Le 5 MotoGP peggiori della storia

Le 5 MotoGP peggiori della storia
Edoardo Licciardello
  • di Edoardo Licciardello
Non tutte le ciambelle riescono con il buco, a prescindere da competenza ed impegno delle Case costruttrici. Riuniamo i cinque peggiori flop sportivi della storia recente
  • Edoardo Licciardello
  • di Edoardo Licciardello
29 dicembre 2015

Il lavoro del progettista da corsa, soprattutto se impegnato nella massima categoria motociclistica, è a dire poco ingrato. Si lavora nell’ombra, cercando in ogni modo soluzioni che possano garantire vantaggi sulla concorrenza, e nonostante competenza, impegno, intelligenza, non è raro che idee che sembravano geniali si rivelino invece fallimenti epocali. Un po’ perché la concorrenza magari è andata ancora più avanti, un po’ perché scelte ardite ed innovative a volte portano effetti collaterali imprevedibili, o semplicemente imprevisti.

La storia è piena di esempi. Abbiamo pensato quindi di riunire i peggiori flop agonistici, guardando solo alle Case più importanti (troppo facile infierire su Ilmor o Petronas) e limitando la scelta a cinque moto, anche perché chi corre da più tempo, giocoforza, avrebbe un maggior numero di scheletri nell’armadio. Non pretendiamo l’esaustività di questa nostra rassegna, ma sicuramente riteniamo di aver messo insieme i peggiori passi falsi di ciascuna delle Case che elenchiamo. Seguiteci, e tenetevi forte…

Ducati Desmosedici GP04

Anche se parlando di Ducati collegata a “flop” tutti pensano ai due anni con Valentino Rossi, e al momento di grande confusione tecnica che ha portato all’abbandono dello schema a motore portante con telai monoscocca della GP11, riteniamo che il 2004 – per tutta una serie di motivi – sia stato peggio. Non fosse altro perché i risultati sono stati peggiori, e perché nel 2011 ci sono state tre Desmosedici diverse, fra le quali capire quale fosse la peggiore è stata impresa quasi impossibile anche per la stessa Ducati.

Facciamo un passo indietro e torniamo al 2003. Ducati entra in MotoGP con un anno di ritardo sull’introduzione della nuova formula, ma lo fa in grande stile: la Desmosedici guidata da Capirossi e Bayliss è competitiva fin da subito. A Barcellona, nei test precampionato, fa segnare velocità da spavento, Capirossi sale sul podio a Suzuka, all’esordio, ci torna al Mugello e vince al Catalunya complice un errore di Rossi. Bayliss non è da meno, e a fine anno, anche se nessuno lo dice apertamente, per il 2004 si punta al titolo.

La GP04 viene quindi completamente rivoluzionata, con l’obiettivo di diventare una moto matura sulle esperienze di quel laboratorio da GP che era la GP03. Purtroppo per Ducati, qualcosa è andato orribilmente storto. A Bologna si intestardiscono inizialmente ad usare le gomme da 17” contro il diktat di Michelin, che le ritiene ormai defunte, ne ha interrotto lo sviluppo e vuole cessarne la produzione. Alla fine Ducati si deve arrendere e passare ai cerchi da 16,5”, ma il problema più grosso è che con le gomme francesi la Desmosedici non ci va proprio d’accordo. Scarica d’avantreno e con una potenza devastante, la Ducati soffre di un sottosterzo pauroso e ha bisogno di più grip davanti.

Nel 2004 la stagione Ducati è un disastro. Il podio è un miraggio, la moto è difficile e sbatte per terra i piloti senza preavviso. Capirossi ne esce provato, Bayliss distrutto tanto che a fine anno gli viene dato il benservito e passa al team Honda gestito da Sito Pons, con una mossa che rischia di distruggere la sua carriera.

Il problema verrà risolto a fine anno con il discusso – ma con il senno di poi geniale – passaggio a Bridgestone: la Casa giapponese sta entrando nel Motomondiale con grande aggressività, ed è disposta a seguire ben quattro case costruttrici (Honda, Kawasaki, Suzuki e infine, appunto, Ducati) con sviluppi ad hoc. Nel 2005, complice una moto rivoluzionata una seconda volta, la musica cambia e Ducati ritrova la via della vittoria, gettando le basi per le due incredibili stagioni 2006 e 2007.

