Intervista a Ricky Johnson: "Il mio sogno continua"

Intervista a Ricky Johnson: "Il mio sogno continua"
Massimo Zanzani
E' stato il pilota più figo del cross USA. Ricky ci racconta le sue vittorie con la Honda, la passione per le ragazze, la volta che attraversò un campo da golf in moto. E il suo sogno: rivedere le 250 2t al posto delle 450 | Massimo Zanzani
9 dicembre 2013

Intervista a Ricky Johnson


Alto, biondo, bello, californiano: ce lo ricordiamo così nell’immensa vasca idromassaggio della splendida villa situata nel cuore della SoCal, mentre lo intervistavamo quando era in corsa per aggiudicarsi i sette titoli nazionali tra supercross e motocross che negli anni ’80 hanno dato lustro alla sua carriera.
Grazie alla bravura di Pino Mangano e Bruno Morselli che sono riusciti a schierarlo al via della favolosa Transborgaro, Ricky Johnson è ritornato in Italia con intatto tutto il suo carisma di pilota e di uomo, e Moto.it non si è fatto perdere l’occasione di ripercorrere alcuni temi che lo hanno fatto diventare uno dei più grandi piloti della storia del motocross.

«Ho iniziato a girare con una minicross all’età di tre anni seguendo le orme di mia sorella che aveva quattro anni più di me – racconta il californiano di El Cajon, la località californiana situata nei pressi di San Diego che negli anni ‘80 era il cuore del cross statunitense - io piangevo sempre perché volevo salirci finché un giorno mio padre non ne poteva più e l'ha comprata anche a me. Aveva le rotelle e la guidavo su e giù per la strada, come quando si impara ad andare in bici, da allora nacque l'amore che mi fece capire che la passione della mia vita era guidare una moto da fuoristrada».

Lo avevi capito già a quell'età?

«Si, non volevo altro che stare in moto, anche quando cadevo, mi facevo male e piangevo volevo risalirci cercando dei modi per non farmi male ancora perché trovavo molto divertente andare veloce. La prima gara l’ho fatta a sette anni, ma ci sono volute un paio di stagioni prima di vincere il campionato della categoria Expert. A dodici anni non volevo più stare nelle minimoto perché non era un bell'ambiente, i genitori litigavano e imbrogliavano, così un giorno Broc Glover, mio vicino e buon amico, mi fece provare la sua Yamaha 125 preparata da mio padre, mi piaceva guidare le moto più grandi, con più potenza, anche se ero piuttosto piccolo. 

A dodici anni non volevo più stare nelle minimoto perché non era un bell'ambiente, i genitori litigavano e imbrogliavano

A sedici anni passai da principiante a professionista correndo nel National supportato dalla Yamaha e aggiudicandomi il Rookie of the Year e l'ultima manche della stagione.
Nell’82 sono arrivato secondo, ho rotto la ruota davanti e ho quasi vinto il campionato 250, mentre quello dopo è stato un brutto anno perché mi sono lussato un'anca e rotto la clavicola.
Nell’84 ho vinto il National 250, il Trofeo e il Motocross delle Nazioni, e anche il mio primo Supercross oltre ad averne vinti altri due. L’85 è stato un anno mediocre, ho concluso quinto sia nel supercross che nell'outdoor, ma mi sono rifatto nell’86 diventando campione National 250 e supercross e arrivando secondo al Nazioni. Nell’87 ho vinto i National 250 e 500, nell’88 il supercross e la 500 motocross arrivando secondo nella 250 per poi arrivare all’89 quando la frattura del polso ha praticamente chiuso la mia carriera».

Come sei diventato un fuoriclasse?
«Seguendo il buon esempio di Broc Glover in quanto aveva successo perché si allenava e lavorava duramente, quando hai vicino un pilota straordinario come era lui puoi vedere cosa fa, imitarlo e cercare di fare meglio. Credo anche di aver preso dai miei genitori perché odio perdere, mi fa innervosire e sono sempre stato severo con me stesso. E mi piace battagliare: ho lottato con campioni come Jeff Ward, Ron Lechien, David Bailey, Bob Hannah, ma alla fine anche se vincere è bello la cosa più importante è correre con la grinta».

