Nico Cereghini racconta la storia delle Kawasaki 2 tempi

Nico Cereghini
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Alla fine degli anni Sessanta il mondo era a quattro tempi, quando apparve la Kawasaki 500 Mach III fu come se fossero sbarcati i marziani in piazza San Pietro | N. Cereghini
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26 aprile 2011

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Il mondo era a quattro tempi, alla fine degli anni Sessanta. Sono cicli che si rincorrono. Circolavano le inglesi, la Guzzi V7, la prima Laverda 650 GT, la BMW 75/5. A due tempi solo la Vespa e il Ciao. Quando apparve la Kawasaki 500 Mach III fu come se fossero sbarcati i marziani in piazza San Pietro.
Ai giapponesi l’aveva chiesta l’importatore USA, Los Angeles. Vendeva già le bicilindriche Kawa due tempi Samurai 250 e Avenger 350, ma lui voleva una 500 esagerata: sibilante, leggera, impennatrice. A metà 1969 la H1 500 Mach III arrivò anche in Europa, bianca con banda azzurra, tre cilindri in linea raffreddati ad aria. Con 60 cavalli a 8.000 giri, tre carburatori Mikuni 28, cinque marce. Con la prima accensione elettronica CDI, miscelatore con pompa Injectolube, manovelle a 120 gradi e sibilo da jet: per questo Mach III. Era annunciata per prestazioni esplosive: 200 all’ora, solo 4 secondi per raggiungere i 100 orari da fermo, 174 chili a secco. Ma il telaio a doppia culla era debole, la forcella era una forcellina, i freni solo a tamburo, con l’anteriore a doppia camma da 206.

Sarebbe rimasta in produzione fino al ’77, la 500, quando la crisi petrolifera suggerì lo stop. Perché beveva: meno di 10 km/litro di media, 130 km d’autonomia. Circa duecentomila pezzi costruiti, otto versioni in totale e non tutte vendute in Italia. Con il freno a disco a partire dal ’71 (e le puntine per risparmiare!), appesantita e addomesticata dal ’73. La importavano Scaffa e Abbo di Genova, una coppia alla Gianni e Pinotto. Simpatici. Fecero un mucchio di soldi.

 

E’ una moto nella storia e in tanti vecchi cuori perché impennava volentieri e suonava bene, ma fumava come una locomotiva, occupava tutta la strada e frenava poco

E’ una moto nella storia e in tanti vecchi cuori perché impennava volentieri e suonava bene, ma fumava come una locomotiva, occupava tutta la strada e frenava poco. Non aiutava il fatto che il folle fosse tutto in basso, dopo la prima, con qualche patema alle prime staccate. Nonostante il gran motore, nelle gare per le derivate di serie fece fatica, fino a quando i piloti inquadrarono il problema e irrigidirono la zona di attacco del forcellone. 

E dal ’71 ecco la 750 con lo steso schema, la H2, blu la prima da noi. Ricordo benissimo la prova di Motociclismo, bella comparativa delle 750 a Monza e Vizzola. Io ero quello addetto all’accelerazione da fermo, e la Kawasaki sbaragliò la concorrenza sotto i 12” con la ruota davanti per aria fino ai 100 all’ora. A Monza però svettò la Guzzi V7 Sport. Che belva era la 750! Più a posto della 500: 74 cavalli, freno a disco da 300 all’avantreno, 195 chili, un po’ più stabile. Però il cavalletto laterale non aveva alcun sistema di avvertimento se lo lasciavi fuori. Tanti si fecero male con le Kawa. Quasi 50.000 le 750 vendute.
Il tre cilindri due tempi piaceva molto (ci sarebbe arrivata anche la Suzuki, dopo la bicilindrica 500 Titan del 1970) e allora la Kawasaki allargò il giro, sfornando in rapida successione anche la 250 (mai vista in Italia), e la 350 S2 che era una bellezza: 45 cavalli, 150 chili, 170 orari. Da noi vigeva il protezionismo, le giapponesi erano contingentate, e sotto i 380cc proprio non entravano. Con la S3, la 350 fu maggiorata a 400 dal ’75, ed ebbe un certo successo.


Poi la Kawasaki abbandonò le sue moto a due tempi, a favore delle meravigliose Z. Le moto a miscela, tranne qualche meravigliosa eccezione che racconteremo, sono passate presto di moda. Ma a molti motociclisti ancora mancano (che suoni, e che sensazioni!) e la discussione è sempre aperta. La domanda è: la tecnologia di oggi non sarebbe in grado di darci delle due tempi ecologiche? Perché sarebbe bello, ed anche economico.

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