I Racconti di Moto.it: "Passione"

I Racconti di Moto.it: "Passione"
Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
Mi tenevo il giovedì pomeriggio libero per lavare la motocicletta: andarci di olio di gomito con spugna e sapone era un po’ come fare stretching per la mente. Ora non è più così, la mia moto puzza di asfalto caldo
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
28 giugno 2013

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Mi tenevo il giovedì pomeriggio libero per lavare la motocicletta: andarci di olio di gomito con spugna e sapone era un po’ come fare stretching per la mente. Ora non è più così, la mia moto puzza di asfalto caldo e di morchie indelebili causate dalla incuria nella quale l’ho trascinata negli ultimi due anni nei quali sono accadute un sacco di cose; non ho tempo per lavarla e quando ho tempo sono stanco. È sporca, ma non la abbandono.
Chi come me nasce, cresce e - temo inevitabilmente - morirà all’ombra di un bicilindrico di grossa cubatura, crede che vendere la propria motocicletta e rimanere su due gambe, anziché su due ruote, sia un peccato mortale che merita pene crudeli irrogate dal Potentissimo come il grippaggio della lingua durante un focoso ed umido bacio, un intimo – continuo ed inspiegabile - bisogno di liberarsi durante la propria cerimonia di nozze (o altra pubblica occasione elegante) e il pediluvio coatto al diesel con finale flambè. Io ci ero andato tanto vicino. Ero arrivato a tanto così dal vendere il mio 1200 perché gli uomini e non gli eventi - perché io ho fede nel Motore Immobile ma penso pure che Lui abbia una sorta di responsabilità limitata, esaudisca un massimo di 10.000 preghiere, magari accede alle facilitazioni e ne ascolta solo 2500, inoltre i colpi di sonno capitano a tutti – mi hanno beffato e messo all’angolo; ma io non mollo: la moto non la vendo.

Dall’inizio.
L’avvenimento più bello e importante degli ultimi due anni è stato l’incontro con Stella. Prima di conoscerla la trattavo esattamente come tutte quelle persone che passano di fronte a noi e alle quali riserviamo una superficiale, gentile, educata, rispettosissima – en français - faccia di culo sorridente: ogni giorno la incrociavo e facevo mentalmente i complimenti alla sua mamma perché non avevo mai visto una donna più elegante e discreta nonché oltremodo bona che ci vorrebbero tre “b”. Poi un giorno lei, sottolineo: lei, si presenta e mi chiede con garbo come mi chiamo – per la serie: Dio c’è, ho le prove-.


Un fatto brutto degli ultimi due anni, invece, è stato restare senza lavoro. Sono un libero professionista e, fino a quando il mercato tirava, facevo anche due stipendi al mese; poi difficoltà per le aziende e anche per me che ho visto gli incarichi ridursi fino a terminare quasi del tutto. In breve, alla fine la scarsità di denaro nel conto corrente non mi ha più permesso di programmare a mente serena nemmeno un’uscita in motocicletta la domenica.

Venne quindi il momento del downsizing; casa più piccola, niente viaggetti, la colf due volte al mese anziché quattro, uscite la sera ridotte al minimo ma non abolite per non apparire un orso solitario e nel frattempo cercavo lavoro, magari anche qualcosa di temporaneo ma buona per mettere un po’ di denaro in banca. Bene. Bene un benemerito. La musica non cambiava, solo un po' di agonia in più a tenori di vita peggiori. Amici, parenti, conoscenti, amici degli amici, non una porta aperta verso un lavoro che io potessi considerare appena accettabile. Nel frattempo la mia storia con Stella diventava “ciò che avete sempre sognato dalla vita ma non avete mai osato chiedere, ne alla mamma, né a Dio”. Legati l’uno all’altra come un motore è incatenato al suo traliccio, vivevamo un idilliaco rapporto di sempre più profonda comunione. Soltanto, per non farla preoccupare troppo, non le manifestavo integralmente le mie ansie di non riuscire a trovare lavoro; evitavo di metterla a parte delle mia sempre più evidente fame di occupazione, che in questi casi significa poter fare progetti, sentirsi utile e vivere una vita normale: il che è già tanto.

