Ride in the USA: il Supercross a cinque gare dalla fine

Ride in the USA: il Supercross a cinque gare dalla fine
Pietro Ambrosioni
  • di Pietro Ambrosioni
Un bilancio sulla stagione finora dal nostro corrispondente negli USA, da sempre "insider" del mondo del Supercross
  • Pietro Ambrosioni
  • di Pietro Ambrosioni
6 aprile 2016

Mancano solo 5 gare al termine della stagione del Supercross AMA, dunque è arrivato il momento di fare qualche piccola riflessione prima del rush finale: quest’anno se ne sono viste davvero di tutti i colori e vale la pena fare un piccolo ripassino.

Vorrei parlare prima di tutto di James Stewart, tanto atteso al rientro dopo la squalifica per doping che lo ha tenuto lontano dalle gare per molto tempo. James ha avuto una stagione di alti e bassi, ma soprattutto di… bassi. Al suo debutto di Anaheim-1 è sembrato ingrassato e davvero impacciato in sella, ma si credeva che il suo talento, immenso, potesse permettergli di navigare ad alto livello in attesa di tornare in forma. Poi Dungey l’ha centrato al via del Main Event e da li è iniziato un nuovo calvario per il pilota Suzuki: commozione cerebrale, rientro affrettato a Oakland dove si è dovuto nuovamente ritirare per problemi di vista offuscata, ennesimo stop fino ad Atlanta.

James "Bubba" Stewart
James "Bubba" Stewart

In Georgia non si è fatto notare per la velocità ma piuttosto per il suo ruolo involontario nel facilitare la vittoria di Dungey all’ultimo giro. James in quel momento era doppiato ma è finito in traiettoria di Musquin, che stava conducendo la gara: Bubba ha fatto quello che doveva fare, mantenendo la sua linea, ma il francese ha avuto una piccola esitazione che lo ha quasi portato a cadere, mentre Dungey se ne passava in testa e andava a vincere. Poi è arrivata la gara di Daytona, dove Stewart ha picchiato duro “la coda” ed è tornato in panchina fino a sabato scorso, quando è rientrato per correre il Supercross a Santa Clara, a sud di San Francisco.

Qui James ha fatto vedere di essere tornato velocissimo, soprattutto sulle whoops, dove per tutto il giorno ha divorato decimi a tutti gli avversari e ne ha anche passati un bel po’ come se fossero fermi. Purtroppo per lui la sua Suzuki ha avuto problemi elettrici in finale (si parla della pompa benzina) e con una moto che scoppiettava James non se l’è sentita di continuare, seppure il tracciato fosse il meno impegnativo visto fino ad oggi in campionato. Dopo la gara non era però troppo arrabbiato, ed anzi ha confermato di aver avuto buone sensazioni in sella, soprattutto riguardo alla sua velocità, uno dei fattori principali nel suo stile di guida.

Cosa ci si possa aspettare nelle prossime 5 gare davvero non so: ormai James credo sia un’incognita anche per sé stesso, potrebbe tornare a lottare per il podio o esagerare per l’ennesima volta, tornando a scaldare quella panchina che ormai sembra segnare questa ultima parte della sua incredibile carriera.

Dopo Bubba vorrei parlare di Roczen, in sella all’altra Suzuki “buona” ma che i bene informati danno in partenza verso la HRC per il prossimo anno. Il tedesco ha avuto tre sprazzi meravigliosi che si sono trasformati in vittoria a Glendale in Arizona, a Dallas e a Toronto. Ma ha anche infilato una serie di partenze inguardabili per uno che punti al campionato, tanto da bloccarlo a pascolare in mezzo al gruppo in almeno tre occasioni. È vero che non ha mai fatto peggio di sesto, ma quando lotti con un Dungey che vince o va a podio da 28 gare consecutive (record assoluto) un sesto vale come un ultimo posto.

Ken Roczen
Ken Roczen

Il discorso titolo sembra ormai chiuso, a meno di qualche incredibile colpo di scena, ma potete giurare che Ken proverà comunque a vincere tutte le gare da qui a Vegas, sperando che possa servire a qualcosa. A Santa Clara ci ha provato e a tratti sembrava anche più veloce di Dungey, ma a cinque giri dalla fine il campione in carica è riuscito ad aprire un gap sufficiente a mettere al sicuro il risultato e il discorso si è chiuso li.

Prima di passare agli altri giovani voglio menzionare un gruppo di vecchietti che ancora hanno voglia di mettersi in gioco sulle piste del Supercross: Nick Wey è uscito dal ritiro per fare le ultime gare in sella alla Kawasaki del Team Tedder lasciata libera da Jake Weimer, ora compagno di Roczen. Josh Hansen, dopo le vicissitudini e i litigi con il promoter del campionato Arenacross in Inghilterra, è rientrato in USA e a Santa Clara si è presentato su una Kawasaki privata e Ivan Tedesco come Team Manager. Ha chiuso 13mo quindi onore al merito, perché la 450 quest’anno è davvero competitiva.

Altra Kawasaki, quella ufficiale dell’infortunato Wil Hahn, per un altro veterano: Josh Grant. Il californiano è rientrato per gioco a Daytona dove ha corso con una Suzuki privata e ha fatto settimo, attirando immediatamente l’attenzione del Team Monster Kawasaki. Da quel momento sono stati alti e bassi, ma di sicuro Grant rimane uno dei più stilosi whippatori di sempre.