Serve la capacità di sopportare il dolore, i polmoni in fiamme, sbattere la faccia sui sassi, correre con le dita rotte, con un ginocchio che fa male: devi essere tosto per essere un campione


Ma cosa serve per essere un campione?
«Bisogna avere l'abilità di adattarsi, se qualcosa va male, cambia. Se sei partito male cerchi di recuperare, se la moto inizia a fare un brutto rumore, cerchi di arrivare alla fine, se hai una brutta giornata ti adegui, se ce l’hai buona distruggi tutti. Serve anche la capacità di sopportare il dolore, i polmoni in fiamme, sbattere la faccia sui sassi, correre con le dita rotte, con un ginocchio che fa male: devi essere tosto per essere un campione».


Quale è la gara più combattuta che ti ricordi?

«In generale quelle fatte con Bailey. Una delle più dure è stata quella del National 500 di Axton, in Virginia, sulla sua pista: da qualsiasi parte mi infilassi lui non faceva errori e pur rimanendogli addosso tutto il tempo non c’è stato verso di stargli davanti. Abbiamo lottato anche ad Anaheim, ma quella settimana ero stato malato e non ero in forma, mi arresi all'ultimo giro e servì da stimolo per la mia motivazione, per continuare a dare il massimo. Ricordo anche una fantastica sfida con Ward che nessuno ha mai visto. Era il periodo degli allenamenti per il campionato 500, arrivai al Flower Track di Carlsbad e vidi Jeff da solo nel parcheggio che si sa vestendo. Mi piazzai anch’io e mi vestii più velocemente possibile per iniziare a girare assieme a lui. Lui entrò in pista e feci la stessa cosa separato da mezza pista di distanza con un punto contraddistinto da una salita e una discesa in cui potevamo vederci. A quel punto è scattato la lotta per chi guadagnava terreno: ad ogni giro tiravamo sempre di più perché nessuno di noi voleva mollare, lui guadagnava un po' di vantaggio e il giro dopo guadagnavo io, abbiamo girato quasi un'ora più veloci che potevamo senza che nessuno si fermasse per non darla vinta all’altro fino a quando lui finì la benzina e tornò ai box spingendo la moto. Lo vidi seduto che mi guardava, e continuai a girare come un pazzo finché prese su il pick-up e se n'è andò».

Ricky Johnson insieme a Martino Bianchi
Ricky Johnson insieme a Martino Bianchi

A metà degli anni ottanta eravate almeno sei o sette piloti a essere fortissimi, si può dire dire che sia stato il miglior momento del motocross negli USA?
«In quel periodo c'erano diversi avversari che se gli stavi davanti erano più motivati a correre. E’ stato un periodo di cambiamenti, grazie anche alle moto che miglioravano sempre più. Negli anni ‘70 non potevi guidare una moto a tutto gas perché erano piuttosto fragili, per cui anche campioni come Robert, De Coster, De Soto dovevano darsi una regolata. Negli anni ’80 iniziavamo a vedere moto più performanti e meno fragili, e sono arrivati dei piloti che sapevano di poter arrivare al successo se si allenavano duramente. Da Glover ad Hannah a Bell, molti lavoravano moltissimo altri invece come Lechien non si allenava molto, ma era velocissimi perché dotati di un talento naturale, oltre ai piloti europei come Thorpe, Malherbe, Geboers che facevano la differenza. Tutti poi provavano nuove parti e accessori per essere più veloci, anche se ora pneumatici e sospensioni sono migliori, se si pensa alle nostre quando arrivavamo in curva ci ribaltavamo perché la ruota si piegava e nelle buche non sapevi mai se le ruote avrebbero resistito. Ma era il tempo in cui uomini forti ed aggressivi potevano avere successo in questo sport, adesso ci sono molte soluzioni tecnologiche ma vedo solo un paio di piloti tosti perché molti invece di allenarsi vanno alle feste, anche se non voglio dire che ce ne sono comunque tanti bravi lo stesso».

Quale era il tuo punto di forza?
«Le frenate, potevo arrivare in curva più veloce di chiunque. E avevo anche la capacità di adattarmi ai cambiamenti della pista, non so leggere bene sui libri ma so interpretare molto bene il terreno. Ho imparato guardando con attenzione e memorizzando bene, in un percorso della Baja di 500 chilometri sono in grado di dirti le traiettorie di tutto il tracciato».

