Dakar 2015. Italiani. Camelia Liparoti

Dakar 2015. Italiani. Camelia Liparoti
Piero Batini
  • di Piero Batini
Sei Dakar, a parte la prima, portate a termine. Sei Titoli di Campionessa del Mondo Rallye-Raid. Momenti difficili, tanti. Impossibili, nessuno. Ma anche Camelia ha rischiato nel Salar | P. Batini
  • Piero Batini
  • di Piero Batini
27 gennaio 2015

Di Camelia Liparoti sappiamo già molto. Che è italiana, ma anche francese, che è di origine livornese, ma che vive a Chamonix, per esempio. Che è giornalista e fotografa, che ha scritto e fotografato di paesi e di terre lontane e meravigliose, che ha sciato, bene, e che infine ha scelto l’avventura del Quad, meglio. E poi che è sei volte Campione del Mondo Rally-Raid, e che ha appena concluso la sua sesta Dakar, portata a compimento non ostante il grande rischio Salar di Uyuni.

Partiamo proprio da lì, dal Salar che pochi, pochissimi hanno “digerito”. Hai rischiato di… arrenderti?

Camelia Liparoti. «No, non ho rischiato di arrendermi, quello non lo farei mai, ma ho rischiato di non riuscire a finire la Tappa, o di finirla oltre il tempo massimo concesso. L’attraversamento del Salar di Uyuni non si doveva fare. Anche Marc Coma, che aveva tutto l’interesse ad andare avanti e a fare più chilometri che poteva per cercare di riprendere Barreda (allora Marc era secondo) si è fatto interprete della voce di gran parte dei piloti che non ritenevano giusto partire in quella speciale. E interprete del suo modo di pensare, di valutare quella che non era più una tappa da Dakar. Naturalmente i piloti Honda, e Joan Barreda, l’hanno fatto anche loro. Nessuno era d’accordo. Ma l’organizzazione aveva ben altro in mente, e non ha ascoltato. Io sono rimasta per cinque ore dentro il Salar, dentro il lago con il quad che non voleva saperne di ripartire, con l’impianto elettrico danneggiato dal sale e dall’acqua salata. Poi il Quad è ripartito e ne sono uscita, ma alle otto di sera la prospettiva non era tanto migliore. 150 chilometri a 5.000 metri di altitudine, e per finire le Dune di Iquique da attraversare per raggiungere il bivacco».

Il quad sulle dune dell'Atacama
Il quad sulle dune dell'Atacama

Spiega perché quella tappa non si doveva fare, per favore.

«Non si doveva fare perché non era più quello che gli organizzatori, e anche noi, avevamo immaginato. Non più l’esperienza grandiosa della piatta, magnifica distesa ricoperta di una crosta di sale, immaginate Bonneville, ma la molto meno invitante, intrigante distesa… di acqua salata di un lago non più in secca. Non si doveva fare perché era chiaro che le moto avrebbero sofferto, ed era chiaro che avremmo sofferto noi Piloti dopo che avevamo già passato una giornata infernale nella tempesta di pioggia il giorno prima, che avevamo ascoltato piovere per tutta la notte e che siamo ripartiti con gli abiti inzuppati d’acqua e la temperatura dell’inverno boliviano. Non si doveva fare perché avremmo potuto effettuare la partenza e “salvare” il contenuto spettacolare dell’evento, ma poi avremmo potuto riprendere su un altro percorso, che c’era già perché era quello che abbiamo utilizzato lo scorso anno contornando il Salar».

È lì che hai pensato di arrenderti?

«No, per la verità l’idea di arrendermi non mi ha mai neanche sfiorato la mente. Ma non è che non ci ho pensato. Man mano che le ore passavano e che la distanza dall’arrivo rimaneva molto alta, è subentrata una specie di lucida delusione, il pensiero di non riuscire a farcela con il tempo che avevo a disposizione. Di arrivare al bivacco non più prima o poi, ma solo inesorabilmente… poi. Le dune di Iquique di notte, con tracce dappertutto e la sabbia scavata dal passaggio degli altri motociclisti e delle auto, beh, non le raccomando a nessuno. Non erano molti chilometri, e non impossibili a… cose normali, ma in quelle condizioni sono stati veramente un inferno».

E come è finita?

«Come è finita? È finita bene, ma non con molto margine. Sono arrivata al bivacco di Iquique alle quattro e mezzo di notte, o del mattino, a quel punto sei già nella giornata successiva della Dakar. Il tempo di sistemare alla meglio il quad, mangiare qualcosa, riposare ancora vestita e di ripresentarmi al via della tappa successiva. Il programma? Niente di invitante, una “vecchia conoscenza”, 450 chilometri di fesh-fesh fino a Calama. Ma sono ripartita, e pian piano ho recuperato il mio tempo e la mia regolarità di marcia».

E come si riprende la “tabella di marcia” dopo che si è appena corso il rischio di vanificare un anno di preparazione e di lavoro?

«Quando si “esce” da una situazione come quella, si deve ringraziare la forza mentale che ti ha permesso di superare in quel modo il momento e un limite che forse non conoscevi, o che non avevi preso seriamente in considerazione. Con le stessa forza d’animo si è già oltre e si prosegue contenti di non essersi arresi».

Camelia in azione
Camelia in azione

Episodi come questo ti fanno ripensare alla Dakar, a metterla in discussione?

«Mi ha fatto pensare questa Dakar, che conoscevo in gran parte e chi mi aspettavo largamente più nuova, soprattutto per il fatto che era l’ultima di David Castera, il direttore sportivo che è stato prima ancora Pilota e “dakariano”, e che ritenevo volesse lasciare un ricordo di tutt’altra natura. Ma la Dakar non si mette in discussione. Ora aspetto di sapere cosa saprà propormi l’anno prossimo, quali vere novità, e intanto ricomincerò a prepararmi, a migliorare la mia struttura per ripresentarmi al via l’anno prossimo, per la mia settima Dakar».

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