Dakar. Intervista a Gio Sala, l'ultimo italiano a salire sul podio

Dakar. Intervista a Gio Sala, l'ultimo italiano a salire sul podio
Il campione bergamasco è stato l'ultimo italiano a salire sul podio della mitica corsa a tappe. Correva l'anno 2006 e la Dakar era ancora africana. Il Gio ci racconta la sua impresa otto anni dopo
5 febbraio 2014


L'edizione 2014 della Dakar si è conclusa con la bella vittoria dello spagnolo Marc Coma. All'arrivo sono giunti anche due italiani, a cui vanno ancora i nostri complimenti: si tratta dei bravissimi Paolo Ceci e Luca Viglio. Tosti e caparbi a finire la corsa, ma comunque lontani dal podio.
Un podio che da otto anni non vede protagonista un motociclista del nostro Paese. L'ultimo è stato il pilota di enduro che più allori ha regalato all'Italia (ben 6 i titoli conquistati). Parliamo di Giovanni Sala, il mitico Gio.
Il campione bergamasco è stato l'ultimo italiano a salire sul podio della mitica corsa a tappe. Correva l'anno 2006 e la Dakar era ancora africana. Gio ci racconta la sua impresa otto anni dopo e i tanti aneddoti che lo hanno accompagnato.
L'Africa era una terra difficile, dove perdersi per un errore di navigazione poteva avere conseguenze drammatiche.

L'intervista


Giovanni, ripercorriamo la tua carriera, quante Dakar hai corso?
«Ho corso 10 Dakar, dal 1998 al 2007. Nella prima ricevetti i complimenti da Peterhansel per come guidavo e per averla finita, è stato bello vederlo guidare nel deserto. Però devo aggiungere che a un chilometro dal Lago Rosa ebbi una caduta fortissima, la più brutta della mia vita, ma comunque terminai. Le ho corse tutte in Africa. Delle 10 ne ho terminate 7, le altre 3 a casa in "barella"».

Qual è stato il miglior risultato? Eri un portatore d'acqua, ti lasciavano correre anche per la vittoria personale tua?

«La Dakar mi affascinava molto, quindi chiesi io a KTM di poter partecipare, ovviamente ero un pilota nel team dell'enduro e loro avevano già i piloti di punta per correre i rally, quindi mi coinvolsero per lo sviluppo sin dal debutto della 660. Poi con Fabrizio Meoni abbiamo avuto l'opportunità di sviluppare la LC 8 bicilindrica e poi di correrci.
In Africa Giovanni ha accompagnato alla vittoria grandi campioni come Meoni e Coma
In Africa Giovanni ha accompagnato alla vittoria grandi campioni come Meoni e Coma


Così in gara ho sempre avuto il ruolo di portatore d'acqua, con il dovere di aspettare e in caso intervenire, se i piloti di punta avessero avuto bisogno.
Solo quando partivo alle spalle potevo fare la mia gara, e infatti ho vinto anche qualche tappa, ma il giorno dopo, che poi partivo per primo, sapevo già che avrei dovuto rallentare, quindi le motivazioni per il risultato erano quelle che erano. 

In ogni caso nel 2006 ero d'aiuto a Coma, e lui vinse. Poi visto che non ha avuto nessun problema ed era sempre tra i primi, feci la mia gara e terminai sul podio in terza posizione».


Sei l'ultimo italiano salito sul podio. Che ricordo hai?

«Ero talmente contento che, per farlo sapere a tutti, scrissi su un foglio "SONO FELICISSIMO" e lo mostrai sul podio in modo che fotografi e televisioni potessero dirlo al mondo!».

Nel 2007 hai fatto un incidente tremendo. L'Africa era forse troppo pericolosa? 

«Alla Dakar ho avuto le più brutte cadute della mia carriera motociclistica. Nel 2007 fu una caduta in velocità,  venni lanciato dalla sella, rotolai per decine di metri, ma fortunatamente, a parte diverse contusioni, mi lussai solo una spalla. 