Fu in quel periodo che smisi di lavare la motocicletta; senza mai prendere una decisione precisa, semplicemente non accadde più, forse perché le preoccupazioni rendevano difficile concedersi un attimo di relax o forse perché in me stava nascendo il mefistofelico tarlo che porta a dire che la moto alla fin fine non è necessaria e nei periodi di scarse risorse è un lusso costoso e cercavo di staccarmene, almeno fisicamente. Cercai di ragionare con realistica umiltà: benzina, assicurazione, bollo, manutenzione, uscite non necessarie. Feci due conti e trovai che forse avrei potuto vendere il mio 1200 e prendere una moto usata di piccola cilindrata e di miti pretese, ma il risparmio non sarebbe arrivato agli 800 euro all’anno e mi chiesi se francamente ne valesse la pena: mi convinsi che purtroppo la scelta era tenerla o cederla. Il risparmio, se volevo continuare a stare a galla, doveva essere di almeno 1500 euro e realizzai che i palliativi, gli autoinganni, le mezze misure sono patrimonio degli irrisolti. Vendere la motocicletta avrebbe consentito un prezioso mese in più all’anno di autonomia a denti stretti.

Stella amava moltissimo la mia motocicletta. Un po’ mi identificava con quel roco tossire che sgorgava dagli scarichi, un po’ le piaceva che io fossi l'unico a possedere una moto come quella: la gente chiedeva “cos'è?” con aria schifata e io, costretto a rispolverare la gentile, educata, rispettosissima faccia sorridente di cui sopra, ribattevo con frasi tipo “un prototipo della Frera” oppure, per i più simpatici: “non lo so, ma se vuoi lo scopriamo insieme nel mio garage, baby…” indifferentemente se il rompiballe fosse maschio o femmina. Di questi tempi tutti bravi a riconoscere le BMW, le Ducati e il numero 46: appena ti presenti con una moto appena fuori catalogo ti prendono per sfigato.

Una delle frasi che mi piace sentire uscire dalle mia labbra è che io non mi affeziono a niente: oggetti, luoghi, persone, passioni. Niente mi coinvolge pienamente e mi sento libero, privo di sovrastrutture ingombranti. Però vendere la motocicletta era un’idea odiosa che mi intristiva e caricava di rabbia verso questa maledettissima crisi, colpevolizzandomi delle mie incapacità e delle mie inadeguatezze che ora mi presentavano il conto; non mi dispiaceva troppo ridurre il mio tenore di vita, lo avevo già preso come un fatto sul quale magari tra qualche anno avrei riso in compagnia di Stella e del resto ero partito da zero e tornare a zero non sarebbe stata una tragedia, ma privarmi della moto era un concetto così faticoso da accettare che il sonno iniziò a mancarmi e in una delle notti ad occhi aperti mi interrogai su chi fossi e cosa rappresentasse per me la motocicletta. Possedevo un mezzo a due ruote fin dai quattordici anni, aveva un significato?
Ci sono persone cominciano a legarsi ad altre nella pubertà, si fidanzano magari sovrapponendo le fasi iniziali e finali di successive relazioni e non passano mai lunghi periodi da sole, da single; praticamente hanno sempre almeno un partner: sono gli uomini e le donne che quando poi malauguratamente si trovano con il cerino acceso di una separazione – perché niente è eterno, mi piace anche questa frase –, crollano. Non sanno più chi sono. Perché non riescono a percepire se stessi se non come parte di una coppia, qualsiasi coppia, e mancando l’altra metà si sentono sperduti, senza riferimenti e monchi. Non hanno mai imparato a restringere l’universo dentro di sé e farselo bastare.

