi ma io nella mia lingua direi “godimento”, “sesso”, “amore fisico”.
- E tutto questo non è stato ancora inventato?
- No, la vostra civiltà non ha mai avuto quest’idea. Avete inventato le macchine per la levitazione dei pesi, l’energia smaterializzante per il teletrasporto, ma l’”emozione” no. Forse al prossimo turno.
- Eh??
- Kjon, il mondo va a cicli, ora è il vostro, un giorno di voi non ci sarà né traccia né ricordo e qualcuno ricomincerà daccapo, dal punto zero. Tutto avrà un altro inizio e magari una civiltà che verrà dopo la vostra, o la nostra, inventerà “emozione”.
- Menti!
- No, altrove è già accaduto! Voi vivete meno di cento anni terresti, noi invece ne viviamo almeno cinquemila: i nostri ricordi della storia sono molto più ampi dei vostri.

 Ma io non seguivo più, d’un tratto ero rapito da “emozione” e ne guardavo le forme certo che fossero intimamente connesse con la funzione. Mi interrogavo sulla utilità di quei quattro tubi che uscivano da sotto il sedile, dalle stelle inscritte nelle ruote, dalla sagoma tagliente della parte che univa il sedile con la ruota anteriore e mi venne una voglia irrefrenabile di saperne di più, di averne una, di inventarne una io stesso e di… muovermi.

Sorrisi all’alieno, pervaso dalla perfezione dell’oggetto e dall’enigma che svelato era ancora più misterioso e appassionante di prima. Mio padre aveva visto giusto, un’invenzione come quella poteva cambiare le sorti della guerra, dare gioia, speranza, regalare brevi momenti di intensa felicità: la gente avrebbe ricominciato a sorridere, a vivere per davvero e avremmo avuto la forza di reagire all’imminente invasione degli alieni.

- Bravo Kjon, hai capito perché non abbiamo invaso la Terra prima di aver trovato l’oracolo - evidentemente l’ invasore poteva leggermi nel pensiero e ora mi puntava contro un’arma-.
- Ora avete l’oracolo…
- Non solo posso leggerti nella mente, ma ho registrato nella mia memoria tutti i tuoi pensieri e qualcuno forse un giorno li leggerà su un foglio, o forse su uno schermo…
- Mi ucciderai? – chiesi guardando l’arma rivolta verso il mio stomaco-.
- Guarda le scritte sul foglio virtuale Kjon, vuoi sapere cosa dicono? Alcune sono parole incomprensibili: F4, CB750, MHR, altre sono frasi in una lingua universale che voi non conoscete ancora, una di queste dice “mangia la mia polvere”. Lo sai cosa mangiamo noi, vero Kjon?
- …polvere.
- Augurami buon appetito.