I racconti di Moto.it: "Avventura in moto. Adesso"

I racconti di Moto.it: "Avventura in moto. Adesso"
Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
Nel 1994 il collegio svizzero “Educandato Purità e Compassione” accettò la mia iscrizione e vissi i cinque anni delle superiori reclusa in una camera doppia con vista sul parco; nei fine settimana tornavo a casa in sella alla mia 125 di seconda mano
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
27 febbraio 2015

Punti chiave

Nel 1994 il collegio svizzero a tempo pieno “Educandato Purità e Compassione” accettò la mia iscrizione al liceo classico e vissi i cinque anni delle superiori reclusa in una camera doppia con vista sul parco; nei fine settimana tornavo a casa in sella alla moto 125 di seconda mano, ricevuta in regalo dai miei genitori con il taciuto fine di sollevarli da quell’incombenza noiosa di riportarmi a Milano e una volta in sella non ne scendevo più: trascorrevo in motocicletta tutto il sabato e tutta la domenica percorrendo centinaia di chilometri tra un pranzo da mio padre e una cena a casa di mia madre come un ospite che non appartiene né all’uno né all’altro luogo. I miei pit stop li facevo nelle librerie dove acquistavo volumi sui viaggi e sulle motociclette avidamente letti in ogni momento libero del destino comune ai figli di divorziati, quel sentirsi degli estranei cooptati nelle vendette verso l’ex coniuge servite ormai, più che fredde, ibernate.

Il lunedì mattina prestissimo inforcavo il 125 e tornavo in collegio, mentre papà e mamma riprendevano a dedicare la loro vita a rifarsi una vita, facendo poco caso al simpatico ossimoro.

 

All’“Educandato Purità e Compassione” dividevo la stanza con Agnese, una coetanea torinese di bella presenza, orfana di entrambi i genitori che le avevano lasciato un notevole patrimonio; Agnese Mileto era mite, altera e odorava ancora del cellophane nel quale sembrava essere stata imballata per giungere al collegio svizzero tutta così perfettina come si mostrava; onestamente, era una vera icona della inutilità e della spocchia: la detestavo. Trascorrevamo i giorni facendoci piccoli dispetti senza però che nessuna di noi pretendesse mai dall’altra un comportamento diverso o si lamentasse con la direzione del collegio. La nostra ostilità era un affare interno alla camera 14 e scorreva sottotraccia regalandomi ogni tanto qualche piacevole diversivo come inquinarle con un po’ di benzina l’acqua dei fiori che teneva sul davanzale oppure fumare in camera e appestarle il cuscino. Lei mi ripagava sporcando di terra i miei libri sulle motociclette e facendo finta di parlare nel sonno, svegliandomi di soprassalto. La bastarda conformista era una specie di isterica che urlava cose prive di senso durante la notte, le chiamava le “visioni”, ma intanto io dormivo con i tappi, e firmava con una “A14” (suppongo significasse Agnese stanza 14) i suoi dispetti lasciando un bigliettino vergato a mano con un pennarello dopo ogni piccola vendetta.

 

Una volta in sella alla mia 125 non ne scendevo più: trascorrevo in moto tutto il sabato e tutta la domenica percorrendo centinaia di chilometri tra un pranzo da mio padre e una cena a casa di mia madre, come un ospite che non appartiene né all’uno né all’altro luogo

Nacque in quegli anni la mia fissazione per il “viaggio in Oriente” che avrei fatto appena uscita dall’Educandato: trovavo sinceramente ributtante la normalità ed ero un’adolescente appassionata per le moto e i viaggi; rivendicavo il diritto di partire puntando i piedi con i miei genitori dai quali ottenni facilmente l’assenso; del resto potersi vantare con le amicizie perbeniste una figlia in giro per il mondo in motocicletta a diciott’anni era un’invidiabile plus radical chic, bastava pagarmi un volo aereo e dotarmi di carta di credito: un buon affare per tutti.

Il mio progetto era di attraversare in motocicletta l’India e il Nepal per toccare Buthan, Bangladesh e Myanmar, giungere a Bangkok alla fine della stagione delle piogge e fare ritorno a casa entro Natale, abbandonando in aeroporto la motocicletta seguendo l’esempio di molti altri viaggiatori. Ne parlavo con tutti al collegio e notavo che Agnese ascoltava con attenzione.