Io sono un motociclista appassionato. Mi accorsi ad un tratto che anni sui libri di economia non avevano fatto di me un professionista, anni di faticosi studi musicali non mi avevano proibito di abbandonare i palchi e lasciare che le chitarre languissero per anni nelle loro custodie, permanenze costanti ed assidue in palestre e campi di gara non mi avevano mai convinto di essere un atleta, seppure amatoriale; maturai invece la certezza che ogni qualvolta avevo bisogno di stare in compagnia di me stesso prendevo la motocicletta e, anche a velocità ridicole, recuperavo concentrazione e risorse. Avrei pure potuto farne a meno e non mi sarei sentito sperduto come un cane in autostrada, ma venderla mi avrebbe privato di uno strumento di pace per il mondo. Privereste il mondo delle Nazioni Unite? Conclusi che non mi sentivo altro che un motociclista per il quale la moto, qualsiasi moto, era un mezzo di espressione e non un mezzo di trasporto.

Questo ragionamento cambiò ogni prospettiva: la motocicletta andava assolutamente salvata dalla sfascio nel quale la mia vita si trovava, ed eretta a simbolo di ciò che nemmeno l’indigenza avrebbe potuto levarmi: la dignità delle mie passioni e l’indifferenza ai giudizi altrui.

Mi sentii soddisfatto: dovevo immediatamente comunicare alla mia motocicletta che lei era salva, che insieme avremmo superato la crisi e in un futuro non molto lontano doppiato la boa dei 100.000 chilometri; scesi di corsa le scale per andare in garage, felice per avere trovato un punto fermo dal quale iniziare a risalire la china senza gravare sull’emotività di Stella. Passai di fronte alle cassette delle lettere alla base delle scale della palazzina dove abito e nella mia scorsi una busta verde. Mi fermai, aprii la cassetta e poi la busta: era la dichiarazione di guerra MondoVsMe.

La lettera era la notifica di una sentenza: avevo incredibilmente perso in appello una causa di danni contro una vecchia megera che pur di spillarmi quattrini era arrivata ad asserire falsità infamanti, procurare testimoni falsi, probabilmente (scoprii in seguito grazie alle amicizie “giuste”) pagare qualcuno per commettere qualche irregolarità deontologica. Avevo vinto parzialmente il primo grado, ma non mi bastava, ero dalla parte della ragione e volevo che venisse totalmente riconosciuto. La sentenza di appello inaspettatamente aveva rovesciato tutto e ora mi trovavo nella situazione di dovere pagare una somma che non avrei potuto mettere insieme nemmeno in un anno senza mangiare né bere. Puntualmente poco tempo dopo sarebbe arrivato il precetto ad ingiungermi di pagare entro dieci giorni. E chi ero, Mandrake?

Niente visita in garage alla moto. Nessuna buona notizia. Mi ritirai a riflettere, stordito. Chiamò Stella che sentendomi strano si precipitò a casa, le raccontai le ultime notizie e le dissi: “in qualche modo farò”, un’altra di quelle frasi lapidarie che mi piace proferire.

Demoralizzato e umiliato, ricordai le mie riflessioni, presi le chiavi delle motocicletta e andai a fare un giro anche se era un gelido sabato di gennaio; dopo trenta chilometri percorsi ostinatamente ad andatura incerta e variabile, mi venne in mente una via d’uscita e feci un paio di telefonate, ad amici. Tutto bene.
Perché opporsi al destino che desidera spingerti ad ogni costo verso un’esperienza? Mi lasciai trasportare dal moto turbinoso degli eventi e mi ricollocai. Le mie giornate divennero pienissime e lunghe. La migliore facciata di me, quella che un po’ per pudore e un po’ per la vergogna di essere mio malgrado in quella situazione difficile presentavo a tutti, iniziava ogni mattina alle nove a scrivere per aiutare i laureandi, dava lezioni private, teneva i contatti con il lavoro di consulenza tanto per agganciare il treno quando sarebbe ripartito; a cena mi vedevo con Stella che viveva rassicurata e serena le mie vicissitudini, mi incoraggiava, mi supportava con l’animo e con i fatti, rinunciando a molto pur di starmi accanto e senza chiedere più di quello che potevo permettermi; non vivevamo assieme e a tarda sera lei andava via, quando già io cascavo di sonno davanti alla tivù. Arrivata a casa sua, mi chiamava per augurarmi la buonanotte, io la auguravo a lei e posavo il telefono, mi sdraiavo sul letto e puntavo la sveglia a mezzanotte. A mezzanotte e mezza ero al mercato ittico. Ne uscivo alle sette, dopo avere scaricato e spostato centinaia di scatoloni di pesce e ghiaccio, con sessanta euro in tasca. Alle volte gli amici giusti fanno comodo. Lavorare in nero per un grossista del pesce faceva bene a lui e faceva bene a me. Tornavo alle sette e trenta a casa per una doccia caldissima e profumata, condita da breve pisolino, e poi a scrivere per i tesisti, dare lezioni, telefonare, socializzare. Lavare la moto era un’attività che non mi passava nemmeno per l’anticamera del cervello, ero stanchissimo ad ogni ora e usavo la moto solo per brevi spostamenti. Dimagrii e la faccia mi si incavò, evidenziando i miei basettoni alla “Rocket”Ron.

