Dakar 2015, Italiani: Diocleziano Toia

Dakar 2015, Italiani: Diocleziano Toia
Piero Batini
  • di Piero Batini
“A me mi ha salvato il fisico!”. Così la vede Diocleziano Toia, uno dei quattro italiani all’arrivo di Buenos Aires. Non senza complicazioni…
  • Piero Batini
  • di Piero Batini
26 gennaio 2015

Diocleziano Toia va in moto da fuoristrada dal 2011. Prima, Supermotard e Rally in macchina. Ha iniziato pensando, senza mezzi termini, di poter fare un giorno la Dakar. Faraoni burrascoso il primo anno, inesperienza e molte cadute, poi meglio l’anno successivo, sesto. Nel 2013 sta fermo per quasi tutta la stagione per non intaccare il salvadanaio, parte per la sua prima Dakar nel 2014 ma è presto costretto al ritiro a causa di una caduta. Nel frattempo non ha mai trascurato la preparazione fisica, un suo antico pallino che alla fine si è rivelato un tassello fondamentale dell’impresa Dakar 2015.

Ma il fisico non basta, ci vuole sempre anche la testa. Presente, con un’attitudine speciale a prendere il meglio della vita cercando di sorvolare sulle contrarietà. La Dakar di Toia non è stata facile, tutt’altro, e sin dal presupposto di iscrizione era impostata nel modo più “tremendo”, ovvero in quella categoria di puristi che fanno tutto da soli e che si appoggiano al camion delle “malles”, cioè delle casse di ricambi trasportate dagli organizzatori. Vedremo più avanti, in una trattazione specifica, come questa soluzione sia sempre di più, inevitabilmente, terrificante.

 

Comunque Diocleziano questo voleva, e questo ha ottenuto con una forza di volontà stratosferica… aiutato dal fisico da marcantonio.

«A me mi ha salvato il fisico! Ho avuto anch’io tutti i problemi del mondo, come tutti o quasi tutti alla Dakar, e più volte mi sono visto al capolinea ma sono sempre riuscito a superare il momento critico, con un po’ di fortuna, che è sempre necessaria, stringendo i denti e non dandomi mai per vinto. Per quanto riguarda l’avventura direi che quest’anno lo è stata davvero, ancor prima dell’inizio con la clavicola rotta e l’universale parere contrario al fatto che io potessi partire per la Dakar. Di fatto non sarei rimasto a casa per nessuna ragione al mondo, ma mi è servito per allontanare definitivamente anche la più pallida idea di un’eventuale classifica finale. La missione si è concentrata sul fatto di andare via tranquilli e di cercare di portarne almeno una in cantiere».

La preparazione fisica è stata fondamentale per Toia
La preparazione fisica è stata fondamentale per Toia

E poi ogni giorno un’avventura nell’avventura.

«Sì, ogni giorno me ne è capitata di… ogni. La mia moto non era freschissima, era una di quelle usate dell’ex team Bordone con Ceci e Botturi, non so, e non era freschissima. Ho cambiato il motore, ma evidentemente la Dakar non consuma solo i motori. Sta di fatto che ogni giorno ne capitava una. Dalle perdite di lubrificante alla frizione, alla scomparsa all’improvviso del pignone. Alla fine devo dire che è stata un’ottima esperienza, sia dal punto di vista “meccanico”, ho imparato a star dietro alla moto, che dal punto di vista dell’addestramento fisico. Una prova davvero eccellente sotto tutti i punti di vista».

Dunque è possibile ipotizzare un tuo ritorno l’anno prossimo?

«Al 100% sì, ritornerò alla Dakar, ancora con la “malles moto”. Sicuramente, però, farò tutto il possibile perché sia con una moto nuova. Sempre senza assistenza, voglio fare ancora tutto da solo. E’ una formula che mi piace e che, mi sono accorto, è molto seguita. Inoltre è una categoria nella quale posso aspirare ad ottenere anche un risultato. Per chi non lo fa di mestiere, un podio o un risultato è praticamente impossibile. Niente da fare contro i “pilotoni”, inutile farsi delle illusioni e pensare di arrivare nei primi dieci, quindici o anche venti. Quindi mi pare che puntare a una classifica relativa ai privati senza assistenza, quelli che sono costretti a fare tutto da soli, possa essere anche una aspirazione “arrivabile”. È molto più dura, devi dimenticarti di dormire (ci sono stati giorni, quest’anno, in cui ho riposato un’ora, o niente affatto) ma è molto bello».

 

Dunque ti “ha salvato il fisico”. Soltanto quello?

«Sotto un certo aspetto sì. Trovo anzi che se la Dakar durasse tre settimane invece di due potrei anche arrivare nei dieci. Scherzi a parte, ho imparato molto sulla resistenza, fisica naturalmente ma anche, e forse soprattutto, psicologica. Ci sta la caduta, ci sta la moto che si rompe, ma io ritengo che una moto muova ti salva molte situazioni e ti risparmia ore di tormento, e una preparazione fisica adeguata ti tiene in forma anche… la testa».

 

Giorni difficili…

«Il secondo giorno, sicuro, lo è stato per tutti, ma io ci ho messo il carico da undici. Si è crepato il barilotto del filtro esterno dell’olio, e mi dovevo fermare ogni venti, trenta chilometri, smontare tutto e rabboccare con olio di ogni tipo, tutto quello che riuscivo a trovare. In più il caldo asfissiante e il fesh-fesh. Massacrante. Mi sono visto oltre il limite del fuori tempo massimo. Il giorno dopo idem: prima la frizione da riparare e poi, a causa della fretta, il pignone perso nel deserto. Dovevo ritrovarlo, non avevo altra scelta né alternativa, ci ho messo più di un’ora e l’ho ritrovato, ma sono stato vicinissimo ad alzare bandiera bianca. Ma non poteva essere così due anni di fila, guai, e ho tenuto duro. Poi i momenti difficili di tutti, come i giorni in Bolivia. Io avevo anche rotto il manubrio, ma fare tutta la tappa sotto l’acqua, e ripartire la mattina dopo con gli indumenti fradici e cinque gradi scarsi là fuori… è stata dura».

Pilota e meccanico - un doppio impegno massacrante
Pilota e meccanico - un doppio impegno massacrante

Il famigerato attraversamento del Salar?

«Il lago salato te lo immagini come la grande pista delle altissime velocità. Niente di tutto questo. Lì, paradossalmente e a parte le difficoltà oggettive, ho avuto fortuna. Con il manubrio rotto il giorno prima e riparato con fil di ferro e fascette, dovevo fermarmi ogni tanto per stringere il “pacchetto”. È così che alla fine del Salar, in uno di questi controlli, mi sono visto offrire dell’acqua dai tifosi boliviani. Acqua? Non vi pare che ce ne sia già abbastanza? Ma no, acqua dolce, per lavare i radiatori incrostati di sale, ed evitare il surriscaldamento e la cottura del motore come è successo al “Bottu”, a Viladoms o ad altri».

 

E il contesto generale della Dakar, ti è piaciuto?

«A me è piaciuta tanto, mi hanno fatto impazzire soprattutto argentini e boliviani per la carica e l’amore che ci hanno dedicato. La gara è molto bella, anche se basata molto sulla resistenza che sull’abilità di guida, almeno ai nostri livelli. Non troppa navigazione, a dire il vero, forse per aiutare i Piloti più giovani e inesperti, ma c’è di tutto. Bella tosta!»

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