I Racconti di Moto.it: "Tre giorni prima"

I Racconti di Moto.it: "Tre giorni prima"
Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
Non importava l’ora, ma a giudicare dal tepore e dai riflessi della luce dovevano essere le sei del mattino. Non importava nemmeno di chi fosse la testa barbuta accanto la sua, poggiata malamente sopra un cuscino sudato e flaccido
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
9 maggio 2014

Punti chiave

Non importava l’ora, ma a giudicare dal tepore e dai riflessi della luce dovevano essere le sei del mattino. Non importava nemmeno di chi fosse la testa barbuta accanto la sua, poggiata malamente sopra un cuscino sudato e flaccido. L’ uomo giaceva in posizione scomposta con indosso soltanto una peluria biondiccia nelle parti nobili, ultimo baluardo virile dopo che il resto era stato tirato via dall’estetista, e un tatuaggio tribale sulla spalla. Barbara invece era su un fianco e cercava mentalmente i suoi vestiti dispersi per la casa, ognuno dei quali sembrava lanciasse un bip come la scatola nera dopo un disastro aereo. L’ordine di recupero era perizoma, calze, reggiseno, pantaloni, maglia, giacca e Barbara lo ripassava, disinteressata ad ogni altra cosa.
Prima che il disgusto per l’incolpevole persona con la quale aveva passato la notte prendesse il sopravvento e il rimpianto demolisse a colpi di recriminazioni il reciproco piacere di essersi incontrati e piaciuti, Barbara aprì violentemente gli occhi e si tolse le lenzuola di dosso come se scottassero, con un gesto rapido che comunque non svegliò l’uomo sprofondato in un sonno imparentato stretto con il coma. Nuda come mamma l’aveva partorita, balzò in piedi alla luce che entrava dalla porta finestra e iniziò a raccogliere gli indumenti seminati lungo il percorso dalla porta d’ingresso alla camera da letto. Le dolevano il collo e i glutei, le mani avevano i calli, l’avambraccio sinistro era diventato leggermente più tonico del destro, la schiena tendeva a piegarsi un po’ e a conferire alla sua elegante figura quella eccentricità che ne amplificava il fascino.


Si rivestì frettolosamente e scosse il capo quando l’uomo nel letto aprì gli occhi smozzicando un improbabile “tesoro” e un odioso “rimani”. Cascasse il mondo lei doveva andare, prendere la motocicletta e correre da sola, bruciare l’asfalto sotto di sé, mettere strada sotto i denti della corona e digerire le distanze masticandole con il suo monocilindrico 700 perché nulla era più insostenibile della sua passione per l’andare in motocicletta e niente la scuoteva di più delle vibrazioni a bassa frequenza del motore, glielo disse chiaramente all’uomo sotto le lenzuola che in un primissimo momento rimase un tantinello basito, poi decise che la tipa era innocua, le augurò bon voyage e ricacciò la testa nel cuscino.

Barbara era partita tre giorni prima in fuga solitaria: nel pomeriggio del venerdì era rincasata a bordo di una motocicletta nuova, recuperando la voglia di andare in moto di quando era ragazza e non conosceva ancora suo marito Matteo: un essere rassicurante, un distinto signore che proprio quel giorno compiva quarant’anni, rimasto ammutolito quando nella quiete del suo focolare domestico fece irruzione una monocilindrica da sessantacinque cavalli brandeggiata dalle mani di sua moglie.
Ci sono cose alle quali non credi manco se le vedi e Barbara in sella ad una motocicletta, per Matteo, era una di queste. Semplicemente, non era previsto. Ma molte cose accadono mentre la gente si illude che quello che vive ogni giorno continuerà ad essere sempre confortante e immutabile perché così deve essere e così le cose devono essere fatte: dal ragù al parcheggio dell’auto nel garage, stesse manovre, stessi automatismi che rendono le azioni ridicolmente recursive, uguali a se stesse, drammaticamente e pateticamente vecchie e scollate dal mondo ogni giorno un po’ di più, tanto che si smette persino di ricordare quando sono state compiute, come dei tic. La vita di certa gente è un tic, un movimento compulsivo incontrollabile privo di senso e gusto. Certa gente invecchia proprio perché ripete sempre le stesse azioni nei medesimi modi con le scuse più varie e improbabili, mentre invece è soltanto che cambiare ed evolversi costa fatica, fa patire insicurezze e ricorda di quando si era dei ragazzi alla ricerca di qualcosa in cui immaginarsi mentre adesso siamo tutti adulti che fondano la propria vita su vissuti solidi faticosamente costruiti e guai a metterli in discussione per il solo dubbio che magari esista un’alternativa a quello che si è giustificato come il miglior percorso possibile date le condizioni attuali e quelle di partenza. Mai un dubbio. Eppure una volta le moto avevano il cambio a destra e la prima in alto e quelle con il cambio a sinistra e la prima in basso erano viste con sospetto.

