I Racconti di Moto.it: "Io c’ero"

I Racconti di Moto.it: "Io c’ero"
Sarò breve, ma le chiedo comprensione. Nel 2010 avevo l’età di mio figlio oggi. Giacomo se la passa bene, a soli vent’anni è un giovane dirigente d’azienda. Non gli manca nulla, è bello, è ricco, ha una vasta cultura unita ad un’acutezza di pensiero inconsueta...
18 maggio 2012

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Sarò breve, ma le chiedo comprensione.
Nel 2010 avevo l’età di mio figlio oggi. Giacomo se la passa bene, a soli vent’anni è un giovane dirigente d’azienda. Non gli manca nulla, è bello, è ricco, ha una vasta cultura unita ad un’acutezza di pensiero inconsueta in un industriale di seconda generazione. Ah, poi viaggia; viaggia tanto, sia per lavoro che per passione. Mio figlio.
L’ho perso. Da tre giorni non ho sue notizie. Da tre giorni faccio fatica a unire le idee e le scambio per pensieri.
In quest’ultimo viaggio, Giacomo non ha chiamato spesso, diceva che era sempre molto impegnato nel contrattare le forniture e poi il fuso orario rendeva drammaticamente difficile conciliare i nostri orari. Quando da lui era notte, qui si pranzava. Ma non mi sono mai preoccupato, l’Italia dei giorni che viviamo non è poi quel paese del terrore di cui si parla e del quale non ho che un misero ricordo. L’Italia che ricordo io è un paese di brava gente, ma sfortunata.
Eppure, dottore, nonostante l’angoscia per l’assenza di mio figlio, continuo ad andare al lavoro ogni giorno. Continuo, anche se l’ansia mi rende impossibile prendere qualsiasi decisione; devo rimanere in sella, non posso lasciare che i miei affari vadano in rovina nell’attesa che Giacomo torni o che mi giunga una telefonata da lui, o da altri.



Trascorro mattine intere chiuso nel mio ufficio a guardare il telefono.
Lei dice che è presto per preoccuparsi?
Sa, dottore, penso che mio figlio sia vivo ma non ho il coraggio di andare a cercarlo in Italia. Non credo che tornare lì sia prudente, per me.
Tre giorni le sembrano un periodo adeguatamente lungo per iniziare a provare il brivido freddo del panico di non rivederlo più, di non sentire la sua voce oltre la porta del mio ufficio che chiede di entrare con la solita educazione, quasi da estraneo?
Si dice che i veri capitani d’industria abbiano al primo posto nella loro scala di valori soltanto il bene dell’azienda e forse questo luogo comune ha un fondo di amara verità: per me il bene della mia azienda è una responsabilità sociale, se fallissi da un giorno all’altro quale pensa che potrebbe essere il contraccolpo sull’economia mondiale, asiatica, e poi giù a catena sulle singole famiglie dei nostri operai, sui concessionari? Mi dica, dottore.



Non mi interrompa, dottore; non sono nelle condizioni di fermare il mio sproloquio, avverto il bisogno di sfogarmi; lei è qui pure per questo, vero? Da dove vuole che cominci, da quale giorno, quale particolare, quale malessere? Io sono qui per guarire da che? Ero sano un anno fa e lo sono ancora adesso; perché mi ostini a venire qui da lei, quale piacere o sollievo provi, non riesco compiutamente a spiegarlo. Sento che parlare con lei di quello che sono mi aiuta a capirmi, certo, ma quanto tempo perso che potrei dedicare alla mia azienda; gliene ho mai parlato, dottore?
Le nostre fabbriche sfornano ogni giorno 6000 motociclette, abbiamo 5400 dipendenti: numeri che oggi ci pongono ai vertici dell’industria motociclistica mondiale; nessuno avrebbe mai puntato un solo Euro su di me quando ho fondato la “Motocicli Moderni inc. ”. Eppure arrivare a questo traguardo non è stato il coronamento di una passione o il raggiungimento dello scopo al quale avrei sacrificato anni e anni di studi che non ho mai sostenuto né iniziato. E’ andata diversamente. Molto diversamente.
Se vuole le racconto tutto.



Quando ero ragazzo, non andavo in motocicletta perché non avevo i soldi per comprarne una; ora che potrei avere tutte le moto che desidero, non mi interessa più guidarle.
Vivevo insieme ai miei genitori in una provincia anonima con un lago, una statale e una piazza; ci ero nato e mi andava bene così. La provincia era ricca, le economie si espandevano e mio padre cavalcava costantemente l’onda di ottimismo cui tutti attribuivano un valore di fede, quasi un dogma religioso. Felici, con lo sguardo rivolto al futuro che sembrava sempre più luminoso.
La casa che abitavamo era piccola, io la chiamavo “ la casa del vento” perché era piena di spifferi che anche se chiudevi le porte ti ghiacciavano i piedi da sotto e non capivi da dove arrivassero, come si formassero, a chi obbedissero. Niente, non c’era niente da fare, per quanto mio papà girasse intorno agli infissi col silicone, per quanto mia mamma mettesse giornali vecchi dentro i cassoni delle tapparelle, io sentivo sempre la lama fredda entrarmi dentro da sotto i pantaloni e vedevo i fiori secchi sul tavolo ondeggiare. Sembravamo su di una barca a vela, sa.