Poco prima degli esami di maturità, a lezioni concluse, Agnese mi fece trovare in camera un pacchetto rosa con dentro una catenella d’argento e un ciondolo che raffigurava una fiammella; sorrise e mi disse che era il suo augurio di buon viaggio. Lo presi, lo guardai, trovai che alla catenella mancava il gancio per chiuderla al collo e lo lanciai dalla finestra. Ringraziai educatamente la piccola stronza e benedissi il momento in cui fui sicura di essermela lasciata alle spalle.

 

Quell’estate tributai riluttante una vacanza a ciascuno dei miei genitori e misi a punto i dettagli: il 125 fu accuratamente revisionato in vista del gravoso impegno per essere poi imballato e spedito a Delhi; il 18 ottobre arrivai da sola in taxi a Linate e dopo un lungo volo trovai ad attendermi all’aeroporto indiano Masone, un amico di papà in servizio presso l’ambasciata italiana che mi aiutò a sdoganare la moto; gentile ma poco loquace, un individuo anonimo. Pochi giorni dopo ero già nelle montagne dell’India nord-occidentale; di chiamare casa – di mamma, di papà? - se ne sarebbe parlato dal Nepal in poi, in quel momento ero immersa nella sensazione di onnipotenza.

Dopo i primi giorni eccitati e incerti, il terzo pomeriggio arrivai su un altopiano quasi al confine e mi fermai per scattare qualche foto all’Himalaya visto da lontano. Faceva molto freddo, le articolazioni delle gambe faticavano a piegarsi nonostante l’abbigliamento più che adeguato e sfilare la fotocamera dalla custodia fu un’impresa. Feci alcune fotografie, poi tornai alla motocicletta ma il motore era sordo ad ogni tentativo di ripartire: una, due, cinque, dieci, trenta pedate sul kick starter ed iniziai a preoccuparmi.

Nessuno di passaggio a cui chiedere aiuto, nessun carro, nessun camion, solo il vento gelido; sfidai il freddo e mi sfilai i guanti, inginocchiata accanto alla motocicletta ammutolita. I pochi attrezzi a corredo della mia avventura erano ghiacciati e toccarli faceva male. Sibilai qualche preghiera, poi ripiegai sulle bestemmie ed esaurito il repertorio maledissi oggetti e persone a casaccio.

 

Sudai ghiaccio solo per smontare la candela, la ceramica di quella piccola stronza mi si sbriciolò tra le mani ma ne fui felice perché pensai di avere trovato la causa del guasto; ne montai un’altra ma dopo aver insistito vanamente con la leva decisi di avviare la moto a spinta percorrendo a ritroso e in discesa il sentiero

Sudai ghiaccio solo per smontare la candela, la ceramica di quella piccola stronza mi si sbriciolò tra le mani ma ne fui felice perché pensai di avere trovato la causa del guasto; ne montai un’altra ma il grado termico era totalmente inadatto per le rigide temperature alle quali mi trovavo e dopo aver insistito vanamente con la leva decisi di avviare la moto a spinta percorrendo a ritroso e in discesa il sentiero. Saltai in sella e iniziai a sgambettare, al momento giusto inserii la seconda e mollai la frizione: la moto trattenne il fiato per un breve attimo seguito da un rumore sordo come una frustata, quindi continuò a correre; guardai indietro e constatai che la catena giaceva a terra dieci metri più dietro. In quel momento pensai che era veramente finita: ero: stanca, sudata e con una moto che non aveva più né motore, né trasmissione.

Razionalmente non restava che accendere il telefono cellulare che mamma mi aveva comprato per l’occasione e chiedere aiuto, come una balise durante la Parigi-Dakar che è un po’ come alzare bandiera bianca e dire “ok, mi arrendo”. Odiai quel momento di definitiva capitolazione ma inutilmente, dato che non c’era campo; scrissi e inviai alcuni sms nella speranza di agganciare prima o poi una rete gsm. Presi fiato: si avvicinava un tramonto che avrebbe abbassato una temperatura già glaciale. Il primo centro abitato segnato sulle carte distava venti chilometri proseguendo verso nord, non mi sentivo assolutamente capace di raggiungerlo a piedi.