Stella, come tutti i miei parenti e tutti i miei amici, non sospettava che io vivessi una doppia vita, sopportando le mie frequenti crisi di spossatezza e tollerando che la sera io mi sentissi talmente scarico da non riuscire a fare altro che cenare con ingordigia. Era onestamente una fatica pazzesca, anche mentale, riuscire a separare la mia vita in due e celarne una parte alla donna che amavo. La vera forza era lei, che non faceva domande, che proponeva invece di pretendere, che restava ottimista, che continuava a credere che col mio lavoro diurno sarei riuscito a rimettere tutto a posto e solo quando era veramente troppo si innervosiva. In poco più di un anno, lavorando segretamente al mercato ittico sei notti su sette alla settimana, uscii dall’emergenza economica. Poi non cambiò molto. Il lavoro di consulente non ripartì ma riuscii lo stesso a pagare la vecchia megera ottenendo dal suo avvocato – una signora che mi fece intendere che lei non avrebbe agito oltre, onestamente imbarazzata dall’aggressività immotivata e avida della sua rapace cliente – una dilazione e tutto tornò come prima di trovare la busta verde.

Avevo tutto: la moto, Stella, me stesso. Mancavano solo i progetti, fermati da una mancanza di denaro che non sapevo quando avrebbe cambiato di segno. Ma quanti dei progetti che abbiamo in testa mettiamo poi in atto veramente? Forse si soffre più per la mancata e coatta possibilità di sognare che per la irrealizzabilità dei sogni stessi e si dimentica chi si è veramente, consumati e imbecilliti dal desiderio di essere qualcos’altro. Io sono certamente un motociclista, non altro, Stella mi vuole per quello che sono e anche volendo non potrei cambiare. Va bene così.

Cautamente, all’alba di un giorno di aprile, scesi le scale per dire alla mia motocicletta le cose che avevo in mente di dirle un anno prima. Lo so che è stupido, ma ne avevo bisogno. Era la prima mattina da quando avevo abbandonato il lavoro al mercato ittico, avevo pure dormito bene.

Passai di fronte alla cassetta delle lettere, vuota. Nel garage misi finalmente a parte il mio bicilindrico dello scampato pericolo accarezzandone il serbatoio e decisi di fare una sorpresa a Stella, piombando a casa sua con un casco in più. Neanche il tempo di portare la temperatura del motore a 78° e Lei mi accolse in vestaglietta e babbucce con la testa di Minnie, assonnata e incredula che alle sette e trenta fossi lì a proporle una gita, ma non se lo fece ripetere: si vestì e salì in motocicletta con grazia da ballerina e un sorriso che non le avevo mai visto prima in volto.

Dove andiamo? – mi chiese.
Mare o montagna? – risposi.
…Montagna.
Giusto! Due curve e poi scendiamo fino al mare di CapoRosso a mangiare pesce in qualche trattoria marinara, ok?
Tesoro, non so tu, ma io sono veramente stanca di sentire odore di pesce – disse accarezzandomi le spalle.
Lei c’era; era sempre stata lì, aveva compreso tutto. Certi odori è difficile levarseli di dosso.
Arrossii, feci finta di non avere sentito e misi la prima, al primo incrocio sbagliai strada, poi sbagliai pure gli altri, fino a quando non arrivai a casa mia e ringraziai il destino che la donna più bella del mondo fosse anche la più appassionata.