Sempre quando ero ragazzo, mio papà andava al lavoro con la Vespa ed io lo seguivo a piedi, perché mia mamma diceva che andare in due sullo scooter era pericoloso. Però io non è che andassi veloce come una Vespa; capitava pure che mi fermassi al bar per comprare una porcheria da mangiare per pranzo nel caso non avessi potuto o voluto muovermi dalla ferramenta, così lui apriva bottega ma io arrivavo quando serviva già i primi clienti e lo sentivo mormorare qualcosa sulla mia lentezza e sul fatto che non sarei riuscito a combinare niente nella vita se non avessi cambiato atteggiamento verso il lavoro; e verso di lui. Certo che per papà era facile parlare: saliva in sella e in cinque minuti arrivava, io avevo quasi il divieto di guardarla, la Vespa con il suo cambio a manopola e i tappetini di gomma sulle pedane. Sono salito migliaia di volte su quella Vespa issata sul cavalletto, sognando di guidarla, facendo “bruuummm” con la bocca e fantasticando su magnifiche gite al mare con una bella ragazza seduta dietro, sentivo crescere l’ipotetica invidia dei miei coetanei, anelavo la raggiunta fase della mia vita dove avrei potuto decidere io per me stesso. E invece mio padre, con uno scappellotto a tradimento, mi intimava di scendere dalla Vespa e di tornare a lavorare. Se non ubbidivo, lo scappellotto diventava un ceffone e le mani di mio padre, le assicuro, erano pesanti e piene di calli. Forse era meglio continuare la scuola, prendere un diploma qualsiasi ma i costi erano altissimi e i risultati incerti. I miei genitori avevano pochi soldi e dall’abolizione delle scuole pubbliche ne era derivato un aumento esponenziale dell’abbandono scolastico. A me non era dispiaciuto lasciare la scuola e cercavo di imparare un mestiere, rendermi utile al lavoro. Nel frattempo sognavo di diventare ricco e guidare la Vespa.



Ci lasciavo gli occhi sulla Vespa 50, l’unico mezzo di trasporto in famiglia da quando i miei genitori si erano indebitati fino all’osso con un mutuo trentennale per comprare casa e aprire la ferramenta in paese; ogni mese era un’emorragia di denaro verso la banca e il debito sembrava non finire mai, avvertivo probabile e vicina la sua estinzione tanto quanto quella dei ratti di fogna; ad ogni mia richiesta di un capo di vestiario, un po’ di soldi per uscire con gli amici o anche per un qualsiasi capriccio mi veniva opposto il peso del mutuo, la necessità di estinguerlo per poterci poi permettere una vita più serena; e intanto consumavo scarpe su scarpe per andare al lavoro, rassegnato, testa bassa, umore basso. L’ottimismo di mio papà non mi coinvolgeva, procedevo alla deriva in attesa che accadesse qualcosa che mi permettesse di cogliere l’occasione giusta per diventare anche io un uomo, anche se avevo già passato la maggiore età. Poi mio padre, un giorno, dice che il mercato si evolve e decide di andare a comprare le forniture direttamente in Asia, dove costano molto meno: un bel container spedito via nave e si risparmia quanto due o tre rate di mutuo l’anno, diceva. In pochi giorni organizza il viaggio e parte.



Arriva in India e lì sparisce senza dare notizie, senza manco telefonare per dire che era atterrato.
Io e mia mamma cadiamo nel panico, inutili le telefonate all’ambasciata italiana, inutile pure contattare le aziende fornitrici che mio padre avrebbe dovuto visitare, le quali rispondono di non sapere nemmeno chi sia la persona che stiamo cercando. A quel punto, non rimaneva che andarlo a cercare noi. Io avevo appena vent’anni, mia mamma quarantotto. Appena sbarchiamo all’aeroporto di Mombay, l’India ci stordisce. Troppo grande, troppo vasta, troppo umida e calda, troppo tutto per chi era abituato alla Vespa 50 e al nostro paese di tremila vecchietti tutti la domenica a pescare sul lungolago lombardo. Una sola cosa mi fa sentire a casa, non so perché: dovunque voltassi lo sguardo, uno sciame di motorini scassati ma marcianti guidati da signori dignitosi e frenetici, come api in un alveare si toccano, tornano indietro, prendono la loro merce, i loro simili, li portano da un’altra parte, si confondono tra di loro, cadono per terra, si rialzano scuotendo i vestiti bianchi e le camicie lise per liberarli dall’eccesso di polvere color zenzero e curry. Li ho amati subito, gli indiani. Mia mamma pure, ma per prendere marito qui ha dovuto aspettare che arrivassero certi documenti dall’Italia e ci sono voluti sedici anni. Io remai contro.



Vedere questa scena, sentire il frinire della brulicante attività della popolazione locale, fu sufficiente per capire che lo stesso fascino euforico del nuovo mondo dalle possibilità aperte e impredicibili doveva avere catturato mio padre, con il solo corollario che lui non si fece alcuno scrupolo di vivere la sua vita senza nemmeno comunicarci la sua cessazione dal servizio ordinario effettivo di capofamiglia; eravamo definitivamente soli.
Io ero come ipnotizzato e stregato: guardavo in continuazione tutti quei motorini mentre mia mamma guardava me in lacrime, sconvolta, cosciente che eravamo andati a cercare una persona che era certamente fuggita per non farsi ritrovare mai più. Nemmeno iniziammo le ricerche, certe cose si capiscono al volo e comunque le senti dentro. Ci rifugiammo in albergo, dove la televisione via satellite stava trasmettendo immagini di una qualche guerra civile, oramai all’ordine del giorno in tutto il mondo; l’ennesima rivoluzionaria e rivoltosa primavera avverso un regime totalitario, vessatorio, liberticida.
Stavolta, e soprattutto in nostra assenza, era toccato all’Italia!