Honda RC212V 2007

Uno dei flop più incomprensibili della storia delle corse. Dopo soli cinque anni di MotoGP da 990cc, sotto pressioni dell’HRC il regolamento cambiò, limitando la cilindrata a 800 centimetri cubici con il pretesto di abbassare le prestazioni, aumentando così la sicurezza. Quello che si ottenne, invece, fu di costringere le Case ad investire budget mostruosi per riprogettare completamente le proprie MotoGP, stroncando sul nascere le velleità delle squadre, anche ufficiali, con finanze… meno illimitate.

Ci si sarebbe aspettati un dominio Honda, mentre invece, fin dalle prime battute, a Tokyo si accorsero di avere sbagliato grossolanamente i calcoli. Leggenda vuole che nei test sul finire della stagione 2006, a Motegi, l’allora numero uno di HRC in MotoGP, Satoru Horiike, abbia lanciato l’allarme dopo aver rilevato le velocità massime della Ducati in rettilineo: la strada intrapresa da Honda era completamente sbagliata.

E’ vero: Ducati nel 2007 non prese in contropiede solo Honda, ma proprio tutti. Ma è anche vero che la RC212V fece apparire i tecnici di Tokyo (anzi, di Asaka, dove ha sede HRC) dei poveri dilettanti. Fino all’anno precedente, la MotoGP Honda era stata ritenuta la moto più competitiva in griglia, al netto di qualche stagione quando il titolo le era stato usurpato dalla Yamaha M1, mentre nel 2007 la Honda 800 sprofondò nel baratro. Hayden, campione del mondo in carica, spiazzato da una moto minuscola (i maligni dicono realizzata a misura di Pedrosa) non vinse nemmeno una gara, riuscendo a conquistare solo tre podi. Dani Pedrosa fu più veloce, ma riuscì a vincere due gare solo dopo metà stagione quando Honda innestò la retromarcia con sonora grattata, ed imboccò la strada giusta con le evoluzioni di motore.

Il 2007, con due sole vittorie, è stata una delle stagioni peggiori di sempre per il Team HRC, e le conseguenze di quell’errore iniziale perseguitarono la squadra fino al 2010, quando la guida di Nakamoto iniziò a dare i suoi frutti. Nell’era delle 800, Honda riuscì a vincere il titolo solo all’ultimo anno, nel 2011.

Kawasaki ZX-RR 2002-2003

Il passaggio ai quattro tempi colse impreparate diverse Case che, con il tipico pragmatismo giapponese, si rivolsero alla propria esperienza racing nella ricerca di una base di partenza tecnica. Invece di ripensare tutto, ad Akashi (ma ci furono altri vittima dello stesso errore) pensarono bene di sistemare un po’ la loro ZX-7RR Superbike giocando un po’ con le misure caratteristiche, per crescere di cilindrata e partire da lì.

Un approccio tutto sommato non privo di logica, ma decisamente insufficiente in quella nuova, feroce categoria che era la MotoGP. L’operazione di rientro in grande stile, con qualche wild card a fine 2002 ed una formazione a tre punte nella stagione successiva (con Pitt, McCoy e Hofmann) risultò una vera e propria dèbacle. Le tre ZX-RR non si mossero mai dal fondo classifica – qualche commentatore ironicamente le definì “la coppa Kawasaki” perché incapaci di lottare con qualsivoglia altra MotoGP – e a fine anno l’unico elemento che impedì di vedere le tre verdone compatte in ultima posizione fu la presenza di due Wild Card, che si inserirono fra il tedesco e i due australiani.

Lenta, scorbutica e ben lontana dalle rigidità telaistiche richieste per sfruttare gli pneumatici dell’epoca, la ZX-RR pagò anche la scarsissima competitività delle gomme Dunlop, ormai impegnate nella classe regina poco più che pro forma. Il passaggio alle Bridgestone, ma soprattutto il completo ripensamento della moto, segnarono l’inizio di una certa crescita della competitività. Crescita molto lenta, che ironicamente portò la Kawasaki alle soglie del podio a fine 2008, quando la Casa di Akashi – dopo aver completamente rivoluzionato il motore, divenuto ad albero controrotante e fasatura big-bang ad opera di Ichiro Yoda, non a caso ex project leader della Yamaha M1 – decise il ritiro dalla MotoGP. La moto prò corse comunque con il marchio Hayate, con il solo Marco Melandri alla guida e con l’assistenza di quel team di Michel Bartholemy dalle cui ceneri nacque Forward Racing.