 

Guardai il panorama che scendeva giù dall’altopiano e risaliva fino alle montagne dell’Himalaya: era quasi l’imbrunire e il tratto di sterrato su cui mi trovavo costeggiava una valle dove molto in lontananza scorgevo delle tiepide luci, l’illusione che qualche chilometro più giù – cinque, tre, dieci… boh - ci fosse presenza umana mi diede la forza necessaria a provarci ma era necessario alleggerirsi alla svelta, iniziai dal bagaglio: lasciati nello zaino solo i documenti, i soldi e l’indispensabile per sopravvivere, asportai tutto il superfluo dalla moto e ciò che non riuscii a smontare fu strappato via dalla mia disperazione; recisi con la pinza i cavi del gas al carburatore penzolante, rimossi cupolino, fiancate, parafanghi, lasciai a terra le valigie laterali assieme al loro telaietto e a tutta l’inutile zavorra portata dall’Italia, fissai con nastro telato delle torce elettriche agli steli della forcella e quella frontale sul casco, poi mi piantai sul margine dello sterrato con la ruota anteriore rivolta verso il pendio ripidissimo che precipitava giù per chilometri.

Il sole era basso e quelle luci in fondo alla valle erano quasi reali: accesi le torce e il faro della moto chiedendomi per quanto tempo la batteria della motocicletta avrebbe retto, conscia del fatto che fare downhill estremo fosse follia pura ma provarci senza nemmeno capire bene dove mettere le ruote aveva un nome preciso: tentativo di suicidio. Per un attimo tornai al collegio, alla mia stanza doppia, ad Agnese con la quale avevo interrotto una splendida guerriglia, alle vacanze separate con mamma e con papà, alla remota possibilità di tornare in Italia per il capodanno del 2000 e trovai la forza per iniziare la discesa libera, urlando un potentissimo vaffanculo.

 

Mollai i freni sperando nella capacità della motocicletta di sopportare gli scossoni e le botte che il terreno accidentato procurava; l’emozione che provai avanzando a razzo nel silenzio più assoluto mi faceva godere in misura insensata e irresponsabile, fermarmi ogni tanto dove la pendenza non era assassina mi dava ulteriore carica rafforzando in me l’idea che avrei anche potuto farcela. Quando arrivai dove la vegetazione era più fitta, una grossa pietra non fu digerita dalle sospensioni e mi ritrovai per terra mentre la moto iniziò a carambolare per fermarsi contro una roccia molti metri più in basso, con la forcella piegata e i cerchi alla Dalì. Senz’altra opportunità e dolorante proseguii a piedi arrivando dopo alcune ore ad un piccolissimo villaggio illuminato da fioche lampade a gas, mangiai qualcosa grazie all’ospitalità di brava gente, aspettai un po’ al caldo, poi mi impossessai di un motorino grazie alla loro distrazione e mi allontanai prima di essere scoperta.

Ignoravo il grado di severità delle leggi indiane tuttavia temevo che la giustizia locale fosse più rapida di quella italiana e meno comprensiva, perciò navigai a tutto gas verso sud fermandomi solo a serbatoio asciutto mentre percorrevo una strada di grande comunicazione: mi nascosi in attesa dell’alba dopo la quale non fu difficile trovare un passaggio fino all’aeroporto di Delhi dove arrivai nel pomeriggio.

Ero piena di lividi, e incazzata col mondo. Ero pure diversa da ieri e ne avevo già avuto abbastanza di avventura, di India e di tutto il resto: cazzo, portatemi a Milano, portatemi in un luogo dove se rompo la moto non rischio la vita per tornare a casa. Acquistai un biglietto per il primo volo destinazione Malpensa e andai a sedermi in una poltrona per la lunga attesa prima del check-in.