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Fissavo incredulo lo schermo da cinquanta pollici nella reception dell’albergo: centinaia di migliaia di persone a bordo di motociclette di ogni tipo e guidate da una regia unitaria nel medesimo disegno eversivo, si erano impadronite dei palazzi del potere cacciando a pedate, se non con metodi ancor meno democratici, gli onorevoli disonesti ed i loro lacchè, gli assessori corrotti, i portaborse nullafacenti e, ancora, i prosseneti, le pupille con le loro mamme corree, i miseri avanzi della democrazia parlamentare stanando tutti i loro colpevoli legami oltre i palazzi del potere con imprenditori, intermediari, conniventi, collusi e, infine, delinquenti comuni e speciali. Rimasero fuori dalla defenestrazione di quel luglio infernale, e al loro posto, soltanto i burocrati necessari al funzionamento della macchina dello Stato. Ovunque, in Italia, uomini col casco in testa agitavano le mani con le dita a “V” ripresi dal basso dalle telecamere, inneggianti alla vittoria su una dittatura che aveva reso impossibile la vita alla maggioranza del popolo.



Eppure, potevo capirli. Potevo capire benissimo la loro disperazione per un regime tributario assurdo, per uno stato presente solo come esattore e aguzzino che prima ti blandisce e poi ti inchioda. Tutto quello che era accaduto in Italia da un anno a quella parte, non aveva senso.
Non aveva più senso possedere una moto se ogni volta per l’utilizzo dovevi chiedere il codice di sblocco all’assicurazione e pagare tre euro in aggiunta al premio annuale.
Non era giusto, costituzionale, nemmeno ragionevole, potere acquistare la benzina solo dopo aver dimostrato di essere in regola con i bolli, senza multe pendenti, con almeno 10 punti patente, tasse sulla casa pagate e ultima dichiarazione dei redditi regolare: I distributori, tutti statalizzati, erano diventati veri e propri centri di esazione delle imposte. La percentuale di accise sulla benzina era salita a livelli stratosferici, inoltre.
Alla base di tutto questo stava il tragico effetto sulle masse causato dal fatto che, per legge, se acquistavi una moto, il 50% del prezzo di listino te lo pagava lo Stato Italiano.



In pratica, il Ministro dei Tributi, aveva avuto una trovata che lui aveva definito “creativa” derivata da una riflessione tutto sommato corretta: i motociclisti se ne fregano di tutto pur di farsi il loro giretto in moto e di alimentare la loro passione. Allora rendiamogli ancora più facile comprare una moto, anzi, in pratica gliela compra lo stato per metà; poi, se vuole usarla lo riempiamo di adempimenti sempre più onerosi e stringenti introdotti da provvedimenti vessatori e insaziabili, con sommo beneficio per le casse pubbliche.
Si sarebbe così innalzato il livello del debito pubblico nella speranza che il “Sistema di Esazione Globale con Acquisto Motociclo” più che compensasse, con il maggior gettito conseguente al recupero dell’evasione fiscale e grazie alle entrate conseguenti a tutti i nuovi balzelli introdotti a carico dei motociclisti, i costi relativi alla copertura del contributo statale del 50% all’acquisto della motocicletta. Senza contare l’aumento dei consumi in accessori, ricambi e quant’altro: tutta crescita, pontificava il Ministro.



Dottore, lo so che sembra complicato, ma le assicuro che in Italia lo capirono tutti: spot televisivi, cartelloni sugli autobus e per strada, messaggi sui telefonini; sembrava che far comprare motociclette agli italiani nel 2010 fosse necessario come la raccolta di metallo per costruire le armi all’epoca di Mussolini; la necessità di spiegare a tutti gli Italiani i vantaggi di comprare una moto, tanto te la paga lo Stato per il 50%, era diventata una questione di urgenza nazionale. Mi ricordo che il Ministero aveva finanziato un bellissimo spot televisivo: una famiglia andava dal concessionario e ne usciva con quattro motociclette, una per componente, guardandosi in faccia l’un l’altro contenti; col sottofondo della musica di Guerre Stellari una voce fuori campo diceva “la moto unisce: unisciti anche tu”.
Erano tempi di crisi, eppure.



Quando la legge passò in parlamento votata a larga maggioranza, le case motociclistiche inneggiarono al Ministro come ad un uomo illuminato che faceva il bene del Paese, le assicurazioni e le banche risero sotto i baffi e l’unico a dolersi fu mio padre che già faceva i salti mortali per arrivare a fine mese con la sola Vespa 50 del 1975 e seppe che da quel momento qualcosa sarebbe cambiato, ma non in meglio, per lui e per noi.
Ci accorgemmo così che nonostante avessimo solo una Vespa 50, dovevamo pagare il bollo sestuplicato perché possedere un mezzo di oltre dieci anni era considerato un lusso, come avere un oggetto vintage. Poi, il fatto che fosse a due tempi imponeva ad ogni sosta dal benzinaio il versamento di un euro per “contributo di solidarietà ecologica”, e andarci in due era possibile solo previa autorizzazione settimanale da parte del comune di residenza oltre quelli attraversati nel tragitto, da ottenersi dietro il pagamento di un’imposta proporzionale al peso del trasportato. Se volevi inserire più trasportati dovevi pure pagare un’integrazione sull’assicurazione. Una delle novità più controverse, tra le tante che ora non ricordo, era che in caso di incidente l’assicurato, anche se aveva ragione, comunque pagava lui in prima persona i danni propri, poi faceva domanda all’assicurazione per il rimborso previa dimostrazione della regolarità nel versamento di tutte le imposte e dei contributi previdenziali nei cinque anni precedenti, oltre ad essere obbligato a produrre una dichiarazione nella quale si impegnava a versare il 5% del risarcimento a favore di un ente a scelta tra le ASL, gli Ispettorati Provinciali del Lavoro e i Circoli Canottieri. Ovviamente, in caso di ricorso al giudice era obbligatorio versare una cauzione di circa 1000 euro in biglietti di piccolo taglio che la maggior parte delle volte veniva poi trattenuta in via definitiva dal Ministero della Giustizia con la pubblicazione della sentenza e accreditata sul “Fondo Solidarietà Magistratura Civile”. Come ho detto era un aspetto controverso, eppure nessuno si ribellò. Eppure.



