La Daytona Bike Week e i ribelli della domenica

La Daytona Bike Week e i ribelli della domenica
Pietro Ambrosioni
  • di Pietro Ambrosioni
La Daytona Bike Week un tempo ospitava uno dei più numerosi e "selvaggi" raduni degli USA. Ora è meta di pellegrinaggio di professionisti in gilet di pelle
  • Pietro Ambrosioni
  • di Pietro Ambrosioni
11 marzo 2015
Andare fino a Daytona per il Supercross e non poter fare foto per colpa di una spalla fuori uso ha senza dubbio rovinato la mia settimana ed acuito il mio spirito critico. Perdonatemi dunque se per una volta non canto assieme al coro che loda “il più grande raduno Harley Davidson” al mondo (una frase che la municipalità di Daytona Beach ha addirittura brevettato!). Tra l’altro mi piacerebbe sapere cosa ne pensano a Sturgis…
 
Un raduno che fino a una decina di anni fa contava quasi un milione di moto e che ora ne fa a stento 150 mila non è proprio al culmine del successo: i motivi sono molti e ve ne parlo dettagliatamente più sotto, ma a mio parere il problema principale resta lo stesso di cui vado lamentandomi da sempre. Il mercato USA, o meglio, la maggior parte dei motociclisti negli Stati Uniti sono più in età da geriatrico che in età da motoraduno. Basta passeggiare per Main Street, anni fa archetipo del concetto “donne e motori” per accorgersi che le donne sono ormai delle simpatiche vecchiette, e i motori sono quelli di moto quasi nuove, che vedono la luce una volta o due all’anno, come certe Fiat 131 che ancora trovi per le strade di Milano alla domenica, guidate dall’immancabile signore col cappello.
 
Va poi considerato il fattore costi: per dirla come il mio amico Gary: “Motorcycles are a rich boy game”. Ma non è sempre stato così. Un tempo a Daytona si pernottava con $50 e potevi mangiare con $10. Le birre costavano $1 a bottiglia e la città era il regno assoluto dei bikers. In quella settimana erano loro a comandare. Oggi anche la peggiore stamberga ti chiede tra i $150 e i $200 a notte, un pasto decente ti costa almeno $20 e le birre costano $5. Ma il vero danno lo sta facendo la città di Daytona, che usa la Bike Week (e la 500 Miglia NASCAR la settimana prima) per riempire le casse: da qualche anno sono state installate telecamere ai semafori che immortalano impietosamente ogni minima infrazione. I limiti di velocità sono stati ridotti ovunque a livelli ridicoli e sciami di poliziotti sono appostati ovunque per pizzicare i motociclisti indisciplinati.
 

È vero, i motociclisti qui sono benvenuti ma non esattamente per il motivo che pensiamo…
 
Uno dei colpi di grazia alla manifestazione è arrivato però qualche anno fa con la disputa tra il mitico e purtroppo defunto Bruce Rossmeyer e la città di Daytona. Bruce, rimasto ucciso in un incidente motociclistico mentre si recava a Sturgis nel 2009 (non indossava il casco…), era il proprietario di Destination Daytona, una delle più grandi se non la più grande concessionaria Harley in America. La concessionaria si trovava un tempo in pieno centro e dopo che la municipalità iniziò ad essere troppo esosa e allo stesso tempo restrittiva riguardo agli eventi organizzati da Rossmayer durante la Bike Week, l’imprenditore decise di spostare baracca e burattini a Ormond Beach, una decina di miglia più a Nord. Da quel momento la Bike Week si è sempre più spaccata in due, con gli harleysti “duri e puri” che raramente scendono in città, e un plotone di “poser” che, totalmente ignari, setacciano ogni negozio e bancarella a la ricerca di magliette, adesivi e patacche da cucire sui loro giubbotti comprati l’altro ieri.
 
È qui che arriva il bello: i “poser”. Sono perfettamente ritratti nel film/presa per i fondelli “Wild Hogs” con John Travolta.
Il poser dei biker è normalmente tra i 45 ed i 60 anni, spesso commercialista, chirurgo, avvocato e via dicendo. Normalmente gira in giacca e cravatta ma a Daytona si scatena: gilet in pelle, stivaloni da vichingo, bandana HD, barba incolta (di due giorni) e abbronzatura arancio fluo con le bolle (a Chicago e New York a marzo c’è la neve, mica il sole). Le patacche e i distintivi che ha sul gilet non li ha guadagnati sul campo ma erano già li quando lo ha comprato. Gli stivali sono ancora lucidi e la moto generalmente ha meno di 1.000 miglia sul contachilometri (beh, contaMIGLIA in questo caso).
 
La parte migliore è la moto, appunto. Quando in albergo ti dicono di lasciare liberi i parcheggi centrali per i carrelli al momento non capisci, poi realizzi: qui non arrivano guidando la moto, qui la moto se la portano sul carrello. Molti, moltissimi altri nemmeno guidano: volano direttamente a Daytona e si fanno consegnare la moto in albergo da una delle decine di aziende specializzate. Il primo giorno i poser lo passano a lucidare la moto, poi per il resto dei 10 giorni fanno la spola tra il Daytona International Speedway, Destination Daytona (dove stanno ormai prendendo piede) e Main Street, giusto in tempo per lo “struscio” delle 7.
 
Ma torniamo alle moto, perché quelle sì, sono spesso davvero belle e uniche, lo concedo. Questa è gente che sta bene e non bada al soldo pur di avere qualcosa che si distingua tra la folla di Dyna, Electra Glide e Fat Boy. Io stesso, che arrivo dal motocross per cui non potrei essere più lontano dal concetto cruiser, so apprezzare delle belle special, realizzate in centinaia di ore di duro lavoro (mica del poser, lui paga e basta).
 
L’unica cosa a cui non mi abituerò mai (oltre ai poser) è però il rumore degli scarichi: nella guerra di celodurismo vince chi fa più fracasso, e pur di farsi notare sono tutti disposti a sfondarti i timpani. A me personalmente delle volte sembra che vadano in risonanza le costole, e spero che nessuno di questi tamarri capisca l’italiano o prima o poi mi troverò in qualche guaio…
 
Saluti dalla Florida e… spero di non aver offeso nessuno!

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