I racconti di Moto.it. "Moto a valvole"

I racconti di Moto.it. "Moto a valvole"
Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
Orazio suonava in una band, gli “Scena del Crimine”, e quella sera si esibiva per quindici ragazzi con una bionda in mano, capitati quasi per caso in quella “Festa della Birra” organizzata da un gruppo di volenterosi bikers locali...
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
22 maggio 2015

Orazio suonava in una band, gli “Scena del Crimine”, e quella sera si esibiva per quindici ragazzi con una bionda in mano, capitati quasi per caso in quella “Festa della Birra” organizzata da un gruppo di volenterosi bikers locali.


Alla fine dell’ultimo brano le luci sul palco vennero frettolosamente spente e, senza parlare, Orazio mise la Fender nella tracolla mentre i cavetti e l’effetto a pedale trovarono posto dentro una borsa laterale della sua motocicletta, quindi salutò tutti con un gesto della mano e salì in moto preparandosi ad affrontare la strada, improvvisando senza spartito percorsi e traiettorie; la motocicletta era la sua passione e il suo rifugio dalla frustrazione dei piccoli deludenti palchi di provincia senza pubblico, puro godimento della strada e dei pensieri che vagavano nella testa in un ritorno a casa di duecento chilometri lungo le statali, perché con la chitarra legata alla sella più veloce di ottanta non si può.


Orazio oltre ad essere uno straordinario chitarrista diplomato al conservatorio, era un appassionato elettrotecnico e assemblava artigianalmente “stomp box”, quegli oggetti ai piedi dei chitarristi che se premuti modificano e arricchiscono il suono della chitarra. Per se stesso aveva costruito un distorsore a valvole grosso, grasso e pesante, cui aveva dato come nome “rabbia”, verniciandone e serigrafandone personalmente il box metallico: un bel lavoro, sia tecnico che artistico.
 

Il faro della sua moto aggrediva la notte e montava l’insoddisfazione di avere passato dieci anni al conservatorio aspirando a diventare un musicista professionista dai guadagni dignitosi; tuttavia, il massimo ricevuto erano attestati di stima onestamente insufficienti a ripagare le aspirazioni deluse cui seguono compressione delle proprie speranze e, deflagrante, uno scoppio tanto più potente quante più attese si erano introdotte nella camera di combustione dei desideri.


Ci voleva una scintilla, l’accese Barbara; storia finita da un anno con strascichi amari non ancora svaniti.

 

Orazio si innervosì, raggiunse il punto morto superiore dei suoi pensieri e pestò compulsivamente sulla leva del cambio, invece di salire di rapporto mandò il motore fuori di testa scalando scelleratamente dalla terza alla seconda e bloccando la ruota posteriore; magari era stato un riflesso condizionato dovuto all’abitudine di premere i pedalini degli effetti: una decisa botta al distorsore a volte cambia il sapore di un brano; a volte, non sempre.

 

La motocicletta sobbalzò al ritmo di sette ottavi, la strumentazione fece la stroboscopica e in un lampo più forte degli altri si spense del tutto, seguita dai fari, dall’impianto di iniezione e dalla scarsa voglia di mantenere la calma.

 

Iniziò a piovere. Poche gocce, ma bastarde, costrinsero Orazio a scendere dalla motocicletta e spingerla fino al primo ponte di quella statale che non era esattamente il miglior posto dove lasciare la moto per la notte.

Chiamò al cellulare uno degli organizzatori della “Festa della Birra”, ma quel telefono era spento. Fece lo stesso con Alessandro e Davide, il bassista e il batterista della “Scena del Crimine”, i loro cellulari squillavano a vuoto e Orazio, vergognandosene un po’, diede un calcio alla ruota anteriore mentre scriveva dei messaggi.

 

  • “Non rispondono?” – disse una voce nell’ombra. Orazio non controllò un balzo per la sorpresa.

  • “…” fu l’unico commento di Orazio.

 

Affermava di chiamarsi Eva. Avrà avuto forse vent’anni ma sosteneva di averne venticinque. Aveva un tatuaggio sul collo che sembrava un graffio e un altro sulla guancia che sembrava un edema. Era una prostituta dai capelli corti e la faccia monella nascosta da un albero.
 

Orazio era un motociclista, ma in quel momento era solo un chitarrista rimasto a piedi di notte. Dimostrava più dei suoi ventotto anni. Su ogni arto aveva tatuati un pistone e una biella, Eva quando li vide si mise a ridere. Lui iniziò ad aggredire con l’arma della leggerezza la situazione nella quale si trovavano e scordò di nutrire il suo malumore, ma la cosa che più piacque ad Eva fu il mutismo sorridente che non dava ascolto al telefono che squillava e il suo essere motociclista anche se a propulsione umana.


Anche il telefono di Eva squillava; lei lo guardava con timore, lo prendeva tra le mani e zittiva la suoneria mentre parlava e rideva: ogni altro rumore oltre la pioggia era molesto in quello strano incontro felice.

 

Dopo mezzora arrivò un automobile, indugiò un poco all’altezza del ponte, quindi ripartì velocemente. Tornò dopo cinque minuti, si fermò e ne scese un uomo brutto che corse verso Orazio, lo prese per la mascella e lo sbatté a terra, gridandogli di non fare perdere tempo a Eva. Gli disse di andarsene altrimenti lo ammazzava e mentre lo diceva menava calci, Orazio terrorizzato cercava di raggiungere la sua motocicletta.
 