Tutto questo non scoraggiò i motociclisti e nemmeno gli italiani, in genere inclini al malumore e all’invettiva ma, come forse lei sa, per nulla pronti all’azione civile. Affatto. In massa, anzi, comprarono motociclette, molti ne comprarono più d’una fino a svuotare i concessionari. Si creò pure un mercato parallelo tra i rivenditori che si attrezzavano per fare fronte ad una domanda esplosiva e ai conseguenti, praticamente immediati, rimborsi da parte dello Stato; altro che società finanziarie di credito al consumo. L’Italia si scoprì un paese di motociclisti, pieno ogni domenica di eventi, sagre, passeggiate, tour, incontri: si può quasi dire che il calcio diventò per un breve periodo poco seguito, dato che la domenica la maggior parte degli italiani andava in giro su e giù per la penisola a consumare benzina e gomme e a far trillare gli autovelox. I vertici del pallone fecero le loro rimostranze a causa della scabrosa situazione che si era venuta a creare: nessuno andava più agli stadi a vedere le partite di calcio! Ma furono zittiti dalla minaccia del governo e della potentissima Federazione Motociclistica Italiana di trasformare tutti gli stadi in piste di supermotard. Muto e gioca.



Il deficit statale e il debito pubblico subirono un certa impennata, ma i consumi incominciarono a crescere in modo esponenziale guidando un aumento a due cifre del prodotto interno! Il Ministro dei Tributi fu portato in trionfo a Bruxelles per spiegare ai partner europei la ricetta per la crescita ma molti dei presenti lo guardarono con facce perplesse:
- Onorevole collega- fu una delle domande meno garbate e sardoniche da parte di un ministro delle finanze di un paese mitteleuropeo – vuole spiegarci perché un popolo che non sia quello italiano dovrebbe indebitarsi sia a livello statale che a livello personale solo per il piacere di andare in moto? Noi, nel nostro paese, abbiamo servizi e traporti pubblici che funzionano perfettamente e andare in motocicletta non è una priorità, soprattutto se per farlo si deve continuamente tassare il cittadino e innalzare il debito pubblico; se noi introducessimo una norma del genere non avremmo nessun risultato positivo né sui conti pubblici, né sulla crescita. Secondo la mia opinione, la sua è una riforma che può avere collocazione soltanto in Italia, per i motivi che qui a Bruxelles molti sanno e che per pura cortesia istituzionale si trattengono dal confidarle! Parbleu!



Perché i motociclisti se ne fregano, avrebbe dovuto rispondere il Ministro. Ma non replicò, borbottò invece qualcosa in un birignao scadente tradotto dall’interprete con fatica e senza capire cosa stesse dicendo veramente.
Eppure.
Il debito pubblico arrestò la sua corsa soltanto con l’esaurirsi dei potenziali motociclisti: in pratica, tutte le famiglie avevano in garage almeno due moto, per venderne altre bisognava rivolgersi o ai novantenni, o ai bambini.
Poi, un giorno, a dicembre, la crescita si arrestò e il sintomo fu che nessuno comprava i regali di Natale.
I concessionari cominciarono a capire che c’era qualcosa che non andava, perché già da tempo moto nuove non ne vendevano più, ma adesso non vendevano più nemmeno accessori e servizi di officina.
Le case motociclistiche avevano già capito mesi prima che qualcosa non sarebbe andato. Qualcosa nel meccanismo si era inceppata.
I motociclisti continuavano a divertirsi come matti prosciugando i loro conti in banca.
Le banche incominciarono a fare prestiti per pagare le tasse e i nuovi balzelli introdotti dal “Sistema di Esazione Globale con Acquisto Motociclo”, e pochi furono i direttori di filiale che misero in guardia i clienti verso l’aumento del pericolo di non riuscire a pagare i propri debiti, se continuava così.
Qualcuno, il giorno di Santo Stefano, capì che il gioco era terminato perché non aveva più i tre euro per accendere la moto. Accidenti, niente giretto di Natale. Niente.

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I giornali, dal giorno dopo, misero in un occhiello in prima pagina articoli tra il costume e la cronaca, a firma di giovani collaboratori, nei quali si parlava dello stato, giudicato temporaneo e atteso, di illiquidità dei cittadini; quelli più schierati pubblicavano poche righe di virgolettati riferibili al Ministro che rassicurava tutti sulla stabilità del paese e sulla bontà anche a lungo termine del provvedimento, su come la crisi che stava aggredendo tutto il mondo occidentale fosse stata tenuta alla larga dalla sua geniale idea del S.E.G.A.M.
Eppure.
Si cercò di scoprire, a quel punto, che fine avessero fatto tutti i soldi versati dai motociclisti. Non fu poi così difficile accertare che erano serviti per pagare gli interessi sull’enorme debito pubblico causato dal buco nei conti pubblici causato dal contributo statale all’acquisto del milione di moto immatricolate nell’ultimo anno. Una parte nascosta di quella mole enorme di liquidi, non piccola, era andata al fondo pensione degli onorevoli con una norma votata all’unanimità dal parlamento in seduta notturna. In buona sostanza il “Sistema di Esazione Globale con Acquisto Motociclo” non aveva creato ricchezza e aveva indebitato gli Italiani a favore di banche e assicurazioni. Oltre ad avere rimpolpato i conti correnti dei parlamentari.
Iniziarono i malumori, la gente voleva vendere la moto. Ma nessuno voleva più comprarle. Di fatto, c’erano troppe motociclette in giro ma nessuno possedeva più i soldi per mantenerle. La gente, senza più denaro e disperata, non pagò e arrivarono le prime cartelle esattoriali, i pignoramenti delle moto e nei casi più gravi quelli dei mobili di casa e della casa stessa.