 

Ci sono cose alle quali non credi manco se le vedi e Barbara in sella ad una motocicletta, per Matteo, era una di queste. Semplicemente, non era previsto

Le avvisaglie, per Matteo, c’erano state tutte. Con Barbara non si toccavano da mesi, vivevano una cordiale quotidianità dove litigare o il solo tentativo di aprire una discussione sui problemi della loro coppia era negato dalla paura di entrambi nel turbare un quieto equilibrio che almeno garantiva che ogni giorno scorresse in pace. Ma era pace armata.
Barbara quindi evase in motocicletta da un matrimonio asfissiante, percorrendo da quel venerdì di un’estate di rivincita centinaia di chilometri, infrangendo pure quell’ultimo tabù di una notte di passione con classico “primo che capita” conosciuto in spiaggia, anche lui in fuga. Tutti in fuga: sembrava una moda, sembrava che nessuno fosse più contento di fare le cose che aveva fatto fino a poco tempo prima, tutti a rinnegare il proprio passato asserendo di avere finalmente compreso le proprie reali inclinazioni e di avere sentito il bisogno di fare una scelta coraggiosa, di rottura. Solo che di uomini e donne in fuga negli ultimi tre giorni Barbara ne incontrava a decine. Ognuno a parlare di quello che sapeva fare, di come si erano messo in discussione, di passioni viscerali: chi aveva ripreso per le mani lo strumento musicale imparato da giovane, chi aveva scoperto un’incontenibile voglia di scrivere – “perché la mia vita è un romanzo”, era la frase più abusata da questi novelli Hugo di provincia-, chi aveva in mente il viaggio di una vita verso una meta esotica, chi come Barbara aveva comprato una motocicletta e iniziato a darsi arie da Easy Rider. Quel pomeriggio si erano ritrovati tutti, casualmente, nello stesso bar della riviera ligure a bere lo stesso aperitivo, a guardarsi in faccia riconoscendo negli altri lo stesso vuoto sguardo di chi ha tentato di cambiare volto alla propria vita senza aver prima provato a cambiare se stesso. Insomma, un pugno di sfigati da competizione in un bar che sembrava avesse selezionato soltanto avventori in preda ad una crisi esistenziale che manco Sartre.


Erano las cinco de la tarde e il bar era affollato come tutti i locali estivi con terrazza a picco sul mare, molte motociclette erano ordinate nel piccolo parcheggio, tra le tante, pure quella di Barbara; lei invece guardava il mare sorseggiando una bevanda azzurra da una cannuccia, seduta ad un tavolo con i pochi bagagli e il casco accanto. Era al terzo drink e alla centesima occhiata al suo bikini da parte di uomini in fuga di ogni età. Cercava di ricordare, ma non sapeva esattamente cosa. Oltre a tutti i dolori derivanti dalla postura motociclistica, le faceva molto male una guancia, l’orecchio dallo stesso lato le fischiava e sapeva che la moto non c’entrava assolutamente niente ma non riusciva a spiegarsi perché, aveva bisogno di tempo e di calma, forse anche di un quarto drink.
Ma il bar ad un certo punto si svuotò perché tutti gli sfigati furono intimiditi dall’ingresso di una donna e due uomini, tre facce molto assertive e sicure ma soprattutto gli unici vestiti con un minimo di decenza in mezzo a quella tribù di ciabattai infradito che si sentì minacciata da quell’intromissione di realistica sobrietà, così fuori luogo dovunque ma soprattutto in un bar estivo popolato da gente che forse aveva pure qualcosa da nascondere.
L’unica a non accorgersi di nulla e a non dileguarsi con fare finto disinvolto fu Barbara Bianchi. Trentasei anni, nata a Frabosa Soprana, residente a Milano e morta cadendo giù in un dirupo sul mare quel lunedì ad Alassio, durante la fuga a piedi per sfuggire a tre agenti della squadra mobile di Savona. Il giorno antecedente la morte della Bianchi il cadavere del marito Ing. Matteo Tessari fu ritrovato nell’appartamento coniugale con un coltello da cucina conficcato nel petto, sul manico le impronte insanguinate della moglie; i vicini affermarono di avere udito urla venerdì pomeriggio e di avere reputato la circostanza molto strana perché i Tessari erano una coppia molto silenziosa e discreta, quasi invisibile. Si accertò che alcune macchie di sangue rinvenute sul pavimento dell’appartamento appartenevano a Barbara, e le stesse macchie di sangue furono ritrovate nel casco della Bianchi all’altezza dell’orecchio sinistro. Probabilmente il Tessari aveva percosso con violenza la donna che aveva reagito aggredendolo con il coltello e provocandone la morte.


