La Dakar e la parte oscura della nostra passione

La Dakar e la parte oscura della nostra passione
Negli ultimi anni mi è parso di assistere ad una crescente consapevolezza, da parte dei partecipanti alla Dakar, della presenza del rischio in questa corsa appassionante da cui mi sono allontanato per poi riavvicinarmi | P. Batini
2 gennaio 2012

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Non è mai facile affrontare la parte oscura della nostra passione. Troppo spesso questa è dipinta dei colori dell'entusiasmo, con quella positività intransigente che accende i toni più vividi e tende a cancellare le tonalità meno avvincenti. La Dakar è una lunga storia di passione e di entusiasmi, ma è anche la storia triste di decine di tristissime vicende. La morte è l'altra facciata di uno sport rischioso, è l'emblema del rischio nella sua forma più acuta ed esemplare, ed anche, spesso, la più trascurata poichè non valutata, sottovalutata o ritenuta un evento del tutto fortuito, quindi ingestibile.

Dalla sua prima edizione la Dakar ha iniziato a contare i suoi morti. Nel 1979 fu Patrick Dodin, caduto mentre tentava di allacciarsi il casco per prendere il via della tappa Agadez - Tahoua. Il 1° gennaio 2012 è la volta di Jorge Andrés Martinez Boero, padre di una bambina di due anni, e figlio d'arte, del Campione nazionale 1982 Turismo-Strada. Per una Dakar sono morti piloti, copiloti, meccanici, giornalisti, cantanti, spettatori. Miti, personaggi indimenticabili o ai quali si era legati da un affetto al di là della relazione di ruolo, come Fabrizio Meoni. Sono morti mentre pilotavano, colpiti dalla pallottola di una disputa dissennata, come Charles Cabanne, o saltati in aria, come Laurent Gueguén, su una vecchia mina depositata per uccidere, ma in un'altra epoca non potuta cancellare completamente, travolti da un auto o da una moto in corsa. Quando un fatto luttuoso colpisce un evento sportivo, e non solo sportivo, certo, il mondo pare dividersi in più fazioni. C'è chi aggiorna il triste record, chi si sente immediatamente in dovere di condannare, chi chiama in causa il destino, chi si riferisce a circostanze del tutto fortuite, quasi estranee all'evento, chi si preoccupa di ammantare quest'ultimo di fatalismo e chi di enfatizzarne luoghi ormai divenuti comuni, come il lapidario "lo spettacolo va avanti". Il Sud America è più sicuro dell'Africa, si diceva e si dice, ma nel 2009 Pascal Terry fu trovato privo di vita tre giorni dopo essere scomparso, in Argentina. Una mostruosità incredibile, somma di circostanze paradossali, ma che ha prodotto lo stesso, infausto esito di un incidente di guida, di corsa.

Ho dovuto passare in rassegna parecchi di questi eventi, sempre troppi quando sono più di zero, ed ogni volta ho reagito allo stesso modo, incapace di reagire, inebetito dalla mostruosità del contrasto passione-morte. Incapace anche di assumere una posizione al riguardo, di intraprendere un'azione diretta tesa a lenire la tristezza. Negli ultimi anni mi è parso di assistere ad una crescente consapevolezza, da parte dei partecipanti alla Dakar, della presenza del rischio in questa corsa appassionante. Prima capitava anche di pensare che ci fosse una sorta di rifiuto, soprattutto da parte dei piloti, di ritenere la disgrazia un fatto possibile, o una possibilità che diventasse un destino proprio. E d'altro canto non mi sono mai sentito di accusare nessuno, in nessun modo, di leggerezza o di abuso di coraggio. Non per superficialità, ma semplicemente perchè emettere un verdetto così grave è di per sè un abuso, per gli uomini di questa Terra. Dalla Dakar mi sono allontanato, per poi tornarvi, spinto, respinto e di nuovo attratto dalla passione per questa avventura per molti versi straordinaria, e non solo perchè fuori dall'ordinario. Quando morì Richard Sainct, Fabrizio Meoni disse che il suo amico era morto mentre faceva quello che gli piaceva. Mi ci è voluto del tempo per pensare che non era una ragione, una spiegazione, ma semplicemente la definizione di una circostanza.
Da allora continuo a farmi la stessa domanda, ogni volta che capita, e mi rispondo che, tra le mille ragioni che determinano un fatto come quello del 1° gennaio 2012, del quale si è riluttanti a parlare, l'unica vera è proprio quella circostanza, che non modifica la gravità dell'evento e non lo posiziona in altro luogo che in un'atmosfera di indesiderata ed insopportabile tragedia.

La Dakar è ed è stata una corsa con un alto potenziale di rischio. Oggi lo è meno perchè si è cercato in tutti i modi di correre verso una sempre maggiore, seppure irraggiungibile sicurezza assoluta. Deve essere accettata, da parte di chi la vive, anche a queste condizioni, purchè se ne sia consapevoli e non si ritenga il pericolo una cosa che non ci riguarda. O rifiutata, se non c'è ragione al mondo per accettare il fatto che porti in sé la possibilità di un rischio fatale.
Non c'è ricerca di morale, in quello che scrivo, è solo un pensiero che non mi lascia da quando ho saputo, e che è costantemente rivolto a tutti i cari di Jorge André Martinez Boero, che non ho mai conosciuto ma che condivideva la nostra stessa passione.

Piero Batini

 

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