La situazione degenerò rapidamente e la stura fu data dai patetici tentativi di ignorare il malcontento dei cittadini da parte dei politici: il 24 luglio, una rappresentanza di motociclisti italiani si presentò sotto il Quirinale e nonostante le pacifiche intenzioni di sostenere solo una protesta, fu dispersa con gli idranti. Il contagiri arrivò al limitatore: la rivolta ebbe inizio e in breve si giunse alla rivoluzione; come ogni rivoluzione, fu a tratti brutale, insensata, priva di freni inibitori ma come non giustificare la gente che, oramai al collasso, diede vita a quei moti, liberticidi se vuole ma giusti nel contesto nel quale erano calati, provocati da un’avversione ad un vero e proprio regime?
Mio padre, prima di partire e scomparire, aveva probabilmente capito che aria tirava e aveva occultato la Vespa 50 denunciandone il simulato furto ai carabinieri e depositando come cauzione l’intero valore del mezzo da nuovo, come istruivano le nuove norme. L’ultimo salasso, ma era stato furbo. Il giorno successivo prese il volo per l’India. Mi accorsi che mio papà mi voleva comunque bene da questo gesto, questa cura nel lasciarci ma senza strascichi pendenti, senza inguaiarci col possesso di un mezzo che non avremmo saputo come mantenere.
Eppure.



Comprare le forniture in India era stata una scusa, lui voleva sicuramente scappare da quel paese che sembrava impazzito e preda di un’isteria consumistica ora repressa, ora slatentizzata e incoraggiata anche dal governo, ora punita. Credo che temesse il peggio, capendo che l’unico modo per trascinare me e mia mamma fuori di lì sarebbe stato farsi inseguire; ma poi, probabilmente, strada facendo decise che quando si taglia con una certa vita è giusto non avere zavorre così, forse per non mettere in pericolo anche noi con la propria impulsività, si accontentò di sapere che eravamo fuori dall’Italia proprio allo scoccare di quella che è passata alla storia come la Rivoluzione Motociclistica.
Il cellulare di mia mamma squillò proprio mentre eravamo ancora nella hall dell’albergo a guardare increduli le immagini del senato in fiamme con una V-Nox che sgommava sullo sfondo:
- Sono io Caterina, dove siete?
- Marco!! Dove sei!!!? Hai visto in Italia!?? Io e Giuseppe siamo…
- Siete in India? State bene?
- Certo Marco stiamo bene, siamo a Mombay! Ti stiamo cercando!!! Siamo all’hotel…pronto??...Marco!!?? pronto? Ci sei??? Pronto?? Mi senti?
La comunicazione cadde, addosso a mia mamma.



Fu l’ultima volta che mio padre si fece vivo, oggi posso dire che ci salvò da un destino terribile.
Dopo la rivolta del 24 luglio, un consiglio d’emergenza salì al potere e i motoclub presero il posto dei partiti politici. I motoclub riuscirono ad eleggere un governatore e a formare un governo di transizione che, oggi a ventidue anni dalla rivolta, è ancora in carica a furia di rimpasti “temporanei”.
La prima cosa che il Go.Mo.Tra. (Governo Motociclistico di Transizione) fece, fu il decretare il ritorno alla Lira e l’uscita dall’Europa: così, tanto perché Euro e Europa gli stavano sulle balle e non se ne poteva più. Successivamente furono abolite tutte le leggi non indispensabili a partire dal codice della strada. Di fatto in Italia rimase vietato il cannibalismo, l’abigeato, il desiderare la donna d’altri e poco altro. Il codice penale fu abrogato e sostituito da un foglio ciclostilato in proprio emesso mensilmente dal Go.Mo.Tra. contenente tutti i reati punibili per legge ma, dato che era stata abolita la magistratura, veniva demandato l’accertamento della responsabilità e l’esecuzione della pena ai testimoni del fatto, “per acclamazione”: tanto per fare le cose un po’ più sbrigative di quanto non lo fossero con tutti quei giudici col naso all’insù, a quel punto disoccupati.
L’anarchia, insomma. Eppure.



Tutta la brava gente che c’era in Italia, scomparve. Non nel senso che andò via, ma nel senso che nessuno seppe più comportarsi da persona civile, rispettosa degli altri, tutti diedero la stura ai propri desideri di realizzazione di piccoli e grandi piaceri, al proprio noncurante egoismo e in breve quella che realmente prese il sopravvento in Italia fu la legge del più forte. E noi, io e mia mamma, in India. Tutto questo era accaduto in sei mesi. Sei mesi nei quali non ci era mai passato manco per l’anticamera del cervello di tornare in Italia. Avevamo perso la casa, metaforicamente sciolto nell’acido la famiglia e ceduto forzosamente chissà a chi la ferramenta; una delle cose che mi ferì di più era che con ogni probabilità mio padre aveva buttato in un fosso la Vespa 50 con la quale io non avrei mai più potuto fare un giro. Quell’unico giro che mi separava dal diventare finalmente un uomo e valicare i confini dell’età adulta col benestare di mio papà. Decisi, quel giorno del mio arrivo in India, che non avrei tradito la Vespa 50 con un altro mezzo a due ruote; così, promisi a me stesso che non avrei mai guidato un’altra motocicletta.