Dalle indagini che ne seguirono, il magistrato incaricato dell’inchiesta si fece l’idea che il Tessari non avesse sopportato l’idea che la moglie avesse acquistato a sua insaputa una motocicletta - intestandola al marito - con la quale intendeva intraprendere un viaggio; i colleghi dell’Ingegnere ne parlavano come di una persona metodica e intransigente ma gentile ed disponibile, mentre il datore di lavoro di Barbara Bianchi sostenne che la dipendente fosse ansiosa e irritabile da almeno un paio d’anni, probabilmente per l’insoddisfazione legata ad una vita coniugale monotona e per il disinteresse del marito nei suoi riguardi. Il datore di lavoro, con onestà encomiabile, confessò una breve relazione con la donna, terminata mesi prima della sua morte per decisione della Bianchi perché commettere adulterio le ripugnava.
Fu facilmente rintracciato un ragazzo di Alassio nella cui abitazione Barbara aveva passato la notte precedente la propria morte, noto per essere un corteggiatore di turiste solitarie: il ragazzo dichiarò che la donna non raccontò nulla di sé e anzi alle domande rispondeva in maniera evasiva e turbata; riportò agli inquirenti che l’indomani mattina presto la Bianchi si era volutamente allontanata sostenendo che per lei la cosa più importante e urgente era andare in motocicletta.


I periti medico-legali sostennero che tutte le evidenze portavano a ricostruire la fuga di Barbara come conseguenza di una violenta amnesia frutto di una reazione dissociativa. Caso molto comune, dissero. Non una fuga da un crimine, altrimenti si sarebbe nascosta e avrebbe fatto in modo di rendersi irreperibile, piuttosto la sua era stata una fuga da orribili eventi, attraverso la perdita di memoria causata dallo shock probabilmente dovuto al violentissimo colpo ricevuto dal Tessari che le aveva fracassato un orecchio e il timpano sinistro, oppure per il gesto violento da lei stessa messo in atto ai danni del marito. O entrambe le cose. Il caso fu chiuso.
La moto rimase ferma nel parcheggio del bar per un quasi una settimana, poi il magistrato ordinò di rimuoverla; il parcheggio era in fondo ad una discesa stretta e ripida, inaccessibile al carro attrezzi e l’incaricato fu autorizzato ad accendere il motore per portare la motocicletta ancora fiammante sul mezzo di soccorso, ma il motore non si avviava e l’aitante ragazzone in canottiera e tatuaggio tribale in bella vista sulla spalla rimosse la sella per accedere alla batteria e controllare se fosse il caso di applicare l’avviatore portatile; nel sottosella trovò una busta colorata, leggermente maltrattata ma sulla quale era ancora leggibilissima la scritta “Buon 40esimo!”. La busta spandeva un leggero profumo che il ragazzo riconobbe all’istante. Non resistette e ruppe il leggero sigillo che la chiudeva e ne estrasse un biglietto d’auguri: “…dicono che le moto fanno miracoli! Buon 40°compleanno Amore, questa motocicletta è il mio regalo per te, per noi, per il figlio che avremo.”