Mi distraevo facilmente: ragazze, surf, qualsiasi cosa che mi facesse divertire. Così la mia forza era la mia ”sindrome da deficit di attenzione e iperattività” che era però anche la mia debolezza


E il tuo punto debole?
«Mi distraevo facilmente: ragazze, surf, qualsiasi cosa che mi facesse divertire. Così la mia forza era la mia ”sindrome da deficit di attenzione e iperattività” che era però anche la mia debolezza».


Il pilota che ti ha fatto arrabbiare di più?
«Bailey e Ward sono quelli che mi hanno motivato di più, quelli che invece mi hanno fatto irritare di più sono stati Hannah per la sua arroganza e Lechien per la sua scorrettezza, se avesse potuto romperti una gamba non si sarebbe tirato indietro e ho dovuto imparare a non dargli mai l'occasione di venirmi addosso perché l'avrebbe fatto senza problemi».

La moto migliore che hai mai avuto?
«Quella che non mai avuto la possibilità di guidare in gara: la CR 250 ufficiale dell’85 che la Honda mi fece provare di nascosto ma che poi non vidi più. Era una moto incredibile, potente, scorrevole, equilibrata, leggera. Mi ricordo che ci salii sopra, sistemai il manubrio e al primo giro girai quattro secondi in meno della mia moto, era incredibile».

Quella che ti è piaciuta meno?
«La Yamaha ufficiale dell’83, non avevo una posizione di guida comoda, era molto difficile da guidare, non curvava bene e anche se era leggera e aveva un bell'aspetto non era adatta a me, non mi ci sono mai trovato bene e il risultato fu un’anca lussata e una clavicola fratturata».

Qual è l'aspetto del tuo lavoro che hai amato di più?
«Girare in pista, anche se odiavo il momento prima della gara perché sentivo molto la tensione. Se hai visto il film Rush, la storia di Niki Lauda e James Hunt, prima della gara il protagonista vomitava sempre, io non arrivavo a quel punto ma ci andavo molto vicino perché avevo paura di sbagliare. Appena il cancello scendeva però mi passava tutto».

Ricky Johnson in gara negli anni '80
Ricky Johnson in gara negli anni '80



La gente crede che i campioni per andare così forte non pensino a niente.
«Invece io ho avuto sempre paura di sbagliare e di deludere la Casa produttrice, il mio team, i meccanici, i miei amici, i miei sponsor. Non volevo che dicessero che avevo fallito, che ero stanco, che avevo perso, volevo renderli fieri di me e psicologicamente questo peso era enorme».

C'è una vittoria tra le tante che preferisci?
«Quella che mi ha dato più soddisfazione è stata l’ultima manche del National 125 di Carlsbad nell’81. Correvo da privato sulla pista di casa, e mi ricordo che giravo e vedevo tutti fare il tifo per me, la mia famiglia, i miei amici, e quando tagliai il traguardo pensai: mi merito di proprio di essere qui, ho raggiunto e sorpassato Johnny O'Mara, non cin posso credere!».

L'episodio più divertente?
«Ce ne sono tantissimi, ad esempio in una gara a Saddleback ero quasi arrivato alla fine e mi sembrò di vedere la bandiera a scacchi, per cui dopo il traguardo uscii dalla pista ma poi mi accorsi che mi urlavano di tornare indietro perché era una bandiera bianca per cui rientrai per finire la gara. Un'altra volta stavo correndo con Ward e pensando di avergli dato un bel distacco mi rilassai un po', peccato che così all'ultima curva mi sorpassò e mio padre si arrabbiò tantissimo urlandomi che non dovevo mai e poi mai più mollare sino alla fine. Invece una volta in un GP in Belgio, Vromans e Lackey al primo giro sono andati dalla parte sbagliata seguiti da Thorpe, e stavo quasi per cascarci anch'io e mi divertii molto pensando a loro. Anche al Supercross di Bercy sono successe tante cose divertenti, sia in gara che fuori. Ad esempio la prima volta che venni in Francia non sapevo che quando qualcuno ti fischia non è per incitarti ma per darti contro, così quando in qualifica mi capitò di urtare Jacky Vimond e sentii levarsi un coro di fischi pensai che facessero il tifo per me ma poi vidi un commissario che mi urlava dietro e compresi che i fischi non erano proprio una bella cosa».

Il tuo più grande errore?
«Probabilmente quello di Castle Rock, nel Colorado, nell’82. In campionato avevo 25 punti di vantaggio, stavo sorpassando Kenny Kylon che correva col supporto della Honda ma feci un salto troppo lungo e all’atterraggio ruppi la ruota, così dovetti spingere fuori la moto a braccia. Mi cambiarono la ruota e rientrai al 21° posto quando Donny Hansen era passato in testa seguito da Glover col quale stava facendo una battaglia molto dura, li raggiunsi ma tagliammo il traguardo secondo e terzo per cui Donny vinse il campionato per due punti. Non ci potevo credere, aver buttato via tutto in una manche da 45 minuti».

E la più grande soddisfazione?
«Ne ho avute tante: essere in grado di correre con i migliori piloti del mondo, e qualche volta batterli, partecipare al Motocross delle Nazioni con i colori degli Usa, correre a Las Vegas con 41 gradi e sorpassare Ward a due giri dalla fine, vincere il GP di Carlsbad che era quello di casa. Ed essere riconosciuto tra quelli che sono ritenuti tra i grandi del motocross».

Il contratto più ricco che hai avuto?
«Quando ho iniziato a correre con Honda era già 125.000 dollari, poi è salito ogni anno per via dei campionati che ho vinto, ed è arrivato a 350.000 dollari all'anno per il contratto con Honda nell'88 e nell'89. Per quei tempi erano un sacco di soldi, anche perché in più se vincevi i campionati c’erano altri 100.000 dollari per ognuno. Ma di soldi ne ho anche spesi molti, tra barche, macchine...».

Hai viaggiato molto in tutto il mondo, qual è il Paese che ti è piaciuto di più?
«Un po’ tutti. Ad esempio amo l'Italia per il cibo e la passione della gente, non ci sono menate con gli italiani, sono molto sinceri e se non gli piaci ti mandano quel paese… Ma se gli vai a genio sei trattato come un Re. Al tempo del Fast Cross la famiglia Saporiti mi ospitava a casa sua, la mamma mi prepara quello che volevo per colazione, uova, pane tostato, marmellata, addirittura in frigorifero c’era una confezione di ketchup solo per me. Mi è piaciuta anche Parigi perché era così bizzarra e imprevedibile, con molta storia, camminare negli Champs Elisée, salire sulla Torre Eiffel. Così come mi è piaciuto anche andare in Belgio e Olanda e visitare i castelli antichi. Anche il Giappone è stato bellissimo perché anche lì percepisci la storia, gli abitanti sono educati e gli spettatori molto rispettosi, ti vengono vicino con discrezione e quando vengono a chiederti l'autografo ti portano un regalo. In America invece i fans pretendono il casco, la maglia, qualsiasi cosa, sono orribili».

E il Paese che non ti è piaciuto affatto?
«Mi sono piaciuti tutti, ogni posto ha qualcosa di speciale, bisogna essere aperti. E' un'altra cosa che ho imparato da Broc: devi essere pronto ad accettare le tradizioni di tutti anche se avere una mentalità aperta, anche se quando sei giovane è difficile. Con il cibo in Giappone, per esempio, ti danno il polipo su uno spiedino e mangiano altre cose strane, ma io seguo il detto che quando sei a Roma comportati da romano. Potrei dire che quando correvo non mi piaceva lo stato di New York, ero un ragazzo della California che andava sulla costa Est e c'erano continuamente dei tifosi che volevano fare a pugni, fan di Ward o Lechien ai quali se non piacevi ti insultavano. E io mi scoccio se non piaccio a qualcuno, d’altronde che cosa ho fatto di male?».

Anche quando noleggiavate le macchine succedevano situazioni divertenti!
«Ho imparato molto da Glover e da Donnie Cantalupi, che era un pilota Yamaha quando io avevo sedici anni, i quali erano tra i migliori “noleggiatori di auto” ai quali ad un certo punto le compagnie di autonoleggio non gli davano più le macchine perché tra derapare e salti nel paddock le riportavano distrutte. La mia migliore avventura non è stata però per andare a una gara, ma durante una vacanza in Messico con il proprietario della NoFear. Avevamo una Volkswagen Maggiolino sul cui tetto avevamo messo le tavole da surf, ci divertivamo ad usare il freno a mano, la mettevamo di traverso e andavamo a tutta canna. Mentre stavamo cercando una scorciatoia per la spiaggia non ci siamo accorti che dopo una curva il fiume aveva sfondato la strada, il problema era che stavamo andavo fortissimo e quando ho visto il dislivello non sono riuscito a frenare in tempo, allora ho accelerato e abbiamo preso il volo. Quando siamo atterrati dopo un salto di una ventina di metri in avanti e un metro e mezzo di altezza il tetto del Maggiolino ha ceduto, il motore è collassato e mi sono bruciato i piedi con l’acqua del radiatore. Abbiamo continuato sino alla sede dell’autonoleggio col tetto schiacciato come una sogliola fermandoci continuamento per aggiungere liquido al radiatore, e quando l'abbiamo riportato indietro l’abbiamo parcheggiato come niente fosse. Ovviamente se ne sono accorti, e quando ci hanno detto che il motore era spaccato a metà abbiamo risposto che in fondo aveva solo una piccola crepa…. ».

Ricky Johnson in azione coi 4X4, disciplina che lo vede ancora oggi vincere in America
Ricky Johnson in azione coi 4X4, disciplina che lo vede ancora oggi vincere in America

Come ti sentivi a far parte del team Honda, che negli anni ottanta era come la Ferrari in Formula 1?
«Era bello e spaventoso allo stesso tempo, perché quando fai parte della squadra migliore ti danno tutto quello che chiedi ma in questo modo sai che tu devi essere assolutamente il migliore, ed è una posizione difficile. Non esiste essere secondo, terzo, quarto, devi vincere e basta, amavo quella sensazione, di dover essere il migliore, ma a volte era veramente dura».

Anche perché deve essere stato difficile mantenersi ai massimi livelli.
«Sì, perché tutti continuavano a migliorarsi, da Ward a Bailey, a O'Mara, tutti andavano sempre più veloci. Non potevi mantenere il tuo ritmo, se oggi giravi in un minuto, domani dovevi girare in 59 secondi, e dopodomani in 58. Dovevi trovare modi nuovi, c’era molta pressione ma d’altronde venivi pagato molto in cambio di questa tensione».

Hai mai pensato a dove saresti potuto arrivare se non ti fossi rotto il polso?
«Sì, certo, a parte il libro dei record avrei guadagnato ancora molti soldi perché avrei vinto molte altre gare. Ma se guardo a come è la mia vita adesso non ho rammarichi in quanto ora sono sposato con una bella donna e l’incidente mi ha obbligato ad aprirmi ad un'altra persona perché quando correvo non davo confidenza a nessuno. Quando mi sono infortunato invece lei ha visto una parte di me che nessuno aveva mai percepito, mi ha visto distrutto, mi ha visto chiedere a Dio e a tutti i santi perché era successo a me. Abbiamo avuto dei figli in giovane età, e non sarebbe successo se non mi fossi fatto male, per cui finanziariamente e come stile di vita non sarebbe stato male, ma non tornerei indietro».

E’ una bel sentimento.
«Sì, per me è un bella cosa, dipende da come la vedi perché c'è anche chi guarda solo ai soldi, ai record e ai risultati. Perciò dico che non si può misurare un campione da quanto tempo è stato il numero uno, o dalla quantità di gare che ha corso.
Adesso ci sono molte gare di supercross e le piste sono migliori. Ai miei tempi c'erano molti infortuni alle caviglie: Bailey, O'Mara, Ward, Hannah e anch’io abbiamo avuto dei brutti infortuni alle gambe perché non avevamo i tutori per le ginocchia, ora ci sono molti accessori e pur essendoci ancora degli infortuni non sono così gravi. Noi correvamo sempre con qualcosa fuori posto, ecco perché non credo che Carmichael sia il migliore di tutti, lui è stato favoloso, è stato un grande campione ma è diverso dire che sia stato il migliore di tutti i tempi.

Io posso guardare e capire come guidano Villopoto, Dungey, e tutti gli altri, ma James a volte non sai da dove tira fuori certe mosse

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