Dottore, ha mai sentito di fronte a sé il vuoto? Era come si sentiva mia mamma: cadere in verticale nonostante la posizione eretta e il moto orizzontale. Si cade nel vuoto di tutto quello che le proprie svanite certezze e speranze hanno creato dentro la propria vita; e riempirlo non è facile.
Io, invece, avvertivo il mondo nelle mie mani, gli indiani mi piacevano e stabilii all’istante che quella sarebbe stata la mia patria o quantomeno il punto di partenza per la mia vita da adulto. Non ebbi bisogno di un percorso di formazione: sciogliendo gli ultimi nodi che mi tenevano legato all’adolescenza, fu sufficiente la certezza di essere pronto ad affrontare liberamente la vita senza nessuno che mi dicesse quali sbagli compiere e come. Stabilii, dato che non avrei mai più rivisto mio padre, che non c’era nessun’altra persona al mondo che avrebbe potuto dirmi cosa fare, che ogni scelta era adesso nelle mie mani e che io stesso ero la sola fonte autorevole che conoscessi: da andare a piedi a testa bassa alla ferramenta ad andare a piedi spavaldo in cerca di lavoro a Mombay, sfidando tutte le persone che incrociassi, in meno di quarantotto ore.



Mio figlio Giacomo non è lo stesso uomo che sono io. Lui mi chiede sempre cos’è che mi piacerebbe di più, cerca la mia approvazione, segue le mie orme e quando non le trova va da sua madre. Forse lei lo riempie di buoni consigli, forse no. Forse un uomo potrebbe fare a meno di piangere.
Non vorrei annoiarla, dico soltanto che in capo ad un anno da garzone di bottega in un’officina di riparazione motorini divenni rappresentante di pezzi di ricambio; poi incontrai Bernadette, ricca da sfamare l’Africa, e assieme a lei fondai la “Motocicli Moderni inc.” con sede a Mombay, India. Raccolsi tutte le aziende locali in difficoltà che producevano parti per quelle italiane, ora chiuse a causa della rivoluzione, le consorziai e mi misi a capo di un gruppo industriale enorme, con una potenza produttiva smisurata che contrastava quella dei giapponesi. Ma credo che questa sia storia nota anche per lei, dottore.
Ebbi le intuizioni giuste per produrre dei motorini che costassero ancora meno di quelli giapponesi e cinesi in vendita qui in Asia, in breve tempo conquistai il 70% del mercato locale e il 50% di quello mondiale nel segmento delle motociclette utilitarie costruendo e commercializzando una copia più o meno fedele della Vespa 50, ma fatta meglio: motore diesel, sella lunghissima per ospitare anche quattro persone o l’intero carretto delle merci, sospensioni robuste e prezzo d’attacco per produrre fino ad un milione di pezzi l’anno. Era una scommessa, eppure.



Eppure, io che non avevo mai guidato una Vespa, avevo compreso e centrato subito i bisogni degli indiani e degli asiatici in generale. La mia Intudefox 300 diesel veniva venduta ovunque, nei supermercati, per strada, nelle bancarelle, alle fiere paesane e dove non arrivavano i clienti arrivavano i miei furgoni, carichi di tante belle Intudefox 300 diesel da vendere, a fare visita ai centri più lontani e meno serviti. Il primo anno ne vendetti 1,3 milioni in tutta l’Asia, il secondo più di due e tuttora vendo quasi un milione di Intudefox l’anno. La stima che l’intera Asia aveva di questo ragazzo di ventitré anni, che ero io, era paragonabile alla sorpresa che sorgeva in mezzo agli occhi dei miei primi intervistatori quando raccontavo la mia storia personale ai tabloid e ai giornali. In pochi mesi tutto il mondo seppe chi ero e cosa facevo, quanto guadagnavo, i miei hobbies e anche il fatto che io non avevo mai guidato nemmeno la Vespa. La cronaca si occupava di me e arrivarono perfino a chiedermi di cedere i diritti di esclusiva per girare una fiction sulla mia vicenda. Non mi sembrava il caso, e rifiutai. Bernadette rimase incinta di Giacomo, poi ci sposammo con rito induista.
Eppure.

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Vedevo pochissimo mia mamma, e mi mancava molto: aveva preso casa per conto suo, preferendo condividere col suo nuovo compagno una piccola casetta in un terribile quartiere popolare. Io, invece, accanto alla mia villa ne avevo fatto costruire un’altra solo per lei e l’avevo fatta decorare con le pietre di fiume giunte di contrabbando dall’Italia, per lei avevo scelto i mobili e gli arredi più sontuosi, messo a disposizione una servitù selezionata da me personalmente e appeso in sala da pranzo una mia fotografia che le piaceva tanto. Le avevo soltanto chiesto di non andarci ad abitare con il suo uomo, uno che non so che mestiere facesse ma che girava come un pezzente con un motorino prossimo all’autodemolizione. Non era alla sua altezza, tantomeno alla mia, le spiegai un giorno quando mi recai a cena a casa sua per annunciarle l’ultimazione dei lavori e la disponibilità della villa che avevo costruito per lei. Per cortesia verso il suo uomo ovviamente parlavamo inglese, e io non avevo alcun problema a far trasparire la riottosità a quel legame non degno della nostra raggiunta desiderabilità sociale: mia mamma mi rispose in Italiano: “tesoro mio, se mi fossi fatta impressionare dalle case, tu non saresti mai nato”; sorrise, carezzò prima me e poi il suo uomo e disse in inglese: “Gagan, mio figlio ti vuole bene ma non può sopportare che un uomo diverso da suo padre stia nella stessa casa che ha costruito per sua madre, rispettiamo i suoi sentimenti e rimaniamo qui”.