 

Venni svegliata dallo squillo del telefono. L’avevo dimenticato: certamente i miei sms invocanti aiuto erano giunti ai cellulari di mamma e papà; risposi con un “pronto” scorbutico. Era mia mamma: tutto bene? Tutto bene, torno domani, sono in aeroporto. Chiama quando arrivi, ok? Ok. Lo avevo detto a tuo padre di non farti partire, meno male che ci sono io. Sì, hai ragione, mamma. Ora chiudo, ci vediamo… quando è che torni? Domani, mamma. Ah, sì, domani, mando tuo padre a prenderti. Grazie mamma.

Riattaccai e aggiunsi mia madre al mondo. Col telefono sulle gambe attesi che squillasse, ne ero certa. Risposi con un “pronto” nevrotico: Alessia, tutto bene? Tutto bene, papà. È da ieri che cerco di chiamarti. Lo so, dov’ero non prendeva. E dov’eri? Sulle montagne ai confini dell’India. Ah, ma non eri in Giappone? No, ero in India. Ah, ed era bello? Si, molto bello papà. E la moto? La moto si è rotta, sono arrivata in aeroporto in taxi. Aeroporto? Si papà, prendo il primo aereo per Milano. Cadde la linea; stanca e arrabbiata suppongo di essermi appisolata per un po’.

 

Mi disse di seguirlo in silenzio all’esterno dell’aeroporto, poi mi raccontò una storia pazzesca: cinque anni prima aveva ricevuto una telefonata incredibile da una ragazza italiana, la figlia dell’ambasciatore italiano appena deceduto assieme alla moglie in un disastro aereo

Alcune ore dopo mi presentai al check-in, zona A banco 14. Avevo il biglietto in mano ma cercando il passaporto mi accorsi che ero stata derubata del portafogli e del cellulare. Probabilmente era accaduto mentre dormivo: l’inflessibile addetta indiana mi negò l’imbarco. Smarrita e incredula come dopo un tre in latino venni avvicinata da un uomo che riconobbi come Masone, sembrava più stupito di me. Mi disse di seguirlo in silenzio all’esterno dell’aeroporto, poi mi raccontò una storia pazzesca: cinque anni prima aveva ricevuto una telefonata incredibile da una ragazza italiana, la figlia dell’ambasciatore italiano appena deceduto assieme alla moglie in un disastro aereo. La ragazza lo aveva avvertito che il 19 ottobre 1999 sarebbe arrivata a Delhi una turista italiana di nome Alessia a reclamare una moto in dogana; lui l’avrebbe aiutata a sdoganare una moto, tanto più che Alessia sarebbe stata la figlia del nuovo segretario di un noto partito politico italiano. Quattro giorni dopo quella stessa ragazza si sarebbe trovata al banco del check-in dell’aeroporto di Delhi banco del check-in A14, senza passaporto e senza denaro, senza possibilità di essere riconosciuta e le sarebbe stato rifiutato l’imbarco. Lui l’avrebbe presa e portata al di fuori dell’aeroporto e le avrebbe riferito questa storia e consegnato cento dollari, un biglietto appena arrivato dall’Italia via posta e un motorino a frizione automatica usato. Per tutto questo avrebbe ricevuto 15.000 euro, in anticipo e oltre le spese. Masone era imbarazzato, io affascinata e stupita. Aprii il bigliettino c’era scritto “la vera avventura in moto inizia adesso.”, come firma un segno che conoscevo: “A14”.

Voi cos’avreste fatto?

Io puntai a Nord. Non tornai più a casa, lessi dei miei funerali il mese successivo. Un anno dopo mio padre si risposò, mia madre si trasferì in America e fu intitolata a mio nome una stanza della segreteria del partito a Roma e una piazza nella periferia di Milano. Masone aprì un import-export di prodotti italiani e di Agnese non ebbi mai notizie. Trovai però altri tre bigliettini con la scritta “A14”; uno mi fu consegnato da un bambino mentre visitavo un tempio Khmer in Cambogia nel 2001, un altro da un barcaiolo laotiano che mi traghettava sul Mekong nell’agosto del 2004 e un altro nel gennaio del 2010 quando mi arrivarono le moto che ordinai dal Giappone per la mia agenzia di Adventure-Tours in Mongolia. Grazie, piccola stronza.