Sala alle prese con un guado africano
Sala alle prese con un guado africano

L'Africa potrebbe risultare più pericolosa del Sud America per diversi fattori, ad esempio la lunghezza delle tappe, delle speciali e della gara stessa, poi già i trasferimenti erano su piste accidentate e non su asfalto. Le tende nei bivacchi erano meno confortevoli, specialmente nei giorni con tempesta di sabbia, dei camper che si usano nelle Dakar di oggi. 
Non dimentichiamo poi che ora si corre con le 450, che se pure raggiungono forti velocità, hanno un peso nettamente minore, e questo è un fattore importantissimo per la sicurezza».


Ti mancano quelle corse?

«Ovviamente decidere di non correre più la Dakar è molto dura, ma nel 2008 ci rimandarono tutti a casa e così fu più facile il distacco dai rally».

Come facevi a adattarti a quelle moto pesanti e veloci? Tu sei abituato alla mulattiera.

«Infatti la prima parte della Dakar per me era tremenda, la moto aveva reazioni a cui ero poco abituato o che  avevo dimenticato. Immagina di prendere una buca a oltre 100 Km/h con una moto pesantissima: reagiva in maniera diversa da quella d'enduro, per non parlare degli spazi di frenata».

Immagina di prendere una buca a oltre 100 Km/h con una bicilindrica: reagiva in maniera diversa da una 450, per non parlare degli spazi di frenata!


La navigazione era difficile? Ti sei mai perso o hai avuto paura? Raccontaci un episodio particolare.

«In Africa le piste sono tantissime e spesso difficili da vedere perché sono percorse principalmente da animali, e quindi poco marcate, poi il vento le cancella e se si deteriorano, e naturalmente non vengono ripristinate, ma ne vengono aperte di nuove parallele alle vecchie, che poi si ricongiungono, si intrecciano o si accavallano, e in questa "matassa" di tracce ci sono anche quelle che vanno in altri posti, e interpretare quella giusta quando vai di fretta in gara, non è facile.

La notte al bivacco, al riparo della tenda. Non c'erano camper nel continente nero
La notte al bivacco, al riparo della tenda. Non c'erano camper nel continente nero

 Sì, mi sono perso, ma poi quando la nota seguente non corrispondeva, non ho mai preso iniziative e sono ritornato esattamente a dove sapevo che era il percorso giusto.
Il problema è che in spazi come nel Sahara, ti può non tornare la nota dopo 30 minuti che stai guidando, e ritornare indietro non è così facile perché spesso il vento, sempre presente, cancella le tracce.
Solo una volta mi preoccupai, ero alla prima Dakar e mi infilai giù per un canyon dal quale non riuscivo più a uscire per la pendenza.
Credo di essere l'unico che ha spinto la moto alla Dakar come se fossi su una mulattiera Bergamasca!».


Gio, hai seguito la Dakar? Come ti è sembrata questa edizione?

«Sì, la seguo proprio su Moto.it grazie a Piero Battini che con la sua esperienza riesce a carpirne le sfumature, poi la seguo in TV per le immagini (anche se propongono troppa "Francia", tralasciando spesso piloti di altri paesi nonostante meritino). 
Dai commenti di alcuni piloti sembra sia stata piuttosto dura, anche se sento che le difficoltà spesso vengono dall'altitudine o in alcuni tratti per la presenza di Fesh Fesh».

I piloti hanno lamentato l'eccessiva durezza delle prime tappe. Eppure i primi non sembravano così provati, mentre gli amatori sono stati decimati. Credi ci siano privati che si presentano al via senza la giusta preparazione?

«Consideriamo che nella lista dei partenti troviamo una bassissima percentuale di professionisti e tantissimi che durante l'anno fanno tutt'altro che guidare una moto, a parte nei week end. Nei mesi precedenti fanno un allenamento dedicato ma, per quanto intenso, non è sufficiente a essere pronti a guidare per 13 giorni su percorsi insidiosi. Quindi ecco che diventa facile vedere tanti ritiri».

Cos'è successo a Despres? Quest'anno non è mai stato in partita.
«Sicuramente il cambio di casacca non ha giovato, infatti sviluppare una moto nuova nel giro di un anno non è facile, poi credo che anche per lui gli anni inizino a farsi sentire. Non sulla preparazione ma sul ritmo che alcune volte porta a prendere rischi, e con la caduta del secondo giorno, la cosa si è accentuata».