Insomma, mi ritrovai per strada, le otto di sera, decine di Intudefox mi sfrecciavano accanto riempendomi di polvere, solo, arrabbiato, in un quartiere popolare di Mombay. Mia mamma mi aveva abbandonato, sentivo nella testa le sue parole distanti come un eco e mi venne da piangere. Il momento e le condizioni erano perfette per commettere qualche scelleratezza, che prontamente compii.
Pieno di risentimento verso me stesso, andai dritto in una delle mie fabbriche, entrai nonostante l’orario inconsueto e mi feci consegnare una Intudefox:, tra gli occhi smarriti degli astanti, cercai di avviarla e montarci su. Non avevo minimamente idea di cosa significasse il vento in faccia e per quei pochi metri che mi separarono dall’urto con il ribaltabile, me la godetti per davvero. Capii in pochi secondi il ghigno soddisfatto dello sciame che giornalmente intasa le strade di questa metropoli calda, il loro sentirsi tutt’uno con la terra e col vento, la calma che infonde sentire sotto le proprie mani e il sotto il sedere le vibrazioni e il calore del motore alle otto di sera, quando il vento è calmo e l’umidità sale. Poi, l’impatto rovinoso col rimorchio fermo di uno dei miei camion. Pensavo che il freno fosse a sinistra.



- Altro the?
- Yes, please.
- Ogni volta lei mi racconta la stessa identica storia, e ogni volta io mi pongo la stessa domanda: possibile che lei non sapesse nemmeno dove fosse il freno??
- …forse avevo pure mandato giù qualche bicchiere.
- …e mi risponde in modo sempre diverso ogni volta. Un’ultima domanda, Giuseppe: si ricorda quanti anni aveva quando è successo questo incidente? - Ventiquattro, dottore.
- Va bene, almeno su questo inizia a essere coerente; penso che per oggi possa bastare, ci vediamo domani. Stesso orario.
Giuseppe esce dallo studio dello specialista. Cerca il telefono tra le tasche e il borsello, dà un’occhiata alle chiamate e prosegue zoppicando verso l’auto con autista.
Cerca il numero della madre, si siede in macchina e fa un cenno con la mano per far partire la vettura. Chiama, nessuna risposta. Ma c’è da capirla, il cellulare è stato un regalo che non padroneggia e, così, ogni volta che vuole incontrare la madre, Giuseppe è costretto ad addentrarsi nel quartiere periferico, dove la linea telefonica fissa non arriva. Arrivarci con una berlina di lusso non è consigliabile e preferisce sempre farsi lasciare dall’autista qualche isolato prima e fare una passeggiata, pensando a quella villa pronta e disabitata per sua mamma e arrabbiandosi. Ma poi gli passa.



Scende dalla macchina con la testa alla sorte del figlio, tre giorni senza dare notizie di sé. Forse è stato troppo duro con lui, forse non gli ha mai fatto sentire quanto bene gli volesse al di là della posizione economica e sociale che gli aveva donato con sincero piacere. Forse suo figlio non aveva mai capito e accettato la separazione da Bernadette appena pochi mesi dopo la sua nascita. In ogni caso, Giuseppe pensava che è più facile cedere ai sensi di colpa quando non hai la possibilità di scaricarli su qualcun altro, di giustificarti.
Cammina, Giuseppe, nel quartiere fangoso e maleodorante. Resta da percorrere l’ultimo tratto, l’ultimo isolato di baracche. Proprio qui doveva venire a stare sua mamma, pensa insozzando le scarpe con una fanghiglia della quale non vuole conoscere la composizione. E’ arrivato; vede la buia sagoma della casetta appena decente. Davanti al cancello è parcheggiato un furgone, due uomini stanno scaricando qualcosa, un altro dirige le operazioni, sembra con molta cura e attenzione.



Giuseppe è lento, zoppica dall’incidente, si affatica presto.
Arriva al cancello. Si ferma, trasale e spalanca gli occhi in una smorfia di sconcerto e sorpresa.
- L’ho trovata, papà.
- Giacomo!! Giacomo!!!
- Sapevo che saresti venuto qui senza passare da casa… Papà, l’ho trovata. Eccola.
In mano ai due uomini, tenuta in equilibrio con la massima cura, sporca ma riconoscibile, lei: la Vespa 50 del padre di Giuseppe, il nonno che Giacomo non ha mai conosciuto. Giuseppe trattiene le emozioni, si controlla alla vista dei due uomini suoi dipendenti anche se la prima cosa che vorrebbe fare è abbracciare il figlio; o forse no. Forse vorrebbe salire sulla Vespa e fare “bruuuuuuuum”.
- …come hai fatto? Come stai, quando sei tornato?
- È stato difficile, papà, ho speso una barca di denaro: ho corrotto tanta gente, ho pagato un tanto al chilo la terra che scavavo, mi sono fatto dei nemici, ho dato dei dispiaceri a qualcuno, altri ne ho ricevuti ma alla fine ho trovato la vecchia ferramenta, la tua vecchia casa e in un fosso, proprio come supponevi tu, ricoperta di rifiuti e terra, l’ho trovata. E’ la Vespa che tu hai sempre voluto guidare, è qui.
- Maledizione a te Giacomo! Perché non ti sei fatto sentire?? Ho avuto paura che ti fosse accaduto qualcosa!!
- L’Italia non è un posto accogliente, papà. Quella che era la vostra casa è in un’area non più coperta dalle comunicazioni, la gente mi guardava male, uno straniero è un caso raro; ho dovuto agire nell’ombra, nascondermi, ho temuto che mi accadesse qualcosa ad ogni angolo. Ogni ora passava la ronda in sella a moto ultrasilenziate e se mi avessero trovato a scavare, forse quella fossa sarebbe stata la mia sepoltura...
- Ma dai… com’è possibile? I motociclisti italiani ridotti alla barbarie?? Non ci credo, Giacomo!
- Credo che sia tutta una montatura, papà. La rivoluzione è stata studiata a tavolino, forse anche il “Sistema di Esazione Globale con Acquisto Motociclo” è stato un mezzo per far saltare tutto e dare all’Italia una scusa per non pagare il debito pubblico e fare finta che tutto fosse diverso, non sono l’unico a pensarlo ormai. Mi sono accorto che a capo dei motoclub ci sono gli stessi volti, le stesse persone che hanno portato il paese alla rovina, mentre erano al governo avevano già formato i motoclub, esportato capitali, progettato tutto, papà. I motociclisti sono stati gabbati, come sempre, e per gabbare tutta l’Italia hanno fatto diventare tutti gli italiani dei motociclisti. Avevi ragione tu, l’Italia è un paese che non cambia. Nemmeno quando tutto cambia. Ora c’è una dittatura, travestita da anarchia. Sono contenti così.