Eva urlava di lasciarlo stare, che non stavano perdendo tempo ma contrattando il prezzo e che se continuava sarebbe scappata, ma l’uomo diventò ancora più irragionevole e con un malrovescio sfracellò Eva sull’asfalto bagnato.

 

  • E quanto gli hai chiesto, mille euro? Tu stai qui per lavorare non a fare conversazione!!

  • Lucio sei un porco maledetto… - ringhiò Eva.

 

Nel frattempo Orazio aveva raggiunto la sua motocicletta e estratto “rabbia” dalla borsa laterale, brandendo il pedale come un’arma. Ognuno combatte con le armi che ha.
 

Lucio lo guardava quasi divertito e con un coltello in mano. La motocicletta puntava il faro spento verso di loro, anche se si capiva subito che faceva il tifo per Orazio. Non lo so perché, ma si capiva.

 

Lucio si avventò verso Orazio però che fu più rapido e lo colpì con “rabbia” sulla testa con forza alimentata dalla paura di non farcela. Lucio stramazzò al suolo, Orazio arretrò di qualche passo. Eva era sciolta nelle sue lacrime.

L’uomo rimase a terra immobile, perdeva sangue dalla testa. Eva si avvicinò e lo smosse con un piede.
 

  • l’hai ammazzato!

  • “…” – commentò Orazio.

 

Dovevano sparire alla svelta. Eva lo avvertì che sicuramente sarebbe arrivato qualcun altro a controllare.

Orazio non era Dio, come poteva levarsi di lì senza lasciare traccia? Prendere la macchina di Lucio sarebbe stato come firmare l’omicidio e garantirsi, se non la galera, almeno un colpo di fucile da parte del racket della prostituzione. Dovevano dissolversi, scivolare via come quella pioggia sporca che batteva sull’asfalto e sulla loro innocenza. Orazio si sentì impotente. Si arrabbiò come quando, quindici anni prima, perse la parola a causa del disumano sentimento di impotenza di fronte all’arresto di suo padre la mattina nella quale fu ritrovato il cadavere di sua madre.

 

La moto doveva partire ad ogni costo: prese “rabbia” e con le sue capacità di elettrotecnico, ne collegò il circuito a quegli irragionevoli cablaggi della motocicletta che partono da qualche punto e arrivano non si sa mai veramente dove. Magari c’è pure qualche filo messo lì solo per confondere le idee o forse ce n’è uno proprio per questi casi di emergenza, era la speranza di Orazio, il cavo che si connette a Dio. Pestò col pollice l’interruttore del pedale, le valvole si illuminarono e girò la chiave. La moto collaborò, smentendo tutti quei luoghi comuni che le vogliono senza cuore.

 

Eva prese il posto della Fender che gettarono nei campi a lato della strada e abbandonarono definitivamente la scena del crimine a bassa velocità: nascosti a casa di Orazio aspettarono, sperarono.

Alle quattro di mattina qualcuno suonò al citofono chiedendo del chitarrista muto proprietario della motocicletta parcheggiata accanto il portone. Orazio, con la cornetta del citofono in mano disse “sono io, scendo”.

Eva rifiutò sempre di sapere cosa si dissero Orazio e i due uomini col casco in testa, intuì qualcosa solo un anno dopo, quando nella loro nuova casa in un’altra città, un pomeriggio di giugno un ragazzino di dieci anni consegnò loro una lettera da parte del padre di Orazio, la prima in sedici anni di reclusione.

 

Ciao Orazio,

voglio dirti bravo. Qui in carcere le voci corrono e so che hai ripreso a parlare ma solo adesso riesco a scriverti perché ‘ste carogne mi fanno mancare pure carta e penna. Il mese prossimo esco perché ho scontato tutte le condanne che avevo accumulato e a quella vecchia storia dell’omicidio non possono più attaccarsi perché, come sappiamo entrambi, l’unico presunto testimone ha perso la parola, almeno fino ad un anno fa. Anche io sono stato muto per tutti questi anni che ho passato qui dentro, i magistrati hanno cercato di farmi parlare ma io i miei amici (quelli che nell’ultimo anno ti hanno dato i soldi per la tua bella azienda che mi sembra produce centraline elettroniche per motociclette, o una cosa di queste) non li tradisco.

So pure che la tua ragazza prima faceva un certo mestiere e che il suo capo era Lucio Frazzetta, un idiota che stava sul cazzo a tutti, e se qualcuno lo ha ammazzato io e tutti quelli che ce l’avevano con lui gli possiamo solo dire bravo, questo qualcuno ci ha fatto un favore e si è guadagnato la riconoscenza della famiglia. Tanto era solo questione di tempo e sarebbe morto comunque.

Stammi bene, ci vediamo.”


Orazio fece leggere la lettera ad Eva, poi la stracciò in minuscoli pezzi cui diede fuoco in un posacenere.

  • Eva, dobbiamo andare. – disse Orazio.

  • Dove?

  • Troveremo un posto.

  • Ma… come, quando?

  • Questa lettera è un avvertimento. Se lo sa lui, lo sapranno tutti da qui a poco. Buoni e cattivi. Prendiamo la moto e andiamo via senza farci vedere da nessuno, non portare niente. Fidati.

  • Non porto niente?

  • Magari una cosa…

  • Cosa?

  • Rabbia.