Guy Martin. "Pronto a morire" per essere il più veloce su una moto

Guy Martin. "Pronto a morire" per essere il più veloce su una moto
Marco Berti Quattrini
La sfida è quella di superare le 300 miglia orarie. Un nuovo record ovviamente su due ruote
5 febbraio 2021
Guy Martin è prima di tutto un personaggio, ha un fascino d'altri tempi. Sembra uscito da un film anni Cinquanta di Nicholas Ray. Motori, velocità e un disprezzo per la morte che è sempre in bilico tra il nichilismo e smargiasseria. Il pilota britannico non riesce a stare fermo. E' diventato famoso correndo il TT, ma la dopo qualche anno l'Isola di Man ha cominciato ad annoiarlo: "Anche se il TT è molto estremo, era sempre lo stesso circuito e la stessa routine ogni anno" ha spiegato in un'intervista con il suo sponsor, Morris Lubricants.
 
Guy si è cimentato in diversi progetti, come ad esempio rifare il celebre salto de "La grande fuga" e ha battuto record di ogni genere. Le sue imprese hanno avuto così tanta risonanza che Channel 4 ha deciso di incentrare su di lui una serie: Speed with Guy Martin. In cui Martin faceva ciò che gli riesce meglio: infrangere record di velocità su ogni tipo di veicolo a motore e non. 
 
Ma un conto è entrare nel Guinness con sfide divertenti in uno spettacolino per famiglie, un'altro è diventare l'uomo più veloce al mondo su una moto. Perché questo è il vero obiettivo di Guy Martin, da quando nel 2018 ha acquistato una Suzuki Hayabusa usata a 5.600 euro. Con l'aiuto di Jarrod 'Jack' Frost l'ha trasformata in un mostro sovralimentato da 830 cavalli. 
 
Tenta il record di velocità sul miglio con partenza da fermo da due anni.  Nel 2019, Martin ha toccato le 270,9 mph (435,9 km / h) in un test all'Elvington Airfield. Nel 2020 è andata ancora meglio:  282 mph (453,8 km / h). Quest'anno l'obiettivo è toccare le 300 mph... costi quel che costi. "Penso che quando fai qualcosa di questo tipo, se non sei pronto a morire non è veramente quello che vuoi. Quando ho iniziato a correre mi piaceva così tanto che sarei stato disposto anche a morire per farlo. Dopo quattro o cinque anni lo facevo perché ero competitivo, ma morire non ne valeva più la pena"
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