Il vecchietto più famoso rimane comunque Chad Reed, che dalla zona podio di inizio stagione sta scivolando sempre più in basso. Poco male, lui mantiene il sorriso e fa da tester del materiale Factory per la sua Yamaha ufficiale, che diventerà di Cooper Webb nel 2017. A Santa Clara, dove ha testato una frizione con comando idraulico, ha avuto un sussulto e ha chiuso quarto davanti a Canard.

Jason Anderson
Jason Anderson

Chiudo con gli altri galli nel pollaio, a partire da Jason Anderson. Il pilota Husqvarna ha vinto la gara di apertura ad Anaheim 1 e in più di un’occasione ha mostrato velocità e talento da vendere. Ma ha anche attirato l’odio di molti altri piloti a causa della sua guida aggressiva e a molti sorpassi non proprio puliti. Chiedete a Cole Seely cosa ne pensa: il pilota Honda HRC, che è fermo per una microfrattura ad una vertebra, è stato più volte vittima di Anderson, come già peraltro era successo nel 2014 quando entrambi lottavano per il titolo della 250SX Costa Ovest.

In molti casi i loro contatti sono stati inutili e del tutto gratuiti, spesso nemmeno dettati dalla necessità di guadagnare posizioni o punti cruciali. Jason si è visto assegnare una vittoria in modo del tutto inaspettato a Detroit, quando la AMA ha penalizzato Dungey di due posizioni per aver saltato mentre era esposta la bandiera medica. Sono convinto che Anderson potrà essere uno dei top rider in lotta per il titolo molto presto, ma deve imparare a convivere con gli altri piloti in pista e soprattutto affinare il suo stile di guida decisamente “banzai”.

Rimane Musquin, che fino ad ora a tratti è stato magnifico e a tratti invece non sembrava nemmeno lui. Sicuramente anche il francese deve lavorare sulle partenze, perché le poche volte che era nel gruppo giusto alla prima curva poi è andato a podio o ha rischiato di vincere, come ad Atlanta, appunto.

Niente da dire su Barcia, Baggett, Pourcel e compagnia bella, tutti rallentati o fermi al palo a causa di infortuni. Idem per Canard, che a Santa Clara ha girato più forte di tutti (nella sua semifinale) ma che nel Main Event non ha raccolto molto.

Prima di passare alla più fulgida conferma del 2016 voglio parlare della maggiore delusione. Non in senso assoluto, ovviamente, ma la sola vittoria di Daytona non può bastare per uno che doveva lottare per il campionato. Mi riferisco ovviamente a Eli Tomac, la cui operazione alla spalla prima del via della stagione ha mandato un po’ all’aria tutti i piani. L’ufficiale Kawasaki, che molti si aspettavano costantemente sul podio, ha avuto una partenza lenta ed ha commesso molti errori. Kawasaki ad un certo punto è intervenuta ed ha licenziato il suo uomo sospensioni, che Tomac si portava dietro da anni: le cose sono migliorate notevolmente ma va anche detto che lo stesso Eli, in pieno recupero dopo l’operazione alla spalla, diventava sempre più forte e veloce ogni settimana. In pratica un pilota diverso ad ogni gara, ovvero l’incubo peggiore di ogni specialista delle sospensioni. In un modo o nell’altro Tomac mantiene il quarto posto in campionato, ma il suo distacco dalla vetta ammonta già a 78 punti e ovviamente il suo pensiero è ormai rivolto al National.

Eccoci infine al campione in carica, la grande conferma del 2016 dopo la vittoria fin troppo facile del titolo 2015. Ryan Dungey fino ad oggi è stato praticamente perfetto: le sue vittorie sarebbero sette se non avesse preso la penalità a Detroit di cui sopra. ma sinceramente non vedo chi potrà fermarlo nelle ultime gare da qui a Las Vegas. Gli altri hanno sempre problemi, lui trita tutto e tutti. Rimane disponibile e sorridente pur essendo sempre più sotto pressione e il suo stile in sella diventa più aggressivo e spietato con il passare delle gare, lasciando poco o niente agli avversari. Piazza quasi sempre il miglior tempo in qualifica, vince la sua heat e si mette spessissimo in condizione di scegliere bene il posto al cancelletto in finale.

Ryan Dungey. Chi altro?
Ryan Dungey. Chi altro?

Un ulteriore vantaggio che fino ad oggi si è tradotto in partenze perfette, con l’unico neo della gara di Glendale dove dopo la prima curva era solo… sesto. Finiti sono i tempi in cui esitava nei primi giri o quelli in cui triava i remi in barca pensando al campionato. Ryan è “in the zone” e corre sempre al 100% perché ormai quella è la sua unica modalità, dettata da una confidenza ed una sicurezza che negli anni recenti avevo visto solo nel miglior Villopoto.

Se prima Dungey non era il più veloce ma era senza dubbio il più regolare e costante, ora è entrambi. Magari in TV o su YouTube non si capisce bene, ma quando passa lui il motore della sua KTM urla impietoso e la manopola del gas è quasi sempre girata fino a quando non ce n’è più. E mettere a cannone un 450 ufficiale su un tracciato di Supercross è roba davvero per pochi, direi una manciata negli ultimi 10 anni…