Dakar 2015. Franco Picco: L’anno prossimo ritorno!

Dakar 2015. Franco Picco: L’anno prossimo ritorno!
Piero Batini
  • di Piero Batini
Unica assistenza italiana “ufficiale” per le moto, l’organizzazione di Franco Picco perde i suoi due piloti ma resta a disposizione. Momento difficile, Dakar dura, non resta che…|P.Batini
  • Piero Batini
  • di Piero Batini
12 gennaio 2015

Punti chiave

Iquique, 10 Gennaio 2015. Bisogna premettere che quando Franco Picco correva la Dakar io ero uno dei suoi tifosi. E lo sono sempre stato, anche quando, vincente dappertutto, non riuscì a vincere la Dakar e si dovette accontentare dell’ennesimo secondo posto. Eravamo arrabbiati, io e un grande amico, per perché ce l’aveva in mano, ma nisba, no way, nada, vinceva quello o quell’altro. Eravamo arrabbiati con Franco a tal punto che il mio amico, raccolto un bastardino per strada, brutto come il buio, piccolo come un bassotto e agile come un boxer, lo chiamò “Picco”.

In realtà Franco è uno dei simboli della Dakar degli italiani, perché ha continuato a farne in auto, è tornato con i camion, a fare l’assistente e di nuovo in moto. In tutte le forme possibili, è sempre rimasto legato alla Dakar. Quest’anno ancora con un suo camion di assistenza a “proteggere” la Dakar di Paolo Sabatucci e di Wessel Bosnam. Sfortunatissimo l’avvocato romano, fuori dopo pochi giorni, per Bosnam è iniziato il calvario, e per Franco Picco di conseguenza.

Racconta Franco, prego.

«Non corro più, ma l’aria della Dakar è sempre la mia preferita. Ho continuato ad esserci, vi ho mantenuto la mia esperienza. L’ho rifatta in moto e adesso la faccio per fornire assistenza»

 

L’unica assistenza italiana?

«Sì, l’unica totalmente made in italy. L’unica per le moto, si intende»

 

E come funziona?

«Noi mettiamo tutto quello che serve a disposizione dei piloti che vogliono partecipare. Li accudiamo dal giorno zero e li seguiamo per tutta la Dakar cercando di portare in alto il loro limite. Certo, sono privati, ed è durissima di questi tempi per i privati»

 

Come mai solo due piloti assistiti?

«Credo che alla base ci sia la crisi, e quando c’è la crisi la moneta influisce sul modo di pensare e di prendere le decisioni. Talvolta si è costretti a non pensare che a quella. Evidentemente i nostri costi sono più elevati di altri, e i piloti scelgono al ribasso. Oppure qualcuno offre assistenze a prezzi stracciati e poi fornisce un servizio di basso livello o, gettando fumo negli occhi, dopo aggiunge costi “in corso d’opera” »

 

Come è andata ai tuoi piloti?

«Paolo Sabatucci è stato sfortunato, e un po’ forse non è riuscito a darmi retta. A volte si pensa che andando piano si abbia più probabilità di finire la Dakar, ma c’è un limite oltre il quale è impossibile andare. Piano va bene, ma se questo significa arrivare tardissimo, rischiare il fuori tempo massimo o guidare di notte, allora tutto diventa molto più difficile, e la stanchezza si somma giorno dopo giorno, non c’è più modo di recuperare ed è l’inizio della catastrofe»

 

Il “tuo” sudafricano ne è un esempio

«Sì, perfettamente. In più Wessel Bosman è un po’ matto, cocciuto, e non ha esperienza»

 

Come significa, allora, seguirlo e assisterlo?

«Significa fornirgli tutta l’assistenza “tradizionale”, meccanica, logistica, morale, e quando la sua corsa diventa critica non indugiare ad andare oltre. Wessel ha finito due tappe a notte fonda. Alla fine della prima volevano metterlo fuori gara perché ritenevano che fosse troppo stanco. Allora sono andato dagli organizzatori, ho spiegato loro che era il suo “stile”, ho insistito e ho un po’ approfittato del fatto che conosco tutti e che tutti mi conoscono o si ricordano di me. Talvolta si tratta di sforzarsi di “leggere” il regolamento, insistere sui punti dubbi, trovare una soluzione. Così sono riuscito a farlo ripartire. Il giorno successivo stessa storia: stava arrivando tardi, tardissimo. I miei amici organizzatori sono venuti a cercarmi per dirmi che era ora che Wessel si fermasse, che volevano vedere come stava prima di farlo ripartire la mattina dopo. Lì, per la verità ho giocato un po’ sull’equivoco. L’ho aiutato a ripartire e, dopo un po’ quando i commissari sono venuti a cercarlo per controllarne lo stato di efficienza lui era già partito. Ho detto loro che credevo fossero loro a venire, non noi ad andare da loro. L’hanno bevuta, e un altro giorno è andato. Poi è arrivata l’ultima tappa prima del riposo. Stava facendo tardi anche quel giorno, allora per telefono l’ho consigliato di fermarsi, di dormire nel deserto e ripartire la mattina del giorno di riposo, visto che il controllo di arrivo resta aperto per buona parte del giorno. Ma lui è andato avanti, ha attraversato le dune di notte e a metà del giorno dopo ha sbagliato pista e si è presentato non lontano da Iquique su una duna verticale. Non si è dato per vinto, è sceso da una parete di sabbia lunga e difficilissima, ma con quel tragitto extra ha saltato dei waypoint. A quel punto non c’è stato niente da fare. È stato un eroe, ma era out»

 

E adesso che fai?

«Non so ancora, forse resto per vedere se posso dare una mano a qualcuno»

 

Insomma è una vita dura, almeno quanto quella del pilota?

«Per certi versi è molto più dura. Ti senti coinvolto in situazioni che non puoi controllare personalmente. Correre è un’altra cosa. Anzi, sai che ti dico? Ho fatto un “tagliando” completo alle anche, sono fisicamente a posto. Compio sessant’anni a ottobre prossimo e partecipo alla prossima Dakar, in moto, naturalmente, con la mia struttura e gli amici che vorranno seguirmi!»

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