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La MotoGP è in Ungheria per disputare il quattordicesimo round della stagione 2025 (qui gli orari del weekend) e la pista è il Balaton Park da 4,115 km di lunghezza, da non confondere con il Balaton Ring che fu realizzato nel 2008: oggi è abbandonato e dista un centinaio di chilometri. Sul Balaton Park ha corso da poco, per la prima volta, la SBK.
Secondo i tecnici Brembo che lavorano a stretto contatto con tutti i piloti della MotoGP, il Balaton Park Circuit rientra nella categoria dei circuiti mediamente impegnativi per i freni. In una scala da 1 a 6 presenta un indice di difficoltà di 3 con otto frenate al giro per complessivi 31 secondi di impiego dell’impianto frenante: tre frenate sono della categoria High, due Medium e tre Light. Solamente in due punti della pista però gli spazi di frenata superano gli 185 metri.
La curva più dura del Balaton Park Circuit per l’impianto frenante è la 5: le MotoGP passano da 282 km/h a 72 km/h in 5,2 secondi in cui percorrono 226 metri mentre i piloti esercitano un carico sulla leva del freno di 6 kg.
La decelerazione è di 1,5 g, la pressione del liquido freno Brembo raggiunge i 12,8 bar e la temperatura dei dischi in carbonio arriva a 590 gradi centigradi.
L’ultima edizione del GP Ungheria è passata alla storia per il successo della Cagiva, la prima del Costruttore italiano nel Mondiale della classe 500. Era il 12 luglio 1992, Eddie Lawson si era qualificato con il settimo tempo e il d.s. Giacomo Agostini lo convinse ad usare una slick dietro e una intermedia davanti. L’asfalto era bagnato, le previsioni meteo erano buone, nei primi giri Lawson finì in coda ma con il progressivo asciugarsi della traiettoria lo statunitense rimontò come una furia e vinse con 14 secondi di vantaggio.
Quella Cagiva C592 del 1992 disponeva di impianto frenante Brembo, come tutte le Cagiva che hanno gareggiato nel mondiale. Allora impiegava all’anteriore un doppio disco in carbonio con diametro di 320 mm (talvolta di 290 mm) su cui agivano pinze a 4 pistoncini, e al posteriore un disco singolo da 210 mm abbinato ad una pinza a 2 pistoncini. Lawson fu molto cauto nei primi giri perché il carbonio dell’epoca entrava più lentamente in temperatura dell’attuale.
Fino a dieci anni fa, in caso di pioggia, i piloti della MotoGP utilizzavano i dischi in acciaio perché il carbonio garantisce un buon coefficiente d’attrito solo se raggiunge almeno i 250 °C. Questo valore risultava irraggiungibile con le precipitazioni, ma di recente, complici le coperture in carbonio dei freni e i passi in avanti sui materiali, quasi tutti ricorrono ai dischi in carbonio anche con la pioggia. L’acciaio infatti soffre le alte temperature, lamenta problemi di coppia residua ed essendo più pesante peggiora il comportamento dinamico della moto, sia agendo negativamente sulle sospensioni che riducendo la potenza scaricabile a terra.