- …mio padre aveva ragione ad andarsene…
- …il nonno è stato un vigliacco, papà. Ha lasciato te e la nonna da soli.
- Mio padre era intransigente, duro, rigido, impulsivo ma non era cattivo!
- Il nonno è scomparso senza curarsi più di voi, e non ti ha mai fatto salire sulla Vespa. La Vespa era sua, tu andavi a piedi! Ti sei trascinato fino ad oggi questa privazione, facendola pesare a me e alla mamma, hai costruito un impero motociclistico come nemesi da questo retaggio, non hai voluto guidare nulla che non fosse la Vespa solo perché volevi che l’affetto di tuo padre si manifestasse concedendoti, illuso, un giro da solo in Vespa; magari desideravi che lui ti insegnasse a guidarla e speravi che la sua approvazione ti marchiasse come appartenente al mondo dei grandi, degli adulti. Ma non è mai accaduto e mai accadrà, papà. Tu sei diventato adulto lo stesso mentre il nonno è scomparso e vive chissà dove. Io, su consiglio del tuo psichiatra, ho provato a cercarlo ma se ne sono perse le tracce in Bangladesh tanti anni fa. L’avere portato la tua Vespa, qui, dall’Italia, è la mia ultima spiaggia per farti tornare in te. Ne abbiamo bisogno tutti: l’azienda, io, te stesso.
- Devo farla vedere a mia mamma! La faccio uscire…
- Papà! Papà, basta!! La nonna è morta di crepacuore nell’hall dell’albergo ventidue anni fa, alla fine della telefonata col nonno. Rassegnati, ti prego. E’ morta, è in una fossa comune.
- Non è vero! Abita qui!! Te lo faccio incontrare!!
- Papà, non puoi continuare ad illuderti… tu non puoi continuare a immaginare una realtà diversa: hai costruito una villa per una donna morta ventidue anni fa, vieni qui a trovarla in questa baracca dove non abita nessuno, nella quale hai pure lasciato un telefono cellulare con la scheda intestata al nome della nonna!! …papà, ti prego, basta. Io ho bisogno di te, che tu faccia i conti con la realtà, che tu capisca che tuo padre, dovunque sia, oramai non può più giudicarti, non devi più temere le sue punizioni impulsive. Magari è morto pure lui. La tua Vespa è qui, è sporca ma domani la puliamo insieme e la facciamo sistemare. Poi potrai farti un giro, libero, indipendente… magari con la mamma dietro, che ti ha lasciato perché non sopportava più di avere accanto un uomo che crede che la propria madre sia ancora viva solo perché ha messo su un piedistallo la figura della persona che ne ha provocato la morte!



Giuseppe barcolla. Getta il bastone che lo accompagna e si appoggia al furgone. Rivive certamente il momento in cui sua mamma lascia cadere il telefono a terra, indietreggia, crolla a terra come un sacco vuoto: la hall dell’albergo che si sconvolge, l’ambulanza, le voci che parlano una lingua sconosciuta, lo sguardo rassegnato dei medici che non provano nemmeno la rianimazione. La solitudine profonda e il vuoto in cui precipita. Non era un sogno, lui c’era.
- Giacomo… figlio mio…
- …andiamo a casa, papà.
La strada buia è illuminata solo dai fari del furgone; non si capisce se negli occhi di Giuseppe ci siano lacrime o solo il riflesso degli occhiali, mentre tocca la Vespa 50 con cura e dolcezza. Gli operai rimettono la Vespa nel furgone, Giacomo prende posto in cabina, fa spazio al padre e gli fa cenno di salire. Lui si accomoda come può in un sedile troppo piccolo per quattro persone. Tira lo sportello verso di sé e mentre il motore si avvia rivolge al figlio tre parole:
- Ti voglio bene.
- Anch’io, papà. Bentornato.
Il furgone si avvia piano, la strada non ha illuminazione ed è pericolosamente deserta. Percorsi appena pochi metri, nella casetta alle loro spalle si accende, debolissima, una lampadina. Nello stesso momento, arriva un messaggio al cellulare di Giuseppe che estrae dalla tasca il telefono.
Giuseppe sorride e tace: il mittente è “Mamma”; il testo, in italiano: “Anche io ti voglio bene. Vai piano con la Vespa.”.
Giuseppe pensa “eppure”.
Già, eppure.


Antonio Privitera

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