Dakar 2015. Italiani, Paolo Ceci

Dakar 2015. Italiani, Paolo Ceci
Piero Batini
  • di Piero Batini
Quattro italiani e una italiana hanno portato a termine la 37° edizione della Dakar. Ciascuno di questi ha vissuto la propria… odissea. Sentiamo Paolo Ceci, per il secondo anno consecutivo migliore dei nostri|P.Batini, Buenos Aires
  • Piero Batini
  • di Piero Batini
19 gennaio 2015

Punti chiave

Buenos Aires, 18 Gennaio 2015. Dei 10 motociclisti al via soltanto quattro sono riusciti nell’impresa. A questi si aggiunge naturalmente Camelia Liparoti, che ha portato a termine la sesta, personale Dakar. Sono Marco Brioschi, Matteo Casuccio, Paolo Ceci e Diocleziano Toia. In ordine alfabetico, perché a nessuno dei 4 interessava la classifica. Comunque, per stare nelle classifiche per un attimo, Paolo Ceci è per la seconda volta consecutiva il migliore degli italiani, 14mo, pur avendo un compito preciso ovvero quello del “portatore d’acqua” del boliviano Juan Carlos Salvatierra, poi ritirato prima di entrare nel suo Paese. Sentiamo Paolo Ceci.

«È andata bene, sono contento. Sai, bisogna tenere conto che avevo un ruolo un po’ particolare, e in questi casi ti può andare bene bene, o male male. Sono dispiaciuto perché ci tenevo che Salvatierra potesse finire la sua gara, anche perché poteva fare un buon risultato. D’altra parte mi sono trovato libero di fare la mia gara e l’ho fatta sempre con la mia mentalità di sempre. Andare via tranquillo e non fare errori, cercare di non danneggiare la moto. Alla fine devo riconoscere che la regolarità premia sempre. È chiaro, non posso aspirare a una top ten, anche allenandomi di più e meglio il livello è talmente alto! Già guardando l’elenco dei partenti, quest’anno entrare nei venti era una cosa difficile, e invece sono arrivato 14°»

Regolare vuol dire arrivare sempre? Lo hai fatto anche dopo il ritiro di Salvatierra

«Senz’altro sì. Io ne ho fatte quattro e le ho finite tutte, due volte nei venti e due nella top… 15. Sono davvero contento. Quando Salvatierra si è ritirato io ho continuato con la mia strategia. È chiaro che finché c’era lui io dovevo cercare di amministrare un po’ di più, ma in realtà non è cambiato molto. Ho continuato con il mio passo e con la mia testa. Martellare tutti giorni ma senza rischiare, e alla fine facendo così, vuoi per quelli che si eliminano da soli, vuoi per quella bella giornata di navigazione, la tappa che portava a Calama nella quale sono riuscito a prendere il famoso waypoint pensandoci un attimo con la massima lucidità, ecco, lì ho fatto un “salto”. Lì avrò perso cinque minuti, contro gente che ha perso il waypoint o ci ha messo quaranta minuti a trovarlo»

Dakar sempre particolare?

«Sì, la Dakar è sempre una gara a sé, “particolare” come diceva Fabrizio. Devi usare la testa e preservare la moto. Io ho fatto così, la mia moto, una “clienti”, probabilmente meglio di tante ufficiali, non mi ha dato nessun tipo di problema. Sentivo di Case che ogni giorno o due facevano almeno cilindro e pistone, io niente, non ho fatto nulla, solo olio e filtro, e la moto è andata sempre benissimo»

Dici di non essere da primi dieci, ma hai messo in mostra ancora una volta una grande consistenza…

«Io sostengo che la Dakar la fa la “testa” almeno per il 50%, e ci metto che fa anche la strategia di gara. Quello che mi manca sicuramente è che ogni anno scopro che farò la Dakar all’ultimo momento. Io non faccio il pilota di professione, di lavoro ho una scuola di fuoristrada, enduro e rally. È vero, vado molto in moto, ma per insegnare ad altri e non per allenarmi quanto dovrei per fare una Dakar. Scoprendo tardi di poterla fare mi metto sotto, ma non basta per andare forte. Per andare forte in una Dakar come questa, devi incentrare la stagione degli allenamenti sulla Dakar, e devi venire ad allenarti in Sud America, perché i sudamericani hanno un vantaggio enorme, e i piloti “top” vengono ad allenarsi qui. Il Sud America è veramente durissimo. Non ho mai fatto una Dakar africana, ma ho fatto molte gare in Africa e devo dire che qui i terreni sono molto più duri. Poi ci sono le tappe lunghissime, i mille chilometri. Magari a casa ti vengono a dire: “Va bè, ma sono 500 di asfalto!” Ma, dico io, i 500 di asfalto spesso ti massacrano di più dei 300 di speciale, e poi alla fine della giornata li hai fatti tutti, 900 o mille. E poi il fesh-fesh. L’altro giorno avremo fatto 100 chilometri di fesh-fesh, una roba che chi non ha provato non può neanche immaginare. O il secondo giorno, con le dune per 100 chilometri e un caldo micidiale. Per fortuna gli organizzatori hanno eliminato la parte finale, ma in corso d’opera, io li avevo già fatti tutti. Un’altra cosa è l’altitudine, è difficile ambientarsi, e da noi come si fa ad allenarsi in altura? Magari prendi quella pasticca che hanno e usano qui, ma in realtà è una roba blanda, ed è un diuretico, e quindi ogni cinque minuti ti scappa e ti devi fermare. Insomma, la Dakar andrebbe presa con un allenamento specifico molto duro. Per parte mia, in queste condizioni, il 14° posto mi soddisfa in pieno»

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