Suzuki GSV-R 2006

Abbiamo già parlato del cambio di scenario portato dal passaggio alla 800 nel caso della Honda RC 212V del 2007, e di come questo cambiamento fu pesantissimo sulle finanze delle Case costruttrici. Nel caso di Suzuki, la più piccola delle quattro sorelle giapponesi, il cambiamento penalizzò la 990 più della 800: a fine 2005, in vista dell’ultima stagione di MotoGP “quasi 1000”, la Suzuki interruppe bruscamente il lavoro di sviluppo sulla 990 per concentrarsi sulla 800.

I risultati si videro: la GSV-R si dimostrò ben poco competitiva, nonostante i due piloti Hopkins e Vermeulen non lesinassero con il gas, come si vide in prova (due pole position, una a testa) e sul bagnato. Rispetto all’anno precedente, la Suzuki apparve lenta e soprattutto inaffidabile, cosa che portò diversi insider a sostenere che il team Rizla-Suzuki guidato da Paul Denning avesse già iniziato la stagione con la 800 – cosa del resto non certo vietata dal regolamento – per portarsi avanti con lo sviluppo in ottica 2007. Suzuki non confermò né smentì mai l’illazione.

Quell’anno in effetti andò decisamente meglio, con Vermeulen autore dell’ultima vittoria Suzuki nella classe regina (a Le Mans sul bagnato), ma il 2006 fu davvero da dimenticare: Chris riuscì a salire sul podio sulla pista di casa, a Phillip Island, ma il resto dell’anno vide i due piloti del team Suzuki annaspare ai margini della zona punti.

Yamaha YZR-M1 2002-2003

Anche Yamaha ha commesso un grossolano errore di valutazione nella sua storia, all’inizio dell’epoca della MotoGP. Si tratta dello stesso errore già citato per la Kawasaki ZX-RR, anche se con l’attenuante di aver dovuto giocare a carte coperte perché, fino alla storica gara di Suzuka del 2002, i riferimenti erano del tutto assenti.

Al momento di definire la sua prima YZR-M1, Ichiro Yoda sbagliò nel valutare l’impegno della Honda. Forse sviato da un motore V5 che, svelato al pubblico con largo anticipo, aveva tutte le sembianze di un propulsore di serie, viste le finiture e i tanti punti di contatto con il V4 della RC45, anche il capotecnico Yamaha scelse di partire da una base ben nota, ovvero la R7 in allestimento Superbike.

I primi test, durante la stagione 2001, avevano visto un Max Biaggi cupo e nervoso, e tempi mantenuti segretissimi. Forse era troppo tardi per correre ai ripari, o forse, anche in questo caso, in Yamaha sottovalutarono la concorrenza: dopo i primi test con la Honda RC-V, infatti, anche Valentino Rossi si produsse in commenti men che lusinghieri, arrivando addirittura a paventare la possibilità di correre con la 500 invece che con la GP. In HRC si rimboccarono le maniche e sistemarono i problemi di maneggevolezza, in Yamaha non ce la fecero.

La stagione 2002 fu un vero disastro: la M1, partita addirittura senza sfruttare la cilindrata piena (si parlò di una cubatura attorno agli 860cc) per le convinzioni dei tecnici della non sfruttabilità della potenza ottenibile, si dimostrò lenta, goffa ed impacciata. Biaggi ci vinse due gare – a Brno, ovviamente, ed in Malesia – ma in maniera fortunosa, perché quell'anno i piloti Honda in sella alla RC211V (Rossi e Ukawa, a cui si aggiunse a fine campionato anche Barros) erano praticamente imprendibili.

L’anno successivo andò anche peggio, perché senza Biaggi – passato armi e bagagli alla Honda privata del Team Pons – il team ufficiale naufragò completamente, con un solo podio ad opera di Alex Barros. Solo a fine 2003, con l’arrivo di Masao Furusawa, la Casa di Iwata imbroccò la strada giusta introducendo l’albero motore con fasatura crossplane, divenuto poi caratteristica distintiva non solo delle MotoGP Yamaha, ma anche delle sue supersportive YZF-R1 a partire dal 2009.

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