Il podio del 2011: Gio allora era manager di Coma, che vinse la gara
Il podio del 2011: Gio allora era manager di Coma, che vinse la gara

Barreda e la Honda sono stati una bella sorpresa, ma poi hanno perso consistenza. Cosa ne pensi del pilota e della moto?
«Barreda è da anni che si fa notare per la sua velocità, anche se spesso è condizionato da cadute che gli hanno compromesso la gara. Ultimamente è migliorato molto e non cade tanto come prima e sopratutto sta migliorando la sua abilità nel navigare, quindi più che chiamarla "una sorpresa" la considero la maturazione di un ottimo pilota. 
La moto ha bruciato le tappe per arrivare a essere così competitiva in un paio di stagioni, certo quando parli del più grande costruttore di motociclette e con un reparto corse come la HRC, non poteva che essere così, comunque è bella e va bene, quindi non si può che apprezzare».


Perché gli italiani non vincono più? Eppure nel motorally ci sono tanti giovani che corrono. 

«Accade questo perché in Italia team e sponsor non hanno un grande interesse alla specialità dei rally per investire concretamente su qualche giovane e farlo maturare in questo tipo di gare.
Infatti le partecipazioni degli italiani sono fatte di piloti che devono fare i salti mortali per procurarsi il budget per correre. I soldi dei loro sponsor vengono investiti per il team o per la moto. Così vai avanti 3 o 4 anni, ma poi abbandoni, e quelli che hanno degli sponsor è perché hanno già fatto qualcosa in carriera, e ciò vuol dire che non sono più giovanissimi.
Qualche giovane c'è, però non vengono indirizzati ai grandi rally, ma tenuti a correre in Italia, a parte qualcuno che fa qualche sporadica apparizione. Ma sostanzialmente il motorally ha poco a che vedere con i grandi rally.
In Italia la navigazione si sviluppa in spazzi ristrettissimi e si passa il tempo più a leggere che non a guidare. Ad esempio il rally di Sardegna, che è il più grande rally italiano, si sviluppa su spazzi che quasi non equivalgono a una tappa della Dakar. Poi non si usa il CAP, cosa fondamentale nei rally, e i percorsi sono completamente diversi, infatti ottimi piloti di motorally li ho visti annaspare nei rally, sia per i terreni, per la velocità e perfino anche per il tipo di navigazione».

2006. Sala è terzo al traguardo!
2006. Sala è terzo al traguardo!


Come mai gli spagnoli sono così forti? Dove si allenano?

«Gli spagnoli sono così forti perché fanno l'esatto contrario di noi, sponsor e team investono sui giovani per farli correre nei grandi rally e solo qualche apparizione nei rally nazionali, che in ogni caso si sviluppano in aree decisamente più vaste che da noi. 
Per gli allenamenti quando correvo per gli spagnoli nel Team Repsol, ci si spostava in Marocco, visto che è molto comodo per loro, oppure in Andalusia che offre aree molto grandi e percorsi semi desertici».


Picco e altri big sono tornati in sella. Tu lo rifaresti?

«Sinceramente no, anche nell'enduro dove ho più abilità che non nei rally ho deciso di chiudere con le gare, perché quando hai la testa per andare forte ma non sei più assecondato dai riflessi, credo sia meglio smettere, poi ora che ho mio figlio Raùl e non riuscirei a stargli tanti giorni lontano!».

L'Africa ti lascia un'esperienza incredibile nel cuore e al ritorno ti fa apprezzare tutto quello che hai

Però di' la verità, un po' ti manca l'Africa.
«Una sostanziale differenza tra partecipare a una Dakar in Sud America o in Africa è che indipendentemente da come è andata la gara o il risultato, l'Africa ti lascia un'esperienza incredibile nel cuore e al ritorno ti fa apprezzare tutto quello che hai.

Quante volte mi dicevo: pensa, posso far scendere l'acqua direttamente in casa e come non bastasse decidere se calda, tiepida o fredda. Oltre alle altre tantissime comodità che abbiamo in un paese evoluto come il nostro e che tutto sommato è molto simile al Sud America, quindi non ti lascia alcuna sfumatura e tutto si riduce al risultato in gara. 
Questo lo dico perché nel 2011 ho partecipato come team manager di Coma e quindi so cosa lascia questa esperienza quando rientri in Italia».
 

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