La persona sbagliata

La persona sbagliata
Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
La MV F4 di Klaus è un mezzo zeppo di pezzi speciali, rarità da reparto corse e fibra di carbonio, che supera il valore di centomila euro
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
1 dicembre 2017

Mi verrà un tumore, così. Sette e trenta di un venerdì sera, e l'officina deserta puzza dei gas di scarico; l'aria tossica è l'inevitabile eco degli ultimi clienti che hanno ritirato la moto e che la ispezionano, chiedono lumi sugli interventi appena fatti, ciarlano, pontificano, escludono categoricamente: tutto a motore acceso. Alcuni di questi torneranno lunedì, ma forse sarà troppo tardi.
Per chiudere in bellezza la settimana lavorativa ho chiesto a Sabiha di lasciare Klaus Thurmstall come ultimo cliente della lista per la riconsegna della moto. Sabiha, la nostra segretaria, smonta alle sei, penseremo io ed Emilio a chiudere.

I semplici meccanici come me sono quasi presenze mute, non lasciano traccia sulle moto che passano sotto le loro mani, perché la bravura sta proprio nel fare il lavoro e dare la sensazione di non aver mosso nemmeno una vite; le mani protette da guanti, ogni macchia sulla moto vissuta come un’onta e lo spruzzo dello sgrassatore pronto a rimediare, privi di iniziativa perché la responsabilità è del capofficina, che poi è anche l’unico legittimato a riconsegnare le moto ai clienti e a spiegare diagnosi, prognosi ed eventuale terapia.

La MV di Klaus non fa eccezione, la sua F4 è un mezzo zeppo di pezzi speciali, rarità da reparto corse e fibra di carbonio, che supera il valore di centomila euro: Emilio e Klaus si dirigono affabili verso il garage dove teniamo le motociclette in consegna dopo un intervento. Mi accendo una sigaretta, lo so che non si fa, ma è l’unico modo che ho per sfogare la tensione dato che non posso seguirli, peccato; devo restare qui a far finta di lavorare, tuttavia nutro qualche dubbio che Klaus possa farsi fregare: la moto l’ho rimontata io, e so che il nostro cliente controllerà ogni particolare.
Non tarderà ad accorgersi che il motore è stato aperto senza la sua autorizzazione, poi lo avvierà e scoprirà che suona diverso. Il sospetto che tutti i pezzi acquistati a peso d'oro dal Reparto Corse siano stati sostituiti con altri meno pregiati lo assalirà, un breve giro sul piazzale qui fuori confermerà il dubbio.

Indosso le cuffie, metto su un pezzo di Wes Montgomery al massimo volume, il brano si intitola “a day in the life”: dura più di cinque minuti; continuo a far finta di avere qualche compito da eseguire, resto in attesa che l'ultima nota si spenga, dopodiché levo gli auricolari.
Niente. No, qualcosa cade per terra, forse un barattolo vuoto.
Segue silenzio, rotto da Klaus che urla. Sento le mani sbattere sul bancone e sui muri, oggetti raggiungere il pavimento, le parole più pesanti rimbalzare per l'officina. Un gran rumore di metallo e plastica in frantumi, sembra una moto che cade a terra seguita da un'altra con un tonfo devastante, quasi un esplosione che riempie fino al soffitto l’officina.

Poi frasi balbettano quelle che sembrano giustificazioni, Emilio nega ogni responsabilità, si dichiara certamente estraneo e sinceramente sorpreso, pronuncia a voce alta il mio nome, ma a seguire uno schiocco che sembra una potente sberla in volto chiude la conversazione; Emilio molla ogni dignità e piange, ma la sua voce è sempre più gutturale, flebile, soffocata come una piena apertura
dai 600 giri.

Klaus è fuori di sé, grida il mio nome e lo raggiungo: nella rimessa l'aria è gelida, c'è puzza di benzina, spillata dai serbatoi delle moto a terra, e non capisco come abbia fatto a tirarne giù una decina in quelli che mi sono sembrati solo pochi secondi di colluttazione.
Una cosa la capisco bene, però: “perché?” urla Klaus, ripetendolo come se questa parola facesse parte di un rituale. La ripete altre volte, poi smette.
Emilio è con la faccia per terra ad occhi aperti, dentro la pozza di carburante. Klaus è in ginocchio sopra di lui con le mani annodate attorno al suo collo; lo guarda negli occhi spenti e si alza; mi osserva e studia come fossi il giudice supremo, e con voce rotta dalla rabbia mi ordina di non fiatare, di non avvertire la polizia. Poi si avvicina e mi punta un coltello alla gola, stretto tra le mani sporche di benzina. Non me l'aspettavo.

Emilio Tortorella era un ex pilota degli anni '80, bravo, per carità, di cui si diceva che la carriera fosse stata stroncata da contratti siglati più guardando al compenso che alla competitività della motocicletta. A quei livelli basta sbagliare un anno che il mondo delle corse ti sputa fuori.
Calabrese di nascita, ma emiliano d'adozione, dopo la breve carriera sportiva aveva riciclato la sua fama aprendo un'officina boutique per moto racing; ma era un venale: le moto dei clienti non sempre venivano trattate come meritavano e, ogni tanto, se entravano con un motore che ingolosiva Emilio, ne uscivano con un altro esteriormente identico ma molto più bolso. Però era bravo, vendeva sogni, illusioni, eccitamento: non era raro che qualcuno tornasse in officina per fargli complimenti spesso totalmente basati sul nulla o su mistificazioni.
La gente peregrinava dal guru, gli portava i pasticcini o il capretto a Natale, taluni gli proposero persino la figlia in sposa. Ma Emilio non si faceva impietosire, come ogni dio era l'esatta proiezione di quanto i suoi fedeli desideravano, e il suo trucco era quello di tenere per sé i pezzi pregiati che trafugava dalle moto dei clienti e rivenderli soltanto ad altri clienti, annientando ogni sospetto su una possibile provenienza furtiva.


 

Durò tre mesi, poiché tempi foschi erano all'orizzonte: “la persona sbagliata” era morta in sella alla moto sulla quale Emilio aveva messo le mani

Dopo un periodo di impunità abbastanza lungo da garantirgli denaro e benessere, il furbo Emilio fece il servizietto alla persona sbagliata, e le conseguenze lo costrinsero a fuggire dalla provincia modenese verso lidi lontani. Alessia, sua figlia, non lo seguì: restò a Modena assieme alla madre per completare le scuole, con la promessa di raggiungerlo non appena si fosse diplomata.
Il fuggiasco trovò lavoro a Berlino, dove non faticò a rivendersi come meccanico presso un concessionario di un prestigioso marchio italiano.
Durò tre mesi, poiché tempi foschi erano all'orizzonte: “la persona sbagliata” era morta in sella alla moto sulla quale Emilio aveva messo le mani, e alla mano violenta della criminalità organizzata si aggiunse la magistratura italiana a inseguirlo, perché le indagini lo indicavano come il presunto responsabile dell’accaduto: del resto la sua irreperibilità deponeva pesantemente a sfavore della sua buona fede, e scattò una caccia al meccanico truffatore e omicida.
Ma colui che era stato famoso per le sue fughe in solitaria in pista non si fece sorprendere: grazie ad alcuni contatti calabresi, a Berlino si ingraziò la mala turca, che lo aiutò a ottenere documenti fasulli; quindi si trasferì ad Ankara e qui è rimasto fino ad oggi, in attesa di tregua.
Sapeva che i telefoni dei suoi familiari sarebbero stati sotto controllo, e pur di non farsi trovare dagli investigatori non ha dato più segni di vita; io che lo conosco da due anni non l’ho mai sentito parlare della sua famiglia, non sono mai riuscito a tirargli fuori una confidenza, un rimpianto, un desiderio o una speranza; era un essere cui sembrava avessero aspirato l’anima per lasciare dentro un enorme vuoto pneumatico che risucchiava l’intera coscienza, come un buco nero dal quale nulla può uscire. Nel suo lavoro di capofficina era un fuoriclasse, certamente doti naturali. Tra stipendio e traffico illegale di pezzi speciali, trafugati soltanto ai clienti meno attenti e meno rischiosi e rivenduti a quelli più rapaci e facoltosi, guadagnava non saprei quanto ma certamente molto. Questo era Emilio, pace all’anima sua.

Dall'altra parte della lama c'è Klaus Thurmstall, siberiano, 29 anni, alto 191 centimetri, 90 chili, sopracciglia ad ali di gabbiano, polpaccio tatuato con motivo tribale. Lavora per la mafia russa che controlla i locali notturni di Ankara. La paga deve essere ottima se il suo garage accoglie solo moto costose.
Klaus è arrivato in officina qualche mese fa, c'ero solo io perché Emilio era in ferie sul Mar Morto. Era la prima volta: si è guardato intorno e solo dopo avere valutato, chissà sulla base di quali parametri, se fossimo alla sua altezza, ha risposto al mio saluto. Lo avvisai che per gli appuntamenti c'era la segretaria al piano terra, accanto al magazzino; qui, nell'interrato, c'era solo il reparto riparazione e manutenzione. È bastato scambiarsi poche battute per capire che finalmente avevo trovato la persona giusta: poi uno sguardo alla sua moto, verificare che la sua mente funzionava in modo pavloviano, e in pochi minuti avevo trovato le conferme per capire che l’attesa era finita e che in poco tempo avrei concluso il mio lavoro qui.

Klaus è un bravo ragazzo, irascibile ma bisognoso d'affetto, e non fu difficile ottenerne la fiducia: dopo avergli offerto un bicchiere di raki lo portai a visitare l'officina in assenza di Emilio, poi gli feci provare una moto a due tempi che teniamo sotto telo, e solo dopo avere verificato che era totalmente soggiogato dalla passione, gli regalai un bidoncino di olio da corsa e gli dissi che saremmo stati felici di fare la manutenzione alla sua F4 special, prendesse pure un appuntamento con Sabiha.
Stringemmo amicizia quella sera stessa; per ricambiare, Klaus mi invitò in un locale notturno dove mi presentò alcune danzatrici minorenni, con le quali mi lasciò da solo al tavolo. Lui lavorava all’ingresso. Quella sera, mi ricordo benissimo, sedò all’istante una rissa tra clienti ubriachi, credo nata per un presunto diritto di prelazione sulle cosce di una ragazza, ma comunque terminata con diversi nasi rotti e un paio di ragazzotti scaraventati in strada senza tante cerimonie.
Uno di loro minacciò Klaus di morte e fu ritrovato cadavere l’indomani, con la testa girata al contrario. Quella sera io mi addormentai sui divani del locale, e ritrovai sulla mia motocicletta parcheggiata all’esterno un biglietto dove Klaus mi spiegava che sarebbe arrivato in officina alle 11. Molto bene.

 

Doveva essere soltanto una regolazione valvole e un cambio d’olio: invece sostituii assi a camme, corpi farfallati, forcella e collettori di scarico, senza neanche preoccuparmi di rifasare per bene il tutto e declassando la F4 da capolavoro a cancello

Doveva essere soltanto una regolazione valvole e un cambio d’olio: invece sostituii assi a camme, corpi farfallati, forcella e collettori di scarico, senza neanche preoccuparmi di rifasare per bene il tutto e declassando la F4 da capolavoro a cancello. Per una volta Emilio non c’entrava nulla, avevo fatto tutto di testa mia col solo scopo di accendere una miccia che sapevo avrebbe portato alla fine del bastardo calabrese.
Qui in Turchia doveva solo rigare dritto, e nessuno l’avrebbe mai disturbato, ma era più forte di lui. Oppure sarebbe bastata una telefonata, chiamare la sua famiglia, farsi sentire ogni tanto. Farsi individuare, fare da bersaglio. Invece, come sempre, era partito in pole position e nessuno era riuscito ad inseguirlo, sparito dalla vista di tutti in attesa del traguardo.

Il traguardo era oggi, la bandiera a scacchi era Klaus, io ho soltanto esposto la lavagna con l’indicazione dell’ultimo giro di pista. Sua moglie Ada ha atteso per mesi una telefonata, sua figlia Alessia altrettanto: loro due erano rimaste ai box, in attesa che qualcosa succedesse. Quando la persona sbagliata ebbe l’incidente al Mugello, a causa della rottura del quattro cilindri preparato da Emilio, fu portata in terapia intensiva all’ospedale di Modena.
Era molto arrabbiata, Emilio l’aveva rassicurata sulla tenuta del motore che invece si bloccò alla staccata della San Donato scaraventando a terra la persona sbagliata, che capì all’istante di essere stata truffata da Emilio; dal letto d’ospedale lo mandò a cercare, ma la fuga era già iniziata per finire, sei mesi dopo, qui ad Ankara: la sua nuova identità era Alberto Piombi, i suoi contatti turchi lo piazzarono nell’unica officina d’alto livello di questa sponda del fiume, bastava solo non fare cazzate e l’avrebbe sfangata.

La persona sbagliata morì otto mesi dopo l’incidente per i postumi della sedicesima operazione conseguente l’incidente: un’asportazione di milza. Forse un’infezione, o forse l’Interpol.
L’Italia è un paese strano. Muore un povero cristo e niente, muore la persona sbagliata e la magistratura apre un’inchiesta e scatena l’Interpol alla ricerca del sospettato numero uno.
Nel frattempo, io mi ero fidanzato con Alessia, che si era appena diplomata e portava il motorino nella mia officina di quartiere.

Una sera, era un venerdì, eravamo sulla mia moto. Andavamo ad una festa, Alessia era felice perché sua mamma aveva trovato lavoro in un centro commerciale e avrebbero potuto ricominciare a vivere quasi normalmente. Le squilla il telefono, era la polizia che l’avvisava di tornare subito a casa che era successo qualcosa. Lei si allarma, chiama la madre che non risponde: le risponde invece una voce di legno:

- Signorina, sono il Sovrintendente Carpano: sua madre è stata aggredita in casa. Venga subito.

Schizziamo sulla via Emilia per tornare a casa, ma ci affianca un’automobile bianca che ci costringe a fermarci, scende un signore vestito con jeans e giacca:

- Polizia! Lei è Alessia Tortorella?

- Sì… - rispose in lacrime Alessia

- Non c’è tempo da perdere, salga in macchina: sono entrati in casa vostra e sua mamma sta malissimo, venga con noi!

Obbedire sembrava la cosa più logica da fare. Io restai con la mia moto al minimo, fermo sul bordo di quella rotonda illuminata da fari arancioni. L’abbandonai dentro quella macchina così, senza farmi nemmeno una domanda, preso pure io dal parossismo.
Alessia sparì. Nessuno ne ebbe più notizie. Evidentemente, dopo l’omicidio dimostrativo della moglie di Emilio, i parenti e i sodali della persona sbagliata volevano farlo uscire allo scoperto rapendogli la figlia.
Solo che Emilio era un buco nero.

Alessia non è stata più ritrovata, non si sa nemmeno se sia viva. Nessuna notizia da quel venerdì.
Io mi misi a disposizione della magistratura per trovare Emilio, ma in realtà desideravo soltanto sostenere l’ultima speranza di rivedere Alessia viva: l’ho cercato seguendo la strada più semplice, quella delle moto da corsa.
Ci ho messo un anno, ma l’ho trovato. Lui non mi conosceva, mi presentai in officina cercando lavoro e facendogli capire che avevo i contatti giusti, essendo pure io sponsorizzato dalla mala turca. Se l’ho trovato io certamente l’hanno trovato anche altri; sospetto che abbia barattato la sua incolumità con quella della figlia, e che della morte della moglie non gli sia poi dispiaciuto granché.

Negli ultimi due anni i miei contatti con i magistrati italiani sono stati costanti: sei mesi fa mi hanno comunicato che il cadavere di Alessia è stato ritrovato in zona Tempio, a Modena. Ho deciso di restare ad Ankara e di mirare più in alto. Emilio avrebbe potuto salvare sua figlia, probabilmente consegnandosi con dignità alla famiglia della persona sbagliata ed espiare le sue colpe da uomo. Non l’ha fatto, lavorava con quel sorriso ebete da prete la domenica mattina dopo la messa, senza lasciare trapelare un’emozione, un rimpianto o un ricordo; nulla.

L’Interpol mi teneva in quell’officina per avere un agente dormiente infiltrato dentro l’organizzazione mafiosa turca, e non interveniva per assicurare alla giustizia quel bastardo di Emilio. Ma, in effetti, di cosa avrebbero potuto incriminarlo concretamente? E quale sarebbe stata la condanna? Era tutto da vedere. Tre donne erano morte e nessuno aveva pagato.

Poi arrivò Klaus. Era la persona giusta.
Solo che adesso mi punta un coltello alla gola. Penso alle telecamere di sorveglianza che stanno riprendendo tutto.

- Ora tu rimonti la mia moto come era prima, capito?

Tranquillo, Klaus